Zuster Radio: Il Trovatore dall’Opéra Royal de Wallonie

Dopo le note vicende agostane torna Sorella Radio, per l’occasione in trasferta fiamminga, ad allietare, si fa per dire, le serate dei melomani che, archiviati i festival estivi, attendono l’imminente kermesse parmigiana, all’occasione ripensando ai prodotti proposti dalla medesima nell’edizione dell’anno passato. Il titolo di punta dello scorso Festival Verdi, i Vespri siciliani, era per l’appunto affidato alla medesima coppia che si è esibita l’altra sera in Liegi nel Trovatore (spettacolo trasmesso in streaming sul sito del teatro).

Una serata all’insegna della routine, tanto nella buca quanto sul palcoscenico, sia sotto il profilo visivo che dal punto di vista squisitamente vocale. La bacchetta di Paolo Arrivabeni non si è distinta in positivo o in negativo, offrendo una prova sostanzialmente anodina, funestata però da frequenti attacchi fuori tempo da parte dei solisti e soprattutto di una parte del coro, segnatamente alla scena della monacazione e alla chiusa del primo quadro del terzo atto. La regia di Stefano Vizioli si limitava a un’illustrazione classica e genericamente elegante del libretto, con alcune cadute di gusto nella gestione delle scene d’assieme, fra zingarelle ammiccanti e spadaccini seminudi. I fondali neutri e metafisici facevano pensare, più che all’auspicato De Chirico, alle proverbiali nozze da realizzarsi con i fichi secchi, mentre i cantanti, abbandonati a se stessi, sfoggiavano sovente posture e gestualità da cinema muto, che mal si conciliavano con il tono tendenzialmente sobrio dello spettacolo.

Amare note dalle voci gravi maschili. Luciano Montanaro quale Ferrando si è prodotto in una mortificante imitazione dei bassi di scuola slava, esibendo una voce bitumata e prossima al parlato e producendo sui mi naturali previsti nel suo monologo (“la rea discacciano”) suoni che evocavano rumori di tutt’altra natura rispetto al canto lirico. Giovanni Meoni era un Conte di Luna cresciuto alla scuola di Nucci, che sostituiva al legato verdiano una marcata inflessione nasale e risultava non solo poco elegante e incisivo, ma ben più tenore del deputato Manrico (vedi oltre). Intendiamoci: a Parma e altrove si è sentito di peggio, anche e soprattutto in tempi recenti, ma questa non è certo una giustificazione.

Ann McMahon Quintero, Azucena, ha dato prova di uno strumento importante, benché ingolfato e tubato nell’emissione, tanto da far pensare, più che a un mezzosoprano, a un soprano drammatico non sfogato, oltre che tecnicamente ben poco rifinito, attese le frequenti stonature in zona medio-acuta (“qual per esso provo amore” nel racconto del terzo atto). Si trattava a ogni modo di una voce più prossima alle esigenze della scrittura verdiana rispetto alla coppia protagonistica, che evocava con il proprio canto a tratti la Giovine Scuola, a tratti titoli minori del Donizetti comico.

Ascoltando Daniela Dessì, che ha alle spalle una frequentazione ventennale, benché non proprio costante, del titolo, non si può fare a meno di essere ammirati per la saggezza e la parsimonia con cui la signora amministra un capitale vocale che pare avere subito l’estremo declassamento. In basso la voce è povera di smalto e quasi priva di armonici, al centro la tenuta della linea musicale, condotta a suon di pianini in sospetto odore di limitato sostegno, è passabile solo a condizione che la dinamica non superi il sussurro, perché i suoni emessi già sul mezzoforte accusano stridori e oscillazioni che si spingono ben presto oltre il livello di guardia. La fatica di reggere tessiture medio-alte (“dolci s’udiro e flebili” alla cavatina di sortita oppure “degli afflitti è solo sostegno” al recitativo che precede il finale secondo) si riflette nell’accidentata scalata ai parchi acuti, uno dei quali (quello che apre la cadenza in chiusura di “Tacea la notte placida”, da spartito sarebbe un re bemolle…) dà luogo a una sonora stecca. Eppure con tutti questi limiti, conclamati ed evidenti, la Dessì porta a casa la serata, come si dice in gergo, sforzandosi sempre di accentare con proprietà (le riesce soprattutto nei cantabili, molto meno nella cabalette, saggiamente scorciate nei da capo, assai meno acconciamente decurtate nelle previste agilità), trovando nei limiti stessi della propria voce la chiave di lettura del personaggio, umile e rinunciatario ben più di quanto imponga la scrittura verdiana, limitando nei gravi le imitazioni dei cosiddetti sopranoni di forza (anche qui siamo alla necessità che si fa virtù, visto e considerato che di molti di quei sopranoni la signora non possiede la qualità timbrica, per tacere del resto), dosando insomma le forze per arrivare viva e con un poco di fiato alla scena finale, culmine di un atto che chiede davvero alla primadonna di donare tutta se stessa.

Ben misera figura spetta, con una simile navigata coprotagonista, al tenore, un Armiliato anche lui Manrico ventennale o quasi, che qui suona come un Nemorino che gonfia le gote per trovare al centro un poco di proiezione e per conseguenza canta con voce di posizione bassa, artificiosamente scurita, tutta fra naso e gola, frequentemente spoggiata e di conseguenza periclitante nell’intonazione quanto nella tenuta del legato. Spettrale l’attacco in quinta (solo l’attacco, perché dalla metà della prima strofa il cantante, forse conscio del proprio limitato volume vocale, è già entrato in scena) del “Deserto sulla terra”, al terzetto del finale primo vorrebbe esibire un poco di squillo e riesce solo a gridare con scarso smalto. Ma il peggio lo regala, ovviamente, il finale terzo: non tanto la “Pira” al solito scorciata e abbassata di mezzo tono, coronata da un si naturale che sarebbe lusinghiero ed eufemistico definire malriuscito, bensì un “Ah sì ben mio” di desolante piattezza, privo di nuance, di colori, servito con voce malferma, che progressivamente si fa faringea fino a culminare nell’ultima frase, che batte sul passaggio superiore (“e solo in ciel precederti”), in una sequenza di suoni rauchi e gutturali di cui si stenta a trovare l’eguale nella discografia. Per quel che può valere, una autentica radiografia dello “stato dell’arte” del canto verdiano, da parte di uno dei nomi di punta dello star system, prossimo interprete di Poliuto a Marsiglia a fine 2012.

