Innanzitutto voglio sgomberare il campo da un equivoco e da un facile e possibile motivo di contestazione, richiamando quanto già evidenziato nel precedente intervento, e cioè come non si possa ridurre, come spesso accade, l’intera tradizione esecutiva dell’opera di Mozart (quella appunto ritenuta reazionaria e sorpassata dai puristi del period instrument) ad una appesantita lettura tardo romantica o addirittura wagneriana, che ha costituito certo un aspetto in qualche modo degenerato di tale tradizione, ma che non è mai stata la prevalente. Molte infatti sono le diverse anime di questa storia esecutiva (così frettolosamente gettata a mare dai presuntuosi baroccari) ciascuna delle quali si fa interprete di un diverso approccio a Mozart, frutto di diverse e feconde sensibilità (da quella più romantica a quella più intellettuale, dalla visione faustiana a quella cinica e illuminista) che solo l’arrogante superficialità di chi ritiene di avere già ogni risposta, può liquidare con la insipiente sufficienza degli alfieri del modo antiquo. Ma lasciamo stare le polemiche e passiamo agli ascolti, con particolare attenzione all’interpretazione direttoriale e alla concertazione.
Fin dalla Sinfonia, infatti, si rende esplicito il clima dell’opera (confermato poi nel prosieguo degli ascolti). La lettura di Bruno Walter, appare subito spontanea, morbida, semplice: la tragicità è ottenuta senza mai gonfiare e senza insistere sull’elemento drammatico (e già questo basterebbe a smetire i soliti baroccari). Il carattere è nobile e malinconico, ricco di sfumature e colore, in un perfetto bilanciamento degli elementi (il comico e il tragico). L’accompagnamento è leggero ed equilibrato, senza per questo impoverire il suono (non sono necessarie le orchestrine filologiche per ridurre certa sovrabbondanza orchestrale). Furtwaengler, invece, porta una concezione più solenne e tragica dell’opera, in una visione più wagneriana che tardo romantica. Il respiro è ampio (con tempi indugianti e dilatati), teso, drammatico. L’orchestra è trattata come un blocco unico, massiccio e coeso. E forse qui c’è qualche pesantezza di troppo, anche se nel complesso è una lettura dal grande fascino ideale. Infine Mitropoulos: la sua è una lettura “romanticissima” di Don Giovanni, piena di tensione, lirismo, languori e abbandono. Di grande presenza teatrale. Ricca di inquietudine e di ambiguità. Profondamente pessimista, ma per nulla “demonizzata”. I tempi sono larghi e spaziosi, ma mai pesanti. L’accompagnamento è intenso, drammatico, ma non eccessivamente caricato.
Venendo ai cantanti ed in particolare al title role, non si può che iniziare da Ezio Pinza, forse il più grande Don Giovanni del secolo. Il confronto col nuovo Mozart filologico è impietoso: si ascolta, qui, un canto nobile, nitido, morbido, pastoso, dalla dizione perfetta e dal legato ampio e impeccabile. Nessun altro, nella storia discografica dell’opera, ne regge il passo, meno che mai le aride vocine dei baroccari. Sulla stessa linea, ma di non poco inferiore, Cesare Siepi, che di Pinza fu considerato in qualche modo l’erede, sfoggiante un canto morbido e fascinoso. Già più problematica, in quegli anni, è, invece, la caratterizzazione vocale di Leporello (soprattutto in area germanica, dove il carattere giocoso dell’opera venne spesso frainteso o trattato maldestramente), tuttavia non mancano eccezioni, come Tancredi Pasero (e più tardi Taddei e Bruscantini), che non indulgono in facile volgarità e caricatura (come invece, paradossalmente, oggi sembrano riemergere, alla faccia della tanto sbandierata correttezza filologica: bisognava aspettare Jacobs & C. per sentir riproporre le caccole di certo Corena!?), ma che coniugano – anche grazie ad una dizione perfetta – presenza teatrale e personalità, ad una voce timbrata, ricca e morbida, di musicalità squisitamente italiana..
