"Di tanti palpiti, di tante pene"


Heinrich Heine ha scritto: “O Rossini, divino maestro, Sole d’Italia che spandi su tutta la terra i tuoi raggi sonori, perdona i miei compaesani che ti insultano a colpi di carta e d’inchiostro. Ma io mi beo dei tuoi fasci di luce melodici, dei tuoi smaglianti sogni che, come farfalle, mi danzano intorno e mi baciano il cuore con le labbra delle Grazie”. Queste parole, scritte nel 1830 dal poeta tedesco, mostrano, meglio di altre, sia la fama raggiunta da Rossini in tutta Europa (Stendhal lo battezzerà il Napoleone della musica, conosciuto da Mosca a Napoli, e la cui gloria non aveva limiti “se non quelli del mondo civile”) sia l’esatta portata delle concezioni estetiche del suo teatro.
Rossini, infatti, rimane saldamente ancorato ad un mondo governato dall’armonia della Ragione, dall’equilibrio e dall’ordine, ogni suo lavoro tende a quel Bello Ideale che trascende i sensi per tradurre l’esperienza estetica in metafisica. In tutti i suoi lavori – anche in quelli più “rivoluzionari” del periodo napoletano – Rossini non abbandonerà mai questo archetipo ideale (anche se ne dilaterà le forme sino al limite estremo), questa ricerca della Forma, rifuggendo sempre i nuovi fremiti e i bollori dell’incombente Romanticismo, coi suoi clamori, le sue emotività, la sua irrazionalità. Un inattuale dunque, Gioachino Rossini, sospeso tra due mondi, l’uno morente, l’altro non ancora nato. E lontano dalle tempeste del nuovo secolo e dalle facili illusioni dell’avvenire, rimase a coltivare e a cercare di salvare dallo scorrere senza freno della Storia, la poetica del Bello (il Bello Sublime), poi inesorabilmente spazzata via dal Tempo e dalle disillusioni (e forse proprio l’impotenza di fronte ad un nuovo mondo che non gli piaceva e a cui sentiva di non appartenere, fu il motivo del ritiro precoce dalle scene, appena trentaseienne e all’apice del successo). Non a caso l’altro grande inattuale del secolo, Goethe, ammirò Rossini ed in particolare il suo Tancredi, la cui musica gli riaffacciava alla mente il sogno di una riconquistata, o forse perduta, classicità. E pure Stendhal riconobbe in Tancredi l’illusione di una nuova Arcadia, e ritenne che questa fosse l’opera più grande scritta dal pesarese.
Tancredi, melodramma eroico in due atti, fu la vera prima grande opera seria di Rossini (dopo una comunque ragguardevole serie di già maturi lavori, la cui “diversità” rispetto ai contemporanei, e difficoltà esecutiva – soprattutto nella scrittura orchestrale – gli valse il soprannome di tedeschino). Scritta per Venezia nel 1813, significò per l’autore la conquista delle platee nazionali e internazionali (conquista subito rinforzata, nel medesimo anno con il primo capolavoro comico, L’Italiana in Algeri). Dunque il successo. E la gloria. Ma con essa anche l’invidia. E di gloria e invidia è testimone il dileggio perpetrato dal compassato e serioso Richard Wagner (dimentico dei tanti debiti verso l’opera italiana e i suoi autori, tra cui ovviamente Rossini) nei Meistersinger quando ridicolizzò proprio una melodia di Tancredi, l’ormai famosissimo “Di tanti palpiti”. Ma per quanto sgradevole e stupido, questo episodio mostra la popolarità del genio pesarese e della sua fortunata creatura (popolarità, successo e soddisfazione che resteranno sempre, per lo stolido Wagner, un motivo di grettezza, rabbia e ingratitudine – e dopo Rossini, l’insoddisfatto bidello del Walhalla se la prese col povero Donizetti). Ma che cosa rappresenta Tancredi per Rossini? Innanzitutto geometria, armonia ed equilibrio nella ricerca di un Bello Ideale che è più illusione che realtà. E a questo ideale ogni cosa viene sacrificata: i sentimenti, i caratteri, i personaggi, il dramma (Baricco lo definisce con efficacia “preistoria del Dramma, che dramma non conosce”). In Tancredi si unisce la compostezza della tragedia classica all’astrattezza e all’innocenza della figura dell’Eroe. Da queste concezioni estetiche ne discende ovviamente un preciso panorama musicale, sia nel trattamento dell’orchestra che in quello delle voci. La vocalità di Tancredi è ispirata a questa classicità astratta, fin dalla scelta del protagonista en travesti (che richiama alla memoria l’epoca ormai tramontata e gloriosa dei castrati) e dalle geometrie di cadenze, agilità, abbellimenti. Stessa geometria che si rivela nella struttura dell’opera: introduzione, cavatina, duetto… Ovvio, dunque, che a tale forte idealità, e alle sue regole formalmente inscalfibili, deve ispirarsi ogni incisione di tale capolavoro per riuscire nel proprio intento, quello cioè di rappresentare il difficile equilibrio di dramma e ragione, illusione e disillusione, eroismo e sconfitta, astrattezza e affetti.
