Vivaldi secondo Manuel García, III puntata. Stabat Mater RV621

antonio_vivaldi_1Il 19 settembre 1939, Alfredo Casella decise di presentare nella Chiesa dei Servi a Siena, in occasione della “Settimana Vivaldiana” da lui stesso organizzata, alcune delle più significative composizioni vocali di musica sacra di Antonio Vivaldi, che erano state appena scoperte in un Fondo della Biblioteca Nazionale di Torino. Dovendo scegliere quelle che meglio rappresentavano, a parer suo, il gusto e lo spirito musicale del Prete Rosso, il compositore torinese optò per un Credo non identificabile, il Gloria RV589, un Mottetto sacro e lo Stabat Mater RV621, inno che, da quel momento in poi, sarebbe diventato uno dei più significativi testimoni dell’avventura vivaldiana nella musica sacra.

Lo Stabat Mater RV621 rappresenta un caso assolutamente unico non solo all’interno della letteratura vivaldiana ma anche e soprattutto nella parabola della musica barocca e tardo barocca italiana. La prima ragione riguarda il testo, attribuito con qualche dubbio a Jacopone da Todi. Questo testo, o meglio sequenza, venne musicato, com’è noto, da numerosissimi compositori, da Alessandro a Domenico Scarlatti, da Agostino Steffani a Antonio Caldara, da Emanuele d’Astorga al celeberrimo Giovanni Battista Pergolesi, compositori che però adottarono il testo medievale nella sua totalità, cioè musicando tutte e venti le stanze scritte dal poeta umbro più, ovviamente, l’Amen finale. Lo Stabat Mater vivaldiano ci appare profondamente diverso: questo perché Antonio Vivaldi musica soltanto le prime dieci stanze. Il motivo è presto spiegato.

Nel 1712, pochi mesi prima che Vivaldi prendesse il posto del collega Gasparini presso l’Ospedale della Pietà come maestro di coro e che quindi iniziasse a comporre musica religiosa con una certa regolarità, giunse al Prete Rosso una commissione dalla Chiesa e Convento Filippino di Santa Maria della Pace di Brescia: si trattava appunto di uno Stabat Mater da comporre per Vespri durante le due Festività dei Sette Dolori della Beata Vergine Maria (ossia il 15 settembre e il venerdì precedente il Venerdì Santo), circostanza liturgica che prescriveva lo Stabat Mater cantato come inno in dieci stanze, e dunque non come sequenza.

A questa necessaria brevità testuale Vivaldi affianca una struttura musicale ciclica ed omogenea, altrettanto essenziale. I movimenti 1-3 (sul testo originale le stanze 1-4) presentano la stessa musica dei movimenti 4-6 (sul testo originale le stanze 5-8). Soltanto i movimenti 7 e 8 cioè le stanze “Eia Mater fons amoris” e ” Fac ut ardeat cor meum” vengono musicate a parte. Oltre a questa ciclicità Vivaldi opta per una omogeneità armonica e ritmica del tutto singolare. Tutti i movimenti sono impostati su tempi lenti (ad eccezione dell’Amen finale) e sulla tonalità di fa minore, con però frequenti modulazioni interne alla sua dominante (Do minore) e alla sua relativa maggiore (La bemolle maggiore).

  1. Stabat Mater dolorosa – Largo (fa minore)
  2. Cuius animam gementem – Adagissimo (fa minore)
  3. O quam tristis et afflicta – Andante (fa minore)
  4. Quis est homo qui non fleret – Largo (fa minore)
  5. Quis non posset contristari – Adagissimo (fa minore)
  6. Pro peccatis suae gentis – Andante (fa minore)
  7. Eia Mater fons amoris – Largo (fa minore)
  8. Fac ut ardeat cor meum – Lento (fa minore)
  9. Amen – Allegro (fa minore)

Per quanto riguarda l’organico strumentale Vivaldi predilige l’organizzazione tradizionale di I e II violini, viole e basso continuo. Assolutamente particolare è invece la scelta vocale, ovviamente se paragonata agli Stabat Mater coevi. Se Alessandro Scarlatti e Pergolesi optano per una scrittura a due voci (soprano e contralto), Agostino Steffani e Domenico Scarlatti per una scrittura altamente contrappuntistica a, rispettivamente, 6 e 10 voci, Antonio Vivaldi invece affida questo inno ad una sola voce, molto presumibilmente un castrato, rendendo così questo inno una composizione molto vicina alla cantata per voce solista. La scelta del castrato è facilmente spiegabile. Le esecuzioni nell’Ospedale della Pietà a Venezia non avvenivano probabilmente in luoghi sacri ma in sale dello stesso Ospedale e dunque le donne potevano essere ammesse e suonare musica. Questo Stabat Mater venne però scritto per una Chiesa, luogo sacro dunque, dove le donne non potevano per alcun motivo esibirsi in attività musicali.

