Un Ballo in Maschera, Parigi, Opéra Bastille

Cari Amici,
eccovi qui la relazione, puntuale e fedele, dell’esperienza avuta dal nostro amico Semolino, avvezzo solo alle voci dei 78 giri, in quel della Bastille di Parigi, in scena il Ballo in Maschera verdiano.
Serata dura per il nostro amico, come non faticherete a rendervi conto. E tempi assai grigi per chi mette in scena titoloni verdiani.

Essendomi reso conto da diversi anni che, con quel che passa il convento, il piacere di andare all’opera non c’era più, me ne rimango sempre chiuso in casa ad ascoltare cilindri e 78 giri del tempo che fu. Di quel tempo in cui coloro che si definivano cantanti sapevano ancora esercitare con arte la loro professione. Ma ogni tanto amici o amiche mi convincono ad andare a qualche rappresentazione, perchè comunque non bisogna perdere il contatto con la realtà dell’epoca in cui si vive, il che serve anche per rendersi conto se le cose, nel frattempo, sono cambiate e se magari qualcosa di nuovo e di valido in giro c’è ancora o sorge.
Sono così andato alla rappresentazione del Ballo in maschera all’ Opéra Bastille domenica 3 maggio.
Questo mi ha permeso di constatare che la situazione è veramente gravissima, ne sono quasi rimasto scioccato nell’animo e traumatizzato nell’udito.

Deborah Voigt è in uno stato vocale tale che mi pare addirittura assurdo che coloro che organizzano le stagioni osino ancora scritturarla. La voce è completamente spaccata in tre registri, quello grave completamente gutturale, aspro e secco. Qualcuno si ricorda delle note gravi della Caballé in Gioconda per la Decca? La Voigt ha sfoggiato lo stesso tipo di suoni di quella Caballé, ma molto più ruvidi e secchi, ed anche più fastidiosi, perchè molto più sonori: infatti la Voigt in natura è dotata di una voce ampia, che, se ben impostata e ben educata sarebbe ancor più ampia e sonora, da vero soprano drammatico, ma, spingendo come spinge, la metà del suo cospicuo volume va perso nello sforzo e nella gola. Il registro centrale suona vecchio, sforzato e stanco. Quando entra nell’antro di Ulrica ed attacca “Segreta, acerba cura che amor destò” pare di sentire una strega del Macbeth venuta a chiedere aiuto ad una consorella perchè ha bisogno di farsi prestare un ingrediente, di cui è rimasta senza, per preparare una delle sue pozioni, e non una giovane donna turbata dalla fiamma amorosa. Poichè la Signara Voigt è stata dotata in natura di una grande voce quando spinge nel registro acuto partono grida metalliche di suono incontrollato e tagliente. Ogni tentativo di modulare e cantare a mezzavoce, come nel “Consentimi o Signore, virtù ch’io lavi il core” si salda con un falsetto oscillante e aspro. In queste condizione non c’è nessuna possibilità di legare un suono ed il suo “canto” procede come i suoni emessi da una macchina da cucire. L’inizio del secondo atto è diventato un orrido accoppiarsi di urla stridenti e aspre gutturalità, e di stonature tremende, come perennemente oscillante è stato tutto il terzo atto, con un “Morrò ma prima in grazia” tutto masticato in bocca, con acuti sitematicamente stonatissimi.