Premetto alla disanima delle incisioni, che non appare questa essere la sede più adatta per dar conto della storia compositiva dei due finali (Venezia e Ferrara), delle problematiche che essi comportano e delle loro differenze musicali e strutturali, mi limiterò solamente ad indicare, di volta in volta, quale finale è stato scelto. Per togliere ogni dubbio dico subito che, a mio avviso, solo una cantante ha saputo rendere alla perfezione tutto ciò che Rossini comunica e scrive: Marilyn Horne. La Horne semplicemente è Tancredi. Se si osserva la discografia si noterà che non molte sono le incisioni disponibili: 1978 diretta da Gabriele Ferro; 1983 diretta da Ralf Weikert (con la Horne nel ruolo del titolo); 1994 diretta da Alberto Zedda; 1996 diretta da Roberto Abbado; 1999 diretta da Gelmetti.
Ognuna di queste ha caratteri peculiari e spunti più o meno interessanti, ma ovviamente solo quella con la Horne del 1983 mostra di aderire perfettamente a quell’estetica del Bello Ideale e dell’astrattezza belcantista che restano oggettivamente i caratteri peculiari di ogni Tancredi (in particolare) e i paletti interpretativi entro i quali restare nell’affrontare l’intero teatro musicale di Rossini (in generale).
E allora iniziamo proprio da questa incisione: oltre alla Horne presenta l’Amenaide di Lella Cuberli, l’Argirio di Ernesto Palacio e l’Orbazzano di Nicola Zaccaria. Della protagonista si è già detta l’assoluta perfezione nel superare ogni difficoltà della partitura con sicurezza e disinvoltura: le agilità sono fluide e scolpite (vere agilità di forza, come si addice all’eroe), gli acuti sono sicuri, i centri caldi, e i bassi espressivi e cantati (non parlati o “ruttati” come capita spesso di sentire). Semplicemente perfetta. Non c’è da aggiungere nulla. Sullo stesso livello la Cuberli, che dona ad Amenaide un giusto tono elegiaco e trasognato che evidenzia il contrasto con il carattere eroico di Tancredi. Palacio fa quel che può, certo dopo Merritt e Blake, è cambiata l’idea del tenore rossiniano, ma allora quello era il massimo che si potesse avere. Ovviamente il confronto con le protagoniste è impietoso, ma Palacio esegue il compito fino in fondo e si può dire egregiamente, eseguendo pure la difficile aria del secondo atto (spesso tagliata). Gli altri personaggi sono ottimo contorno. Weikert (che certo non è Karajan) accompagna con gusto e una certa leggerezza, senza intromissioni e seguendo i cantanti in modo diligente, certo la Sinfonia iniziale e i preludi all’aria di Amenaide e alla Gran Scena di Tancredi (con quegli accenti beethoveniani) meriterebbero di più, ma non ci si può certo lamentare. L’opera è eseguita con il finale tragico di Ferrara ed è pressocchè integrale, con solo pochi tagli nei recitativi secchi e una piccola limatura nel Coro finale dei Cavalieri (N. 16 II A).
Torniamo indietro al 1978, la prima vera incisione completa dell’edizione critica firmata da Philip Gossett (se si eccettua quella incisa da Perras per la Maison de la Culture di Rennes nei primi anni ’70, in realtà poco più che un saggio). A fianco della splendida Amenaide della Cuberli, Tancredi è Fiorenza Cossotto, che mostra non poche difficoltà, soprattutto nei duetti, ma che, intelligentemente, non potendo inseguire l’eroismo del personaggio con agilità di forza e accento eroico, risolve Tancredi interiorizzandolo e dandogli una patina elegiaca che, seppur distante dagli intenti di Rossini, appare piacevole all’ascolto e per certi versi convincente. Certo i problemi talvolta emergono: soprattutto negli acuti e nelle agilità a volte un pò pasticciate. Ciò che però delude maggiormente è il contorno: e se l’Orbazzano di Ghiuselev (seppure faticoso) è tutto sommato buono, l’Argirio di Werner Hollweg è semplicemente pessimo. A partire dalla fantasiosa pronuncia, per proseguire con le agilità approssimate, agli acuti sforzati e alla mancanza di fraseggio e colore. La direzione di Ferro poi (su strumenti originali) si caratterizza per una pesantezza opprimente: dov’è l’Arcadia che tanto aveva affascinato Goethe? Il finale scelto è quello tragico e l’opera è integralissima, con tutti i recitativi secchi (e sentita la pronuncia di Hollweg, e la lentezza di Ferro, forse qualche taglio lì sarebbe stato opportuno).