Se poi si ascoltano le arie di Donna Elvira e di Donna Anna, ci si renderà conto di una intera civiltà del canto mozartiano, fatta di tecnica perfetta, sicurezza nelle agilità (e quelle mozartiane richiedono una cura particolarissima, perché non semplici ornamentazioni per mostrare la bravura degli interpreti, ma parte integrante della scrittura musicale, e pertanto assai atipiche e “difficili”), morbidezza della linea vocale, screziature malinconiche (saranno pure una forzatura “romantica”, ma quanto sono affascinanti!), ampiezza del legato, calore, fraseggio suadente, senso della parola cantata (anche quando la pronuncia è perfettibile, si sente lo sforzo di rendere il significato, al contrario di quanto accade coi cantanti filologici che sembrano addirittura ostentare una vera e propria idiosincrasia verso la nostra lingua, con il risultato di farci rimpiangere persino l’orrida pronuncia di Schreier).
Ascoltando l’inizio della difficilissima “Mi tradì quell’alma ingrata” ci si rende immediatamente conto della facilità esecutiva della Caballè o della Jurinac, e di come apparentemente, grazie alla fluidità e alla padronanza di quel canto, sembri semplice e facile. E così pure il rondò di Donn’Anna o l’entrata di Donna Elvira con interpreti come la Nilsson, la Lehmann, la Mueller. Si senta poi la sontuosità tragica del recitativo che precede “Or sai chi l’onore”, e l’intensità dell’aria così come li esegue Leontyne Price, con quel suo splendido timbro caldo e vellutato, ma anche sicurissimo nell’acuto.
Una menzione particolare a Don Ottavio e alle sue due arie: oggi siamo abituati a tenorini sbiaditi e sospirosi che, come fastidiose zanzare, sbrigano malvolentieri la pratica di eseguire due tra le pagine più belle di Mozart. Ascoltando Kraus o Tito Schipa ci si apre un mondo tutto diverso: elegante, ma non effeminato, lirico, ma non evanescente, nobile, ma non freddo. I pezzi d’insieme (come il sestetto o i due finali) mostrano poi, la perfetta simbiosi tra grandi voci e grandi letture direttoriali senza, salvo per il caso di Furtwangler, che un elemento prevalga sull’altro. Insomma il contrario dell’odierno Mozart filologico. Voglio chiudere con una nota polemica e con una provocazione.
Ci accusano, spesso, di essere dei reazionari in mala fede che, per puro pregiudizio o per puro snobismo, denigrano il presente, sempre e comunque, nell’acritica accettazione ed esaltazione di un passato che ormai sarebbe sorpassato. Orbene, a prescindere dal fatto che ogni nostro giudizio deriva da un confronto e non da un teorema che si intende dimostrare, mi chiedo cosa sia davvero reazionario: confrontare presente e passato, traendone di volta in volta libere conclusioni, prive di suggestioni o interessi (e se il bilancio è sovente a favore del passato, questo è “merito” di un presente problematico); oppure imporre un’impossibile restaurazione di una prassi esecutiva decontestualizzata dal suo tempo? E’ davvero un atteggiamento così passatista, riconoscere ad una tradizione interpretativa consolidata e frutto di una precisa evoluzione storica all’interno del modo di eseguire musica, l’attenzione che merita (basandosi sul risultato estetico)? Ed è davvero così moderno un atteggiamento che, invece, si propone di riprodurre una prassi esecutiva (necessariamente condizionata e determinata dall’epoca in cui si è sviluppata) levandola dal proprio contesto originale e incastrandola artificiosamente e malamente nella modernità dell’oggi? Davvero è corretta un’orchestra che suona su strumenti originali (lasciando perdere il problema che spesso sono solo copie, e quindi per nulla autentici) e secondo un’ipotetica prassi esecutiva (teorizzata sì, da studiosi e accademici, ma di cui non vi sono certezze tangibili nè unanimità di vedute), quando i teatri e le sale da concerto sono del tutto differenti da quelle di allora (per dimensioni, materiali, disposizioni, profondità), quando la fruizione del pubblico è radicalmente mutata, quando le voci sono diverse (anche fisiologicamente), quando gli orchestrali suonano stipati nel “golfo mistico” (che nel ‘700 manco esisteva)?