Ramón Vargas è un tenore lirico da Elisir d’amore e non un lirico spinto da Riccardo, quindi ha dovuto lottare durante tutta la sua prestazione con una scrittura vocale che è realmente al di sopra delle sue possibilità. Ogni tanto, quando la scrittura del ruolo lo permette, come in alcuni passaggi della scena della morte o nelle frasi “E’ scherzo, od è follia sifatta profezia” traspare ancora il fatto che Vargas in realtà sa dove la voce va messa per cantare, quindi qualche piano ed anche qualche mezzavoce sono riusciti, ma purtroppo la maggior parte del tempo è costretto ad allargare i centri ed a aprire i gravi, che sono poi le zone della voce in cui la scrittura di Riccardo è tutta centrata: perciò è costretto a forzare per dare una parvenza di vigore ai passaggi declamati, diventa bolso e, così procedendo, fibroso, perdendo tutto lo squillo, tutto lo smalto, compromettendo il legato. Più sale in acuto e più la voce di Vargas va opacizzandosi e rimpicciolendosi, rimanendo sul palcoscenico. Un discorso analogo può valere, grosso modo, per Ludovic Tézier, baritono non certo da Verdi. C’è qualcosa di grezzo e sgraziato che non mi piace nella sua emissione: quando cantava Donizetti non si percepiva così nettamente, ma in Verdi sì, come se dover essere baritono verdiano obbligasse a prendere per forza inflessioni torve e suoni agressivi. Nessuna nobiltà d’accento e di fraseggio, ma solo la ricerca di una irruenza spacciata per fraseggio drammatico. Anche lui obbligato ad allargare troppo la voce nei centri e nei gravi per poi pagarne le conseguenze con acuti stimbrati e privi di smalto.
Nel ruolo di Oscar Anna Christy è una voce di peso lillipuziano (quelle che già il Mancini definiva le “vociuzze infelici”): ad Oscar una voce da soprano leggero conviene benissimo, ma voci da Oscar erano la Gruberova e lo sarebbe stata la Dessay (se avesse voluto cantare il suo vero repertorio) e non questa voce da zanzara, di cui nemmeno i baroccari saprebbero che fare, perennemente coperta dall’orchestra e senza alcuna proiezione, che ha delineato un Oscar pigolante e leziosissimo.

La natura è stata generosa col mezzosoprano Elena Manistina che ha affrontato il ruolo di Ulrica. Il risultato purtroppo è stato quello che si può ottenere quando si scaraventa fuori dalla gola la voce senza nessuna cognizione tecnica. Dal centro verso l’acuto, nell’emissione a piena voce e forte, il suono è sonoro e pieno, ma anche grezzo perchè emesso in posizione urlata, non appena cerca di modulare oscilla, nei centri c’è un vibrato fastidiosissimo che inquina la linea vocale, per non parlare dei gravi, certo sonori ma svaccati e poitrinés in maniera volgare e grottesca, ventriloqua, un esempio preclaro di diseguaglianza dei registri e di suoni gravi indecorosi.

Renato Palumbo ha diretto come se si trattasse di un poema sinfonico di R. Strauss, regolando il volume sui fortissimi della Voigt, ed ha così perennemente coperto gli altri. O almeno questa è stata l’impressione che ne ho ricevuto, dato che, nonostante lo sfacelo della sua organizzazione vocale, la Voigt era l’unica in campo ad avere, per sua natura, una vera voce da Verdi ed avendo, gli altri, voci per strumentali meno densi e scritture vocali meno spinte, tanto che risultavano davvero poco udibili.

Mischa Schelomianski e Scott Wilde nei rispettivi ruoli di Sam e Tom facevano a gara a chi fosse più ingolato, per quel poco che la loro misera proiezione lasciasse sentire di tanto in tanto.
I cori, molto fragorosi, li ho trovati bravissimi, e soprattutto benvenuti, solo per il fatto che quando intervenivano negli assiemi riuscivano a coprire tutti, Voigt compresa, e per le mie orecchie questo era già una salvezza. Grazie! Bravi!