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16 pensieri su “Zuster Radio: Il Trovatore dall’Opéra Royal de Wallonie

  1. Io sono ancora più severo. La regal coppia è alla frutta, lei sgallinava e lui ha la voce ridotta al lumicino. Il resto del cast era buono al massimo per una spedizione punitiva a Mirandola. Il direttore, oltre a tutti i pasticci segnalati da te, ha scambiato il Trovatore per un´operetta di Offenbach.
    Saluti.

  2. Io dico solo che è stato un “Trovatore” fatto a brandelli.
    Armiliato ha 5 (o sei se contiamo anche i “falsettini”) voci diverse: mai due note uguali, mai due note legate, tutta l’emissione è sotto uno sforzo disumano passante per naso, gola e viscere, l’intonazione poi, il “fraseggio” inesistente, il timbro per nulla bello, ma sarebbe il minimo… Manrico ne esce maciullato.
    La Dessì ha tre cose: il centro ancora stabile e timbrato, l’accento sempre intelligente e sensibile e la tecnica che le consente di contenere i danni in basso (vuota) ed in alto (dal fa-sol in poi acida, stridula, corta) con mille e più artifizi (pianissimi, note appena toccate, falsetti). Al IV atto è stremata.
    Basta Verdi per entrambi, già i “Vespri” furono scandalosi, questo “Trovatore” è fuori da ogni pietà! E ci aspetta ancora “Forza del destino”… ma è necessario? Signori i bei di son belli che passati, se poi si tratta di spettacolo privato per fansclub e poveri idolatri allora è altro discorso.
    La Quintero ha gli acuti, i primi almeno, ma al centro è tutta ondulata e in basso apre ogni poro pur di farsi sentire, timbro da controtenore direi.
    Meoni, che vidi e udii in un discreto Scarpia, ha voce piccola, ma sonora, eppure è sempre in ambascia, in difficoltà, fuori stile.
    Arrivabeni fa tutto qul che può per aiutare questo o quel cantante: rallenta qui, velocizza la, copre lui, copre l’altro, tace a destra, pompa a manca… insomma, un prontosoccorso.
    Taccio sul resto su cui è meglio tendere un velo pietoso.
    Inutile, bruttissimo “Trovatore”.

    Marianne

  3. Sono daccordo con tutto detto di Fabio Armiliato, ma abbiamo sentito questi problemi da sempre. À Barcellona ha cantato il giulio pasato “Carmen” con resultati penosi. È certo che il declive de Daniela Dessì è ogni volta più evidente, ma sono anche daccordo che lei è intelligente e che sa come dissimulare un pò l’asprezze de la sua voce.
    Ma questo? Come serà posibile?
    Turandot
    Abr – Mai 2012
    Genova, Teatro Carlo Felice
    Turandot : Daniela Dessì
    Liù: Mariella Devia
    Calaf: Fabio Armiliato

    (Scusi per il mio italiano. Sono di Barcellona e il mio italiano è solo operistico e aprossimativo. E complimenti per il nuovo blog!)

    • ciao e benvenuto.
      esatto sono i problemi di sempre, di cui nessuna critica di fatto parla e scrive. Il signor Armiliato, persona squisita, al contrario del suo canto, ha dedicato la sua voce ad una tecnica perniciosa nota come “affondo”, di cui è apertamente testimonial, che consta in una respirazione addominale contraria a quella di tutti i grandi tenori della storia, gola spalancata, spinte e contrazioni di gola dal passaggio all’acuto. Non è il solo vittima del delmonachismmo più involuto, tanto di moda nel canto tenorile di fine novecento. Come lui tanti altri, dai Giacomini ai baritoni alla Carroli. Lo sforzo è centrale nel loro canto, libera adozione di una tecnica che pare sviluppi molto il volume ma indurisca le voci, rendendole stentoree, indomabili, il suono mai libero e costantemente afflitto dalle contrazioni e dagli spasmi di gola, fraseggio monocorde. Armiliato canta così per convinzione e libera scelta tecnica,di fatto per ragioni di gusto ed intellettuali, oggi molto molto diffuse. Ma di questi problemi nessuno parla e le doti dei giovani vengono spaccate in parecchi conservatori da insegnanti che predicano questo verbo dell’urlo e del conato.

      • Ma almeno Del Monaco aveva voce squillante, robusta, la gola era libera, ed un baricentro vocale che purtroppo Armiliato ha ma più basso e costantemente fibroso e ingrossato che lo porta a ingolfare il suono e a frammentare i registri, cosa purtroppo condivisa da molti suoi colleghi. Sarà certamente un tenore garbato e studioso, ma mi auguro che la saggezza gli consigli di correre ai ripari per rimediare all’esito di queste performance.

        Marianne

        • Del Monaco pagava la sua impostazione “affondata” con l’incapacità di cantare in un puro “legato” e di fare sfumature. In pratica era un declamatore monocorde. Però la voce dai dischi suona squillante, soprattutto in acuto, e comunque non scura come quella dei suoi epigoni. Di Del Monaco insomma ce n’è stato uno solo, le imitazioni sono