Sorella radio: Cenerentola da Firenze.

Cenerentola_FirenzeLe celebrazioni per il centocinquantenario della scomparsa di Gioachino Rossini proseguono con una Cenerentola, proposta all’Opera di Firenze e ripresa dal terzo canale della radio pubblica. Naturalmente si tratta di una nuova produzione e, per l’occasione, gli speaker non hanno mancato di sottolineare, tanto nella presentazione della serata quanto nelle interviste agli interpreti, proposte nell’intervallo, il carattere innovativo della proposta. Che non risiede, ovviamente, nella scelta del titolo, uno dei più amati ed eseguiti anche nei c.d. tempi bui della negligenza e incuria filologica, ma nell’allestimento che, nel fare piazza pulita dei frusti luoghi comuni che ammorbavano la prassi esecutiva delle opere comiche del Pesarese, al tempo stesso dona nuova evidenza alla figura della protagonista, eroina femminista, anzi umanista, che da fanciulla inesperta si scopre donna e consapevole delle proprie aspirazioni e potenzialità. Non avendo alcuna intenzione di “tirare via” tempo e soldi per andare sino a Firenze ad assistere a questo ennesimo frutto del teatro di regia (bastando e avanzando quelli finora degustati in teatri più vicini), ci accontentiamo della proposta radiofonica e osserviamo che:
– per condurre in porto un’operazione di ripudio e abiura delle cattive abitudini del passato sarebbe in primo luogo cosa opportuna proporre l’opera nella sua integralità, anche e soprattutto sotto il profilo dei recitativi, che qui sono invece, davvero secondo deteriore tradizione, tagliuzzati, la vicenda resa in alcuni punti incomprensibile, il dialogo sensibilmente indebolito. Da notare come spariscano non solo gli interventi di Alidoro nel secondo atto, utili a chiarire la natura assolutamente premeditata dell’”incidente” che condurrà nuovamente don Ramiro al palazzo di Don Magnifico, ma persino i complimenti, di dubbio gusto e irresistibile effetto comico, del finto principe all’indirizzo delle sorellastre (passaggio successivo alla cavatina “Come un’ape ne’ giorni d’aprile”). Per non parlare poi del coro di apertura del secondo atto, “Ah della bella incognita”, senza il quale la successiva osservazione di Don Magnifico (“Mi par che quei birbanti / ridessero di noi sotto cappotto”) semplicemente non ha senso. L’obiezione che la musica del suddetto coro non è di Rossini, bensì di Luca Agolini semplicemente non regge, dal momento che tutti i recitativi secchi dell’opera sono opera del medesimo collaboratore.
– Sempre parlando di scelte testuali, non si capisce per quale ragione ostinarsi a proporre l’aria di Alidoro “Là del ciel”, composta da Rossini per una ripresa del titolo, in luogo della più breve e molto più abbordabile “Vasto teatro è il mondo”, opera dell’infaticabile Agolini. Al netto di ogni condivisibile giudizio di valore, quando si disponga, come per l’appunto a Firenze, di un basso (Ugo Guagliardo) che non possiede la cavata del basso autentico, ovvero la voce nobile e ampia che spetta ai personaggi seri anche nel contesto dell’opera di mezzo carattere, che fatica a emergere negli ensemble e annaspa nella prevista coloratura (introduzione, quintetto, finale primo), molto meglio evitare magre figure. L’alternativa all’aria di Agolini potrebbe essere, al limite, quella offerta dall’edizione in lingua russa con Zara Doloukhanova, in cui la protagonista interpola la cabaletta di Malcom al posto dell’assolo di Alidoro. Ma anche in questo senso, al Comunale, c’è poco da scialare.