Adesso sono ritornato a casa a rinfrescarmi le orecchie al suono dei cilindri e dei 78 giri per confortare il mio animo turbato e il mio udito traumatizzato da tanto inutile schiamazzare e vociare, e non sarà certo facile, per i miei amici, convincermi ancora a ritornare in certi posti, per ascoltare quello che oggi chiamano “canto”. Però se cantanti come Mukeria o la Pratt venissero a Parigi ci andrei. C’è da sperare? Purtroppo non ho molto il tempo di viaggiare.
Un saluto a tutti da Parigi

Vostro SEMOLINO

Riccardo Ramón Vargas
Reanto Ludovic Tézier
Amelia Deborah Voigt
Ulrica Elena Manistina
Oscar Anna Christy
Silvano Etienne Dupuis
Sam Mischa Schelomianski
Tom Scott Wilde
Giudice Pascal Meslé
Servo d’Amelia Nicolas Marie

Orchestra e Coro dell’Opera nationale di Parigi
Direttore Renato Palumbo

Regia Gilbert Deflo
Scene e costumi William Orlandi

Gli ascolti

Verdi – Un ballo in maschera

Atto II

Teco io sto…Non sai tu che se l’anima mia…Oh, qual soave brividoJussi Björling & Elisabeth Rethberg (1940)

16 pensieri su “Un Ballo in Maschera, Parigi, Opéra Bastille

  1. Spero che però la Rethberg non sia il paradigma interpretativo per il ruolo di Amelia… Il la acuto di “t’amo” è terribile nella sua acuminata fissità… Avrei preferito qualche ascolto maggiormente illustrativo dei ruoli di Riccardo o Amelia (che so, Price-Bergonzi… Ah! Dimenticavo! Sono troppo recenti per Semolino!!!)

  2. Non sono troppo recenti per me, mi piacciono molto Bergonzi e la L. Price nel Ballo in maschera. Ma Bjorling come cantante (tecnicamente parlando) e la Rethberg come cantante ed anche come interprete, stanno MOLTE spanne al di sopra di Bergonzi e della Price, almeno per il mio gusto. L’acuto della Rethberg in questione lo trovo timbratissimo e poi domina e proietta la prima ottava (indispensabile e molto sollecitata in questo ruolo) con una maestria che alla Price è sconosciuta, piena come è di opacità e velature.
    Come paradigma assoluto dell’aria “re dell’abisso” propongo la Stignani e la Onegin. Le ho ascoltate tentando un paragone e per me sono uscite ambedue vincitrici sullo stesso piano, ma per motivi diversi. Nel canto della Onegin si ascoltano note gravi da autentico contralto, carnose, scure, piene, corpose e perfettamente proiettate, però l’interprete è di una tale aristocratica eleganza che a mio parere poco si addice ad un personaggio come quello di Ulrica. Si trattasse di una strega o di una maga in un opera di Haendel ci starebbe benissimo, ma il Verdi di Ballo in maschera non è più belcanto e l’astrattismo c’entra ben poco, una certa credibilità in senso realistico ci vuole. Infatti più appropriata al personaggio per fraseggio mi pare la Stignani, pur sempre con un canto di scultorea bellezza e di una levigatezza canoviana, accenta e fraseggia in modo più schietto e credibile in questo tipo di personaggio. La prima ottava, se paragonata a quella della Onegin è più da mezzosoprano che da contralto, ma la facilità con la quale proietta le note, anche le più gravi, è sbalorditiva e direi quasi “sconcertante”. Mi chiedo perchè non si canta più così :-(

