Presentando il nostro concerto dei centomila ci eravamo soffermati sulla cosiddetta liricizzazione del repertorio verdiano, che spesso altro non è che una bonsaizzazione dello stesso. Osservando la storia dell’interpretazione della Turandot pucciniana assistiamo per così dire al processo inverso: un progressivo allontanamento dalla corda di lirico/lirico spinto, caratteristica comune alle prime interpreti, in favore di più robusti assetti vocali e più ancora stilemi interpretativi che con la vocalità straussiana della principessa poco hanno a che condividere. Perchè sia detto a scanso di equivoco la vocalità di Turandot è ben più simile a quella della Tintora o di Elena Egiziaca che non a quella di Santuzza o Fedora. La prima Turandot, che com’è noto andò in scena alla Scala il 25 aprile del 1926, fu Rosa Raisa. Polacca di nascita, allieva a Napoli di Barbara Marchisio e in seguito star del Lyric Center di Chicago, la Raisa aveva una voce dolce, sonora e non estranea al virtuosismo di stampo antico. Tant’è vero che il suo repertorio annoverava titoli come Don Giovanni e Norma, accanto ai più consueti Ugonotti, Ebrea e Trovatore. Lo stesso Puccini avrebbe voluto affidarle la parte di Magda di Civry nella Rondine, ma la cantante rifiutò.
Nelle tre stagioni scaligere (dal ’24 al ’26) in cui ebbe l’onore di essere diretta da Toscanini, la signora prese parte a due prime assolute (Turandot appunto e il Nerone di Boito, in cui fu Asteria) e ripropose anche il Trovatore, che mancava in Scala dall’inizio del secolo. E comunque non era una cantante estranea alle prime in generale perchè a lei toccò la prima Francesca scaligera in coppia con Aureliano Pertile. Abbiamo inserito in appendice a questo post il suo D’amor sull’ali rosee, non solo come affascinante testimonianza d’epoca (altrettanto interessante, in questo senso, il duetto con il conte di Luna, ossia il baritono Giacomo Rimini, marito della Raisa) ma anche come dimostrazione di come la primissima Principessa chinese sapesse ricorrere alle armi del canto sfumato e patetico, quando la parte lo richiedesse.
Pochi mesi dopo il debutto in Scala, Turandot approdò all’Opera di Stato di Vienna: a interpretarla fu Lotte Lehmann, una delle cantanti straussiane per eccellenza. Della Lehmann ci sono rimasti il grande monologo e l’assolo Del primo pianto nel duetto finale, e bastano a dare l’idea di una protagonista regalmente fiera ma anche trepidante, commossa e infine davvero ferita nell’orgoglio di casta non meno che nell’intimità violata. Va anche detto che la Lehmann famosa Tintora nella Frau ebbe con Turandot il rapporto della “toccata e fuga” limitandosi alle rappresentazioni viennesi. In una direzione simile, se non proprio analoga, è facile s’indirizzasse un’altra grande straussiana, Maria Jeritza, che per prima fu Turandot al Metropolitan di New York, nel novembre del 1926, accanto a Giacomo Lauri-Volpi e sotto la bacchetta di Tullio Serafin. Della Jeritza (vista e apprezzata da Puccini come Tosca) proponiamo un frammento in cui la prima Arianna e Imperatrice sprovvista di ombra dimostra la propria consumata abilità di fraseggiatrice. Una Turandot, la sua, che ci piace immaginare molto principesca e anche un po’ maliarda. Le registrazioni fonografiche come sempre accade nei casi delle cantanti attrici non rendono, credo, giustizia a Maria Jeritza.
Maria Jeritza offre anche l’opportunità di fare due considerazioni sui primi interpreti dell’opera. In Voci parallele Lauri Volpi parlando di Maria Jeritza afferma che le parti dei protagonisti dell’opera sarebbero state pensate da Puccini per la Jeritza e per Lauri Volpi stesso.
Senza scendere in polemica è, però, doverso rilevare come all’epoca di composizione di Turandot Lauri Volpi frequentasse un repertorio da tenore lirico quando non lirico-leggero alla Bonci in cui primeggiavano Manon, Puritani e Rigoletto e non fosse ancora un tenore affermato ed assoluto come potevano essere Martinelli, Pertile, Fleta, Lázaro ed anche Bernardo de Muro. Diverso e credibile il discorso per Maria Jeritza. Altra “bufala” è che mai Puccini potesse aver pensato alla Toti quale Liù. Forse poteva averci pensato, morto Puccini, il primo direttore.