– In un’edizione dichiaratamente incentrata sul protagonismo assoluto della diva troviamo, infatti, Teresa Iervolino, reduce da un deficitario Arsace a Venezia, che smessi i panni del giovane guerriero veste con altrettanta imperizia, aggravata dalla tessitura assai più acuta e che batte sul passaggio superiore della voce, quelli della mesta e coraggiosa eroina delle fiabe. A suoni enfi in basso e vuoti al centro corrisponde infatti un registro medio-alto non solo schiettamente sopranile, ma sistematicamente ghermito e gridato, caratteristiche che, ben evidenti sin dalla canzone con cui si presenta il personaggio, emergono prepotenti al duetto con Ramiro e trovano la propria apoteosi nell’entrata alla festa del finale primo e soprattutto nel rondò conclusivo; in questo punto peraltro le variazioni del da capo non sono autentiche variazioni, bensì maldestri rappezzi, che spesso si risolvono in staccati di dubbio gusto musicale e pessima qualità esecutiva. E, va da sé, poca o punta malinconia, che in un personaggio come Cenerentola non può che essere veicolata da una voce morbida e priva di peso, tanto negli andanti dei concertati quanto nel virtuosismo del “Non più mesta”.
– Un po’ meno deficitario il Ramiro di Diego Godoy, che esibisce una voce di buona qualità a condizione che la scrittura non valichi i primi acuti, colonne d’Ercole oltrepassate le quali il tenore cileno si dimostra, a esser buoni, un dilettante. Basta sentire la chiusa dell’aria per rendersene conto. A suo onore va detto che le variazioni adottate in quel punto sono davvero complesse e musicalmente valide. Non altrettanto può dirsi dell’esecuzione.
– Sempre per smentire la fola che questa Cenerentola manderebbe in soffitta i discutibili cachinni della tradizione basta ascoltare uno qualsiasi degli assoli di Luca dall’Amico quale don Magnifico. La comicità del personaggio, affidato a un esecutore di voce legnosamente tenorile e incapace di eseguire i sillabati, si riduce all’esibizione, peraltro neppure sistematica, della “erre” moscia. Nonostante le difficoltà nel mantenere l’intonazione e nell’eseguire con la doverosa fluidità una parte irta di ogni virtuosismo vocale, gli è superiore il Dandini di Christian Senn, che risulta, se non altro, più controllato almeno sotto il profilo espressivo.
– Giuseppe Grazioli conduce in porto dignitosamente la sinfonia ma, nel resto dell’opera, è difficile rinvenire tracce di una concertazione degna di questo nome: i cantanti sembrano, il più delle volte, abbandonati a se stessi (con momenti di prevedibile caos alle strette degli ensemble), non consigliati (o almeno non dissuasi) nell’esecuzione delle variazioni, le scene si succedono senza che l’elemento patetico riesca a fondersi con quello comico. Il tono che predomina è quello della farsa, piuttosto meccanica e comunque poco divertente, gravata com’è da tutti i limiti ricordati. Cenerentola è, nel catalogo delle opere semiserie rossiniane, quella in cui il perfetto amalgama delle varie componenti risulta più complesso da ottenere, e proprio per questo richiederebbe e meriterebbe una direzione di ben diverso calibro.
Spiace fare queste osservazioni, ma di fronte a una critica e ormai anche a un pubblico che non sanno andare oltre la laudatio temporis praesentis (magari condita dall’uso di discutibili parole chiave o hashtag da bimbominkia alle soglie dell’età pensionabile), un ascolto consapevole e un po’ di memoria del passato non possono suggerire il silenzio o riflessioni di altro tipo.