  3. Credo che le venature e le ombreggiature della Price siano una caratteristica assolutamente “inimitabile” (un po’ come le bollicine dello champagne): considerarle “difetti” è indice di una miopia spaventosa. La grandezza della Price in ruoli come Amelia o Leonora (entrambe) – almeno nei suoi anni d’oro – sta proprio nel dare alla melodia e al fraseggio verdiani quel non so che di notturno, lunare, che forse non sarà ortodosso (diceva Wilde che arroccarsi sulla regola è proprio dei mediocri!), ma è di un fascino incredibile e letteralmente calpesta voci più ortodosse, ma anche più monocromatiche e monotone come quella della Rethberg (improponibile ogni confronto con il modo in cui la Price accenta “ma tu nobile me difendi dal mio cor!”; ma vogliamo scherzare???). Dire poi che Bjorling è superiore a Bergonzi nella tecnica è un’affermazione che andrebbe dimostrata o, quanto meno, meglio circostanziata. Bjorling era artista abbastanza alterno: ci sono incisioni o serate in cui la voce è una meraviglia, altre in cui mi sembra un po’ stonato o calante. E poi, per il mio gusto personale, il fraseggio di Bergonzi è ineguagliabile: araldico, combattivo, fiero, ma anche dolce, estatico, elegante, con un legato e una facilità di emissione SEMPRE fenomenali (anche nel concerto del Met in cui canta i Lombardi con la Anderson!). E poi Riccardo è uno dei suoi personaggi, e su questo non credo ci sia margine di discussione ulteriore. Per quanto concerne Ulrica, devo dire che la Stignani mi piace molto (anche se è un tantino fredda). Ma accanto a lei metterei l’INTERPRETAZIONE (e sottolineo INTERPRETAZIONE, nel senso più globale del termine; valutare prestazioni di grandi artisti solo sotto il profilo meramente vocale è fatto assolutamente parziale e, quindi, senza possibilità di appello, insufficiente) della Ludwig, che di Ulrica offre un ritratto che, per il mio gusto personale, è senz’altro affascinante (non ostante alcuni limiti vocali legati all’età non più verde).

  4. In merito all’acuto della Rethberg, poi, caro Semolino, ti inviterei ad ascoltarlo in maniera un po’ più “oggettiva”. Parli di proiezione… Vogliamo veramente arrivare a dire che la proiezione del suono della Price in teatro era meno “agguerrita” di quella della Rethberg? Spesso dici che la proiezione non è la stessa cosa della sonorità (fatto quest’ultimo che dipenderebbe da mere doti naturali!). Ma saper proiettare la voce implica necessariamente che questa diventi anche SONORA (proprio per il fatto di essere ben emessa!): e tutti quelli che l’hanno ascoltata dal vivo negli anni d’oro sono concordi nel dire che la voce della Price era sonora nel senso che si spandeva con il famoso effetto a spirale in qualsiasi teatro (dal gigantesco Met alla Scala al teatro, che so, di Canicattì!). L’acuto della Rethberg sarà ben proiettato, come dici, ma se il suono è ben proiettato dovrebbe essere naturalmente avvertito come tale anche dall’ascoltatore (!), a prescindere dal competente di turno che si alza e dice “guardate come è ben proiettato questo acuto!”. Nel caso della rethberg ciò che si ascolta è un suono fisso e acuminato.

  5. A onor del vero, e senza nulla togliere alla storica Amelia di Leontyne Price, va ricordato che la Rethberg che possiamo sentire in questa esecuzione del Ballo vantava venticinque anni di onorata carriera ed era a diciotto mesi dal ritiro (avvenuto nel 1942). E ascoltandola viene da pensare alle primedonne che cantano oggi il Ballo e che dovrebbero, tutte e indistintamente, prendere in seria considerazione l’esempio della sublime Frau Rethberg, che seppe allontanarsi dalla scena prima che fosse il pubblico a dover sollecitare tale decisione.

  6. Caro Tamburini, credo che le voci siano un po’ come le lingue: ci sono voci che sono poco idiomatiche per Verdi “per definizione”, e quelle sono appunto le voci di impostazione tedesca. Non so… E’ come se sentissi qualcosa di INTRINSECAMENTE non aderente al calore della musica verdiana quando ad interpretarla è un cantante di area mitteleuropea. Ma questo è un fatto di gusto meramente personale: certamente c’è tutta la tradizione interpretativa verdiana di area tedesca; ma – per il mio gusto personale – la trovo sempre e comunque un po’ estranea a Verdi.

  7. Se la Pratt con la sua Elvira aveva evocato i grandi nomi, i grandi nomi (Rethberg e Price) hanno schiacciato la povera Voigt.
    Da da pensare anche questo in effetti…
    La Voigt che ricordo ottima interprete wagneriana e straussiana (Chrisothemis, Imoperatrice, Senta, Sieglinde) con Verdi, la giovane scuola, il verismo non c’azzecca nulla per completa estraneità.