Arriviamo al 1994 per un’edizione assai interessante. Tancredi è Ewa Podles, magnifa nel ruolo del protagonista, mostrando tutto il debito nei confronti della Horne. La voce è scura, potente, ma molto agile. Amenaide è l’algida Sumi Jo, a me piace, ma confesso che ad un primo ascolto si rimane spiazzati: un Rossini rivisto con gli occhi di Mozart. Argirio è il leggero e anonimo Stanford Olsen e Orbazzano è Pietro Spagnoli. Entrambi senza troppa infamia e senza lode (ma già è tanto che non si facciano disastri). Dirige Zedda, che, al contrario di Ferro, pare abbia messo il piede sull’accelleratore (e forse in certi punti, la sua lettura appare un pò troppo sbrigativa). Di sua mano pure le variazioni delle riprese. L’opera è integrale, ma con tagli consistenti nei recitativi secchi. Zedda sceglie il finale lieto (per altro eseguito non nella forma originale, ma in quella già ampiamente rivista da Rossini dopo le prime esecuzioni).
Roberto Abbado firma, nel 1996, una nuova edizione di Tancredi, che presenta, per la prima volta, entrambi i finali integrali. Tutta l’opera è completa, in tutti i suoi numeri, nonché presenta due appendici: la cavatina sostitutiva di Tancredi “O sospirato lido – Dolci d’amor parole” (rimpiazzo a “Di tanti palpiti”) e quella di Amenaide “Ah se pur morir degg’io” (che sostitui “Ah che il morir nonè”), brani assai gradevoli, ma che mostrano solamente la superiorità degli originali. Tancredi è Vesselina Kasarova, Amenaide è Eva Mei. La prima si ispira chiaramente alla Horne, senza però raggiungerne i risultati, e, pur aiutata dalle facilitazioni che una registrazione in studio comporta, mostra qualche difficoltà nell’esprimere l’eroicità del personaggio. Stessa cosa per la Mei, incerta nell’imprimere un carattere compiutamente elegiaco ad Amenaide. Entrambe tuttavia, disegnano due personaggi adolescenziali, freschi, forse più incoscienti che eroici. Una lettura interessante e pure efficace. Certo è triste confrontare questa incisione di due voci belle e di bellissime speranze, alle loro odierne esibizioni, per me assai deludenti. Stesso discorso (dell’allora e dell’ora) vale per il tenore: Vargas incide forse il miglior Argirio documentato su disco, voce bella, e con un certo corpo, sicura e agile. Peccato poi che qualcuno gli abbia messo in testa di diventare un “tenore verdiano” coi risultati oggi udibili (o meglio inudibili). In sostanza un’ottima edizione in studio che presenta l’opera in tutto il suo splendore e con cantanti che, da queste premesse, avrebbero potuto segnare un’importante pagine nell’odierna esecuzione di Rossini. Purtroppo la storia è andata in modo differente.
Infine arriviamo al Rossini Opera Festival del 1999: un Tancredi molto deludente, salvato solo dall’Amenaide della Takova. Protagonista è Daniela Barcellona, che appare in più di un punto inadeguata al ruolo, con voce talvolta artificiosamente scurita, spesso ingolata e affaticata. Agilità e acuti non sono impeccabili, centri buoni, bassi pessimi (spesso parlati). Il peggiore è però l’Argirio di Filianoti (che per comodità si taglia pure l’aria del secondo atto: taglio ignobilmente giustificato da Gossett con argomentazioni degne di un pessimo azzecagarbugli di provincia), nel mozzicone di parte che gli è rimasta appare una voce del tutto inadeguata a Rossini e a qualsiasi suo titolo (eppure il ROF si è messo in testa che lui e Meli siano cantanti rossiniani). Inadeguata perche non ha l’estensione sufficiente, non ha l’agilità consona e non ha la robustezza e la resistenza richiesta. Non ci si improvvisa tenori rossiniani, e alla mancanza di natura (o alla mancanza di studio) non si supplisce con la speranza di miracoli e apparizioni improvvise di note sulla parte alta del rigo. Purtroppo, però, a queste mancanze, supplisce spesso l’agente, che riesce dove Madre Natura si è dovuta fermare. Sono i misteri dei nostri teatri. Tornando all’incisione, il resto – tolta la Takova – suscita ben poco interesse: Gelmetti è anonimo, e la partitura è presentata in forma composita: un mix delle diverse edizioni, con tagli ad arie e recitativi. Il finale scelto, comunque, è quello tragico.
Questo è un breve excursus dell’esistente, non saprei cosa ci possa riservare il futuro per ciò che riguarda Rossini e Tancredi. Temo tuttavia, che il recente (e fallimentare, almeno per me) esperimento del Tancredi romano firmato René Jacobs venga prima o poi riversato in disco (e sicuramente premiato coi soliti Diapason d’Or, Choc – Le monde de la Musique, Repertoire, che paiono creati dai cugini d’Oltralpe ad uso esclusivo di Jacobs e dei suoi…) aprendo così definitivamente la strada alla temuta barocchizzazione di Rossini. Chi vivrà vedrà. Per ora è meglio ascoltare l’esistente (rectius, parte di esso) e non aspettarsi molto dalle “magnifiche sorti e progressive” che la nuova generazione di sedicenti interpreti rossiniani (?) lasciano intravvedere. Chiudo quindi, con un’altra citazione, e mi riporto alla stesso poeta tedesco dell’iniziono: “Dove le parole finiscono, inizia la musica” (Heinrich Heine). Ascoltate la Horne e capirete Tancredi. Buon ascolto!

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