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19 pensieri su “Sorella radio: Cenerentola da Firenze.

    • Vado a risentirmi quella Cenerentola, con essa intendendo quella di Serafin. Ne approfitto per dire che ben o mal diretto Serafin eseguì più titoli rossiniani di Zedda o di Mariotti (sic! che metro di paragone offensivo per il povero Tullio)in epoca dichiarata di reiezione del povero Rossini… E che il suo Rossini tragico davanti alle marcette ed alla meccanicità del post Abbado (anche qui offendiamo l’originale che per limiti propri non diresse mai il Rossini tragico) di cui ultimo esemplare la Semiramide veneziana ha un significato ed una coerenza. Nonostante i taglio (che facevano anche i mentori della Rossini renaissance a partire dal rondo di Almaviva sempre omesso da Abbado)

      • Ciao Domenico. In effetti mi riferivo al suo Rossini “buffo”, quello di Barbiere e appunto Cenerentola. Pesantissimo e totalmente privo di ritmo e humor….risentiti il rondò della Simionato in quella incisione, poveretta, ancora un pò e la fa deragliare…

  1. >”Non avendo alcuna intenzione di “tirare via” tempo e soldi per andare sino a Firenze ad assistere a questo ennesimo frutto del teatro di regia “< : -)))))
    Comodo far la critica e il pseudo critico con… la radio degli altri. Manco il pigro Isotta "tirerebbe via" (o Paolo Isotta si nasconde qui?).
    Fatevi dare gli accrediti dall'Ufficio Stampa del Maggio, vedrete che ve li daranno!

    • l’accredito stampa dovrebbe oggi essere chiamato in altro modo…. termine abolito ben 60 anni or sono con l’entrata in vigore della Legge Merlin. Sono cresciuto in un’epoca in cui il corsera si pagava quattro poltrone una delle quali veniva data al critico perchè svolgesse la propria attività professionale.

    • Come se avessimo bisogno di “accattare” biglietti! Sappiamo bene che cosa i teatri si aspettano (e ricevono) in cambio di simili favori. Personalmente sono orgoglioso di poter dire che tutto quello di cui scrivo (spettacoli, cd) è pagato con i miei soldi. Preciso che anche il canone RAI è una forma di finanziamento di questi “edificanti” spettacoli. Dimenticavo: sempre sul pezzo il nostro Giulio, sempre nel merito degli spettacoli e delle osservazioni relative.

  2. Perfettamente d’accordo sui rilievi circa i brani composti da Agolini, e sul fatto che sarebbe stato meglio eseguire la prima versione dell’aria di Alidoro.
    Per il resto, la recensione è sicuramente distorta dall’ascolto radiofonico, tanto che si valuta positivamente un elemento del cast, il tenore, che in teatro era pressoché inudibile, mentre le parti femminili almeno potevano passare oltre l’orchestra. Si valuta anche positivamente la sinfonia, che all’ascolto dal vivo risultava talmente piatta che, cosa che rarissimamente ho visto accadere per le sinfonie di Rossini, manco è stata applaudita.

    • Condurre in porto dignitosamente la sinfonia non significa dirigerla bene, ma, se non altro, evitare di perdere il controllo delle varie sezioni e farle arrivare alla fine tutte assieme (più o meno). L’assenza dell’applauso mi turba fino a un certo punto (in genere, per farlo scattare, basta ormai una bella “raffica” di timpani e grancassa in chiusa al brano). Certo i microfoni aiutano le voci piccole, ma risulta curioso che il tenore fosse, dal vivo, di volume anche più ridotto rispetto alla protagonista, che in un teatro miniatura (rispetto al fiorentino) come la Fenice aveva sì e no la voce di una comprimaria. C’è anche da dire la scrittura di Arsace non è favorevole a una voce che sarebbe, in natura, di mezzo acutissimo, se non addirittura di soprano.

    • molto tempo fa quando fummo oggetto di pubblica contumelia ed insulti scrivemmo un pezzo intitolato, credo, “negri froci ebrei e grisini……” per dire che ci vuole sempre qualcuno con cui prendersela… e chi se ne frega. Ieri una amica ed insegnante ha commentato un pezzo di uno dei nostri più solerti detrattori e firma di spicco di un prono quotidiano, dicendo “donzelleggia…….” . Sono soddisfazioni…

  3. Il rischio – se si considera l’opera d’oggi ormai defunta e se ne voglia comunque parlare – e’ quello del menu’ invariato: limitarsi a scrivere perenni necrologi con annessi ascolti del bel tempi che furono. Comprendo dunque la sopraggiunta afasia di M.me Grisi.

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