  8. X Velluti

    Ripeto : a me la L. Price piace, però le opacità e le velature del registro grave per me sono e restano difetti, se tu sei in grado di trasformare i suoi difetti in colori e pregi, meglio per te che puoi godertela ancor di più di quanto possa godermela io.
    L’acuto, di cui tu parli, della Rethberg sarà anche tendenzialmente fisso, ma è immascheratissimo e timbratissimo e questo a me basta. Il suono fisso non mi da fastidio se è timbrato, a me danno fastidio SOLO i suoni fissi quando sono di gola come quelli delle baroccare.

    La Ludwig nel ruolo di Ulrica annaspa in basso in maniera comica. Completamente à côté de la plaque.

    Bergonzi mi piace di più per eleganza, nobiltà di fraseggio, accento. Niente da ridire sulla adeguatezza al ruolo, la voce è tutta avanti e immascherata, la cavata è ampia e da autentico lirico spinto, quindi perfettamente adatta al ruolo di Riccardo. Invece la dizione di Bjorling è ostrogota ed italiota. Pessima pronuncia. Però le mezzevoci di Bjorling erano vere mezzevoci e gli acuti erano squillanti. Una voce ben impostata e con tecnica provetta ha acuti che squillano. Bergonzi a suo discapito ha delle mezzevoci che sono troppo spesso in odore di falsetto, non sono veri falsetti ma spesso poco ci manca, e poi gli acuti, pur essendo nella maggior parte dei casi, ma neanche sempre, pieni e vibranti, restano comunque tarpati, non sfogano, non squillano e questo non è normale, l’emissione non è aperta, tutt’altro, ma gli acuti suonano come infilati in tubo di plastica. Se gli acuti non squillano significa che a livello tecnico c’è qualcosa che non quadra.
    La tecnica perfetta di Bergonzi è un mito da sfatare.

  9. Caro Semolino, gli acuti di Bergonzi sono coperti, non chiusi. Non dimenticare che Bergonzi aveva cantato da baritono, e questa caratteristica è rimasta anche nel suo canto tenorile (l’idea del tubo la trovo francamente eccessiva. Ascolta l’Aida con la Gencer all’arena di Verona, dove l’ampiezza del luogo e l’ottima ripresa sonora danno un’idea, certamente pallida ma veritiera, dell’ampiezza di cavata di Bergonzi). Bjorling aveva splendide mezze voci, ma non sempre. Dipendeva dalla serata. A volte suona duro e nasale. La Ludwig in Ulrica annaspa nel grave, è vero, ma è una delle poche che in questo personaggio riesce a dare un senso alle farneticazioni della maga.

  10. Semilino ha scritto:Bergonzi a suo discapito ha delle mezzevoci che sono troppo spesso in odore di falsetto, non sono veri falsetti ma spesso poco ci manca, e poi gli acuti, pur essendo nella maggior parte dei casi, ma neanche sempre, pieni e vibranti, restano comunque tarpati, non sfogano, non squillano e questo non è normale, l’emissione non è aperta, tutt’altro, ma gli acuti suonano come infilati in tubo di plastica. Se gli acuti non squillano significa che a livello tecnico c’è qualcosa che non quadra.
    La tecnica perfetta di Bergonzi è un mito da sfatare.

    Non ci posso credere….un barlume di lucidità!! Mi devo ricredere su Semolino!

  11. è vero e l’ho già detto, sono d’accordo che la cavata di Bergonzi è ampia e gli acuti sono pieni e coperti, ma non sfogano mai e quindi non squillano, il che è un segno che a livello tecnico c’è un problema. Tutti i tenori con grande tecnica squillano, lui è l’unico che pur non aprendo non squilla. Risultato quindi, almeno così mi pare, di un modo di emetterli più unico che raro, ma certo non ortodosso. Per questo, contrariamente a quello che ha fatto molta critica, non lo additerei come esempio preclaro di tecnica.

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