Con il passare dei mesi, altre grandi cantanti affrontarono la parte nei massimi teatri mondiali. Claudia Muzio la cantò al Colón di Buenos Aires (accanto alla Liù di Rosetta Pampanini: in questa occasione è verosimile pensare che la Principessa fosse sovrastata dalla schiavetta tartara non solo per la forza del sentimento, ma anche per quella dell’ugola), Germaine Lubin all’Opera di Parigi e Giannina Arangi-Lombardi in Australia in coppia con un Calaf di lunghissima resistenza quale Francesco Merli. Insomma, tutte voci che potevano avere (e difatti avevano) accento e ampiezza da soprano drammatico, ma cui non erano estranee la morbidezza e il fraseggio cangiante del soprano lirico o comunque della cantante avvezza al fraseggio vario e sfumato. Fraseggio vario e sfumato che per la divina Claudia era la sigla più autentica. E forse le Turandot cosiddette liriche del post Sutherland proprio a Claudia Muzio potrebbero ispirarsi.
All’idea di algore vocale, prima che interpretativo delle grandi straussiane si rifece anche la Turandot ufficiale della Staatoper di Vienna, ossia Maria Nemeth, uno strano soprano che suoni schiacciati e stonature a parte nei sovracuti passava da Lucia, Kostanze e Konegin a Norma, Aida e Turandot.
È con la britannica Eva Turner, che fu Turandot per la prima volta a Brescia nel dicembre 1926 e che in seguito riprese il titolo al Covent Garden e alla Scala, che alla gelida e raggelante Principessa si dischiusero nuovi, più corruschi orizzonti. Vera voce di soprano drammatico, la granitica Turner è impressionante soprattutto per la “canna” sfoggiata nella scena degli enigmi (di cui esistono due testimonianze live, risalenti alla fine degli anni Trenta) e la sicurezza del registro grave. Occasionali tensioni in acuto sono riscattate da una linea di canto assai più castigata di quanto sarebbe lecito attendersi, vista anche l’imminenza della “rivoluzione” interpretativa che stava per avere luogo. Vittima (?) Turandot.
Parliamo, com’è ovvio, di quella operata da Gina Cigna, voce torrenziale e torrenziale propensione a usare ed abusare dei tesori elargiti dalla generosa natura. Interprete di riferimento principalmente per l’assidua frequentazione del ruolo, la signora Cigna fa di Turandot, mediante la sistematica apertura dei centri e l’applicazione del noto principio “apri, spingi e stringi”, una parente stretta di Santuzza e di qualsivoglia parte verista. Una Santuzza, sia chiaro, grandiosa e monumentale, ma pur sempre Santuzza. E che fosse prima di tutto una scelta interpretativa lo evidenzia la stessa Cigna che in altre sedi (per esempio le arie di Leonora della Forza, piuttosto che in Chenier e Fanciulla) è castigata e rifinita. Su un piano di non inferiore veemenza si collocano Tina Poli Randaccio, che era una specialista della Fanciulla, e Bianca Scacciati (“la mi’ Bianchina”, come la chiamava il sor Giacomo), che fu la prima Turandot al Costanzi di Roma e che possiamo considerare la pioniera dell’assimilazione della Principessa di gelo ai dettami e agli stilemi del Verismo, quelli che la nostra applicava anche a Verdi. Una cosa però va detta: risentita a distanza di ottant’anni la Scacciati sfoggia un timbro di eccezionale bellezza e lucentezza.
Non abbiamo purtroppo che fortunosi lacerti dell’interpretazione offerta da Maria Callas a Buenos Aires nel 1949: di fatto, solo un paio di minuti del duetto conclusivo. La Callas avrebbe poi ripreso la parte, in condizioni di minore saldezza vocale, una decina di anni dopo. All’udire il nome del Principe ignoto la signora sfoggia voce ampia e aquilina, una vera lama che lacera i sonnolenti giardini imperiali, e accento sovrumano o disumano che dir si voglia, a insinuare che sotto la donna ferita e vinta può sempre ridestarsi la Dea di ghiaccio.