Non si tratta, infatti, di una mera questione di stile (che può mutare, tornare, cambiare etc..) si tratta di qualcosa di più profondo: sostituire una realtà storica (da gestire e reinterpretare, ovvio, ma che sempre affonda le proprie radici in un vero continuum temporale) con una costruzione esclusivamente teorica, preparata in laboratorio senza alcun aggancio con la realtà, in una sorta di utopia restauratrice (mi ricorda l’atteggiamento di quelle comunità amish che nei moderni Stati Uniti d’America si fingono di vivere ancora alla metà del XIX secolo).
Ma se poi, per assurdo, effettivamente la prassi esecutiva fosse quella che ci propongono i soloni baroccari (cosa di cui dubito assai fortemente, per tante ragioni che ora non è il caso di affrontare), davvero sarebbe corretto ritornare ad essa, quando la storia, il mondo, la vita, la musica e tutto il resto è cambiato? E se pure quei suoni fissi e stimbrati fossero davvero quelli percepiti a Praga, al Teatro Nazionale, quel 29 ottobre 1787, perché mai dovremmo negarci la possibilità di ascoltare “al meglio” quella musica, fingendo che il tempo non sia passato, in un’ostinata e ottusa ideologia passatista (questa sì)? In nome di cosa dovremmo rifiutare un’evoluzione che, in termini di intonazione e qualità del suono, è stata innegabilmente un progresso? Perchè rinchiudersi in “riserve” illudendosi di far rivivere schegge di un sintetico XVIII secolo, 300 anni più tardi? Buon ascolto…
Atto I
Ouverture – Bruno Walter, Wilhelm Furtwängler
Notte e giorno faticar – Ezio Pinza (1942, B. Walter)
Fuggi crudel, fuggi – Elisabeth Rethberg & Dino Borgioli, Joan Sutherland & Richard Lewis
Ah chi mi dice mai – Maria Müller
Là ci darem la mano – Antonio Scotti & Geraldine Farrar, Ezio Pinza & Margit Bokor
Non ti fidar, o misera – Karl Böhm (Valdengo, Nilsson, Jurinac, Dermota), Dimitri Mitropoulos (Siepi, Grümmer, Della Casa, Simoneau)
Or sai chi l’onore – Frieda Leider, Leontyne Price
Dalla sua pace – Alfredo Kraus
Bisogna aver coraggio – Bruno Walter, George Szell, Karl Böhm
Finale I – Wilhelm Furtwängler
Atto II
Ah taci ingiusto core – Maria Müller, Eleanor Steber
Vedrai carino – Mafalda Favero, Mirella Freni
Sestetto – Wilhelm Furtwängler (Welitsch, Schwarzkopf, Dermota, Kunz…), Karl Böhm (Nilsson, Jurinac, Dermota, Bruscantini…) Herbert von Karajan (Price, Schwarzkopf, Berry, Valletti…)
Il mio tesoro intanto – Tito Schipa, Richard Tauber
Mi tradì quell’alma ingrata – Sena Jurinac, Montserrat Caballé
O statua gentilissima – Bruno Walter , Wilhelm Furtwängler
Non mi dir bell’idol mio – Lilli Lehmann, Birgit Nilsson
Finale II – Bruno Walter, Wilhelm Furtwängler, Dimitri Mitropoulos
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Nessun dubbio che la riproposta stucchevole e arida di strumenti e prassi esecutive sia cosa da criticare, in quanto rischia di portarci solo “il peggio” di quelle opere. Allora bisognerebbe anche eliminare il riscaldamento o l’aria condizionata dagli auditorium e dai teatri, per ripristinare le “condizioni di esecuzione e di ascolto” del tempo che fu (Bayreuth non è certo un bell’esempio).