Il primo movimento, sostenuto costantemente da un basso continuo in crome, appare caratterizzato da un ritmo ampio e cantabile. Nella breve introduzione strumentale la tonalità di fa minore, che appare chiara e sicura fin dalle prime tre note, viene alterata da leggere tensioni e piccole dissonanze, che si risolvono tornando alla tonalità iniziale per introdurre la voce solista. Voce solista che, se nelle prime battute replica il tema iniziale, segue poi la propria strada in una serie di piccole e discrete ornamentazioni e modulazioni dove però la scrittura non supera mai il si4. Notevole, come in altre pagine dello stesso repertorio, è il virtuosismo che Vivaldi richiede al solista: questa scrittura, seppur centrale e comunque lineare nei suoi sviluppi ritmici ed armonici, è ricca di mezze voci, di piccole forcelle e lunghe arcate sonore che solo una voce con un impeccabile controllo del fiato riesce ad eseguire con la giusta delicatezza.

Il secondo movimento si apre in uno stile quasi recitativo, ricco di tensioni armoniche per poi seguire una scrittura tradizionalmente vivaldiana: un singolo aggregato ritmico – melodico viene ripetuto due o tre volte, se non di più, a diverse altezze armoniche modulando delicatamente per chiudere il movimento sul quinto grado di fa minore: do minore. Elemento che caratterizza quasi interamente il terzo movimento, “O quam tristis”: la tendenza, squisitamente vivaldiana, di sistemare in varie combinazioni piccoli aggregati musicali diviene ancora più evidente. Il gruppetto ritmico ternario di quattro sedicesimi più ottavo, alterato in varie forme armoniche, diviene l’elemento essenziale su cui la voce solista costruisce una frase musicale molto più virtuosistica rispetto agli altri movimenti: degna di nota una piccola e centrale cadenza di otto battute in sedicesimi e trentaduesimi sulla prima vocale “poenas”.

Saltando i movimenti successivi che, come abbiamo visto, presentano la medesima organizzazione musicale, passiamo al settimo movimento, “Eja Mater”, tutto costruito su un sottile espediente ritmico già varie volte usato da Vivaldi in alcune situazioni stereotipate: si stratta della cosiddetta formula ritmica “saccadè”, cioè l’uso ripetitivo del gruppo puntato (sedicesima puntato + trentaduesimo), che il Prete Rosso applica, con notevoli salti di ottave e anche none, a scopo descrittivo per imitare lo schiocco delle frustate. Su questa originale base ritmica la voce solista si impone con una frase musicale di grande ampiezza, dolcezza e respiro che, in un voluto contrasto col “saccadè” spigoloso e conciso, conferisce a questo movimento una teatralità e un fascino che al pubblico dell’epoca dovette certamente apparire sorprendente.

Dopo un ottavo movimento in uno stile squisitamente concertante comodo e disteso, Vivaldi chiude lo Stabat Mater con un Amen, unica pagina in Allegro, estremamente asciutto e sintetico che va a risolversi, dopo un denso dialogo tra solista e orchestra, in una potentissima terza piccardia: dopo aver strutturato, non solo l’Amen finale, ma tutto l’inno nella tonalità di fa minore, Vivaldi, seguendo una tradizione di origine quattrocentesca, pone il punto finale con un accordo di fa maggiore, tanto affascinante quanto teatrale nell’incertezza e tensione armonica che riesce a conferire a tutta composizione.

Nella sua affascinante essenzialità compositiva, questo Stabat Mater appare ancora oggi come una delle pagine più brillanti del Vivaldi sacro: se da un lato appare evidente la grande abilità strumentale e armonica del compositore veneziano, abilità già messa alla prova e dimostrata nelle raccolte violinistiche pubblicate degli anni precedenti alla composizione di questo inno, del tutto nuova, nella traiettoria artistica di Vivaldi, è invece la sapienza nella scrittura vocale, sapienza non ancora sperimentata se non in esperienze effimere e fugaci. Vivaldi mostra una notevole intelligenza nella scrittura vocale, nella collocazione e nello sviluppo delle cadenze, nel dialogo così come nell’armonizzazione col basso continuo e archi. Una conoscenza non comune per un autore fino a quegli anni dedito quasi esclusivamente alla musica strumentale, ma sicuramente ereditata dal padre, musicista a San Marco, e soprattutto dal suo maestro Giovanni Legrenzi, assistente maestro di cappella presso la medesima Chiesa. Ma quello che più sorprende, e che si perderà in parte nella sua frettolosa e superficiale attività da operista, è la grande sensibilità e gusto teatrale, capace di tradurre in musica le sottili sfumature emotive del testo di Jacopone da Todi.

Sergiu Celibidache, M. Hoeffgen, Orc. Scarlatti della Rai di Napoli, 1959

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Christopher Hogwood, J. Bowman, The Academy of Ancient Music, 1976

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