Se fondatamente all’inizio del proprio cammino Turandot venne considerata, almeno all’estero, parte acconcia ai soprani straussiani le più schiette wagneriane se ne tennero lontane.
Non risulta che Frida Leider, Nanni Larsen-Todsen affrontarono il personaggio pucciniano. Tanto meno la Flagstad che aveva, si fa per dire, il tallone d’Achille negli acuti estremi. E’, mi pare, la riprova che i primi interpreti non la ritenessero parte di soprano drammatico o di forza, ma altro. Tanto meno la parente prossima di Brunilde.
Parente prossima che divenne intorno agli anni ’50 grazie a Birgit Nilsson, che partiva da una idea non dissimile da quella della Callas e che dopo il debutto in Scala nel 1958 ebbe modo di vestire un po’ ovunque i panni della tiranna orientale. Per dirla con le parole della cantante, invero oculata amministratrice dei propri talenti: “Isotta mi ha reso celebre, Turandot mi ha reso ricca”. È con la Nilsson che la Principessa lascia la sfera del Verismo per entrare in quella della più autentica declamazione wagneriana, quella che non si oppone alla musica ma che così magistralmente la integra e la completa. Non che con la Lehmann e la Jeritza non si fosse già verificato un avvicinamento in questo senso, ma quelle soavi Elsa e Sieglinde non possono essere paragonate all’impatto di una Brunilde e Isotta così bronzea e longeva. La grandiosità della scena degli enigmi e la superba fragilità del duetto al terzo atto sono paradigmatiche, e in quanto tali imprescindibili tanto per le future interpreti quanto per il pubblico, che ormai ama nella Principessa pechinese più il gelido idolo che la donna nevrotica in esso rinchiusa.
Salvo poi applaudire a più non posso Ghena Dimitrova e, ancor oggi, la inossidabile Giovanna Casolla.
Gli ascolti – Puccini: Turandot
Atto I
Signore ascolta – Maria Zamboni (1926)
Non piangere Liù – Richard Tauber (1926)
Atto II
In questa reggia – Lotte Lehmann (1927), Eva Turner (1928), Bianca Scacciati (1930), Gina Cigna (1938), Birgit Nilsson (1961)
Straniero, ascolta! – Gina Cigna & Francesco Merli (1938), Eva Turner & Giovanni Martinelli (1937), Maria Nemeth & Todor Mazaroff (1941), Ghena Dimitrova & Nicola Martinucci (1977)
Principessa di morte! – Giovanna Casolla & Vladimir Galouzine (1997), Birgit Nilsson & Franco Corelli (1961)
Del primo pianto – Lotte Lehmann (1927), Giovanna Casolla (1997)
So il tuo nome – Maria Callas & Mario del Monaco (1949)
Appendice – Le prime Turandot
Rosa Raisa – Verdi: Trovatore – D’amor sull’ali rosee (1918)
Maria Jeritza – Puccini: Manon Lescaut – Tu! tu! amore (con Juan Spiwak – 1908)
Claudia Muzio – Puccini: Manon Lescaut – In quelle trine morbide (1917)
Germaine Lubin – Puccini: Tosca – Non la sospiri la nostra casetta (1929)
Giannina Arangi Lombardi – Puccini: Tosca – Vissi d’arte (1933)
Ascoltando la Cigna non trovo, però, particolari eccessi veristi (a parte forzature in acuto).
Mi spieghereste il “noto principio “apri, spingi e stringi”” cosa sarebbe?
Il termine “apri, spingi e stringi” non sono io che lo ho usato, quindi penso che sia colui che lo ha impiegato ad essere il più adeguato a spiegartelo. Nonostante questo intervengo lo stesso per dirti come io interpreto quella frase, così poi l’autore dell’articolo mi confermerà o meno : se un cantante canta cosi detto aperto (apri) la salita all’acuto non gli viene facile sul fiato ma deve spingere colla gola (spingi), spingendo la gola si stringe perchè si contrae (stringi) e il risultato è un “acuto” duro e gridato, sforzato e fibroso insomma un suono che ha poco a che vedere col canto.
Semolino: impossibile spiegarlo meglio di così.