Festival Donizetti: Elisabetta al castello di Kenilworth

Il corriere della Grisi non poteva mancare la ripresa di Elisabetta al castello di Kenilworth, proposta lo scorso novembre. Ed ancor più doveva recensire lo spettacolo per i suoi lettori. Alcuni di noi, ormai stagionati ascoltatori assistettero nel 1989 al teatro Donizetti alla prima proposizione del titolo, protagonista Mariella Devia, che principiava le velleità di prima donna tragica applicata al melodramma del primo Ottocento. Qualcuno potrebbe dire che Jessica Pratt ha preso il posto della Devia in questo repertorio; certamente il soprano australiano è uno dei motivi di interesse di questa ripresa, non il solo.
Un primo motivo di interesse è come Donizetti se la sia cavata alle prese con un titolo pensato per Napoli e di struttura rossiniana napoletana. Questo non significa che Donizetti “rossineggi” e copi il modello perché da un lato ha già autonomia melodica e compositiva (era e lo ha dimostrato la proposta di Enrico di Borgogna un ottimo allievo di un grande maestro come Simone Mayr) senza assurgere né qui né poi alla genialità del pesarese e, quindi, di rossiniano o di rossinismo c’è soprattutto lo schieramento vocale che presenta due voci femminili come Elisabetta o Mosè in Egitto ed altrettante maschili una delle quali Giovanni David ossia il tenore contraltino rossiniano per antonomasia. Che poi soprattutto nel personaggio ed anche nella scrittura vocale più rossiniana negli accidenti che nella sostanza riservata alla bustocca Adelaide Tosi, che non era un mostro di qualità interpretative, ma una impeccabile virtuosa si senta il richiamo alla più famosa Elisabetta è vero, ma non la qualità precipua dell’opera. Napoletano è anche l’impianto drammaturgico finale che impone il finale lieto con lo svettare della prima donna (sempre la Tosi), ma Donizetti è già lui nelle melodie delicate e languide, che in maniera lombarda, ovvero manzoniana, esprimono il dolore e la sofferenza. Di questa strada nuova, che sarà la strada di Donizetti di lì ad un anno con la Bolena (sia nella protagonista che nel piegato e piagato Percy) si avrà l’exploit. Qui abbiamo nella cornice e nella struttura rossiniana quello che di lì ad un anno diventerà un grande operista italiano.
Con queste linee guida sul podio ci vorrebbe ben altro che la minestrina amministrata e menata da Riccardo Frizza, che addormenta, ammorbidisce e rende noioso qualsivoglia titolo affronti. Aveva scempiato la genialità di Semiramide a Venezia, ha rovinato l’onestissimo artigianato di questo titolo. Quale dei due peccati sia il capitale ignoro, ma i tempi lenti e letargici, gli accompagnamenti da farsetta o titolo buffo quando entra Elisabetta, ossia la primadonna tragica, o la mancanza di languore e tenerezza quando è in scena Amelia, che è la vera amorosa dell’opera sono errori capitali, che affossano questo tipo di melodramma e la sua poetica. Suono orchestrale oltre che meccanico modesto, mai un abbandono, mai un momento di slancio contrapposto al languore. Poi il pubblico può anche proclamare la mediocrità di questo lavoro, ma un siffatto imposto orchestrale e di concertazione non aiuta, anzi penalizza. Confrontate la sola aria di sortita accompagnata da Latham Koenig, mediocre e fragoroso direttore, che va un poco più spedito di Frizza ed Eliasabetta non diventa una regina, ma accresce in regale autorevolezza benchè affidata alla schietta voce di soprano leggero della Devia 1989.
Si diceva dell’interesse che la presenza di Jessica Pratt ricopriva. Il soprano australiano ha acquistato in un teatro di limitate proporzioni (che erano però la media dei teatri in cui le Tosi, Boccabadati, San Carlo e Scala esclusi si esibivano) una certa ampiezza che le consente di cantare questi personaggi. Premesso che Jessica Pratt dovrebbe, a prescindere dai sovracuti, interpolati con facilità e dovizia, cantare ruoli collocati una terza sopra questo, l’astrattezza rossiniana la trova assai più completa che l’accento donizettiano che è già romantico. Canta bene, spesso benissimo, salvo una frase al duetto con il tenore al secondo atto, che ha evidenziato come nei momento di sdegno e furore come un tempo più sostenuto avrebbe evitato difficoltà di intonazione, ma resta una grandissima rossiniana imprestata al melodramma successivo. Ottimo impresto, chiaro, ma sempre prestito. Elvira dei Puritani, il ruolo di Jessica Pratt perfetto, lo è perché pensato per una cantante che era uno strepitoso soprano da Rossini.
Se escludiamo la difficoltà a salire a piena voce (un repertorio ondivago dal soprano leggero a quello drammatico di agilità quasi pre Verdiano non aiutano a conservare dolcezza, morbidezza e pieghevolezza della voce) Carmela Remigio, l’autentica amorosa dell’opera se l’è cavata bene nonostante un’organizzazione vocale provata e senza il trionfo della Pratt nell’aria dell’ultimo atto che è il pezzo migliore dell’opera ha avuto molti e condivisibili applausi.
Applauditi anche i tenori e qui dissento da pubblico della domenicale perché Francisco Brito nel ruolo di Leicester la parte di David sale senza il vero appoggio della voce e senza il vero sostegno del fiato, come ha insegnato Florez, e quindi se anche regge la tessitura acuta non può certo sbalordire per la facilità in quella zona, che dovrebbe essere coniugata alla dolcezza ed al languore. Quanto all’antagonista Stefan Pop la scrittura vocale davvero centrale lo esenta dalle forzature e dai suoni scadenti che esibisce in Verdi, per la gioia dei cosiddetti appassionati verdiani che amano il canto di sforzo e di gola, ma la vocalità post rossiniana richiede altro legato, altra pieghevolezza, altra morbidezza.

4 pensieri su “Festival Donizetti: Elisabetta al castello di Kenilworth

  1. Io non c’ero però devo dire che mi ha sorpreso la valutazione positiva della Remigio anche se le tue competenze non mi fanno dubitare sulla bontà della sua esecuzione. Il catalogo donizettiano é molto vasto e presenta molte opere alcune rarissime ma questa però la trovo interessante perché ricorda comunque a noi quello che era il panorama musicaleoperistico medio. Questa diciamo sta un po’ sopra e qui sta il senso della riproposizione. Occasione mancata per me purtroppo.

Lascia un commento