Però ci si deve anche “intendere sull’oggetto del contendere”.
Faccio un esempio: il Bach clavicembalistico interpretato al pianoforte. Le “Goldberg” sono qui la pietra di paragone (e dello scandalo). Con la sola eccezione forse di Gould, trovo che le interpretazioni pianistiche, proprio perchè – più o meno coscientemente – tendono a cavar fuori le potenzialità dello strumento moderno, finiscono per presentarci un Bach in certo senso “adulterato”. Quando Bach scriveva per il clavicembalo, il fortepiano (menchemeno il pianoforte) non esisteva. Per me non ci sono dubbi che Bach scrivesse musica proprio in base alle peculiarità costruttive e materiali del clavicembalo. E quindi, il “vero Bach” lo possiamo apprezzare da esecuzioni sullo strumento a plettro: quelle sullo strumento a percussione rischiano di essere “altro da Bach”. Sarebbe come – al limite – sostituire nell’orchestra classica i corni con dei sassofoni: “effetto” magari mirabile, ma “sostanza” surrogata.
Ciò premesso, sono invece totalmente in sintonia con scelte interpretative e “strumentali” al passo con i tempi. A parte che – Stradivari insegna – ci sono strumenti che alla rispettabile età di 300 anni suonano splendidamente ancor oggi, e quindi viene il sospetto che quelli “originali” dei passatisti siano catorci deterioratisi nel tempo, quando non addirittura dei falsi costruiti ad-hoc per dimostrare una tesi sciagurata… ma l’importante – secondo il mio modesto avviso – è non stravolgere l’impianto e l’equilibrio complessivo (strumenti-voci) dell’Opera. Certi “raddoppi” vanno sempre accuratamente giustificati da condizioni ambientali precise, così come l’impostazione del canto deve avere l’obiettivo di far arrivare all’orecchio dell’ascoltatore l’effetto “più vicino possibile” a ciò che l’Autore aveva in mente. Ed è proprio la decifrazione di “ciò che l’Autore aveva in mente” l’aspetto più critico di tutto il processo. E l’interprete è tanto più apprezzabile quanto più si sforza di cogliere – pur dal suo originale punto di osservazione – lo spirito dell’Opera.
Certamente le Goldberg furono pensate e scritte per clavicembalo, nessun dubbio, e sicuramente le esecuzioni su pianoforte sono una “forzatura” interpretativa (a mio giudizio legittimissima, poichè fondata su di un’evoluzione del mezzo impiegato), ma è discorso – secondo me – sostanzialmente diverso da quello della prassi esecutiva che chiamo “baroccara”. Mentre la prima riguarda essenzialmente la scelta del mezzo e non influisce sul senso musicale (o meglio, non lo deturpa), la seconda riguarda una fissazione ideologica che trasforma il suono, a prescindere dal mezzo, e lo inaridisce. Io non credo in un Bach “adulterato” o “autentico”: spetta all’interprete – nel rispetto del testo, esattamente come il cantante – mostrarci il “suo” Bach. E io non considero falso quello pianistico (che non va confuso con una lettura romantica di Bach – esattamente come il Don Guiovanni reazionario non va confuso con certa wagnerizzazione di area tedesca), lo considero diverso, ma appagante. Devo dirti, poi, che il Bach di Gould è cosa a sè stante (personalissima rivisitazione dell’opera originale) e che non può – secondo me – essere presa a paradigma, molte sono le libertà prese che vanno a mutare l’architettura del brano (e in Bach la struttura è geometria ed evocazione, modificarla mette a rischio la stabilità dell’edificio).
D’accordissimo sui “finti” strumenti originali: non ha senso utilizzare delle repliche (costruite oggi) di strumenti antichi, semplicemente non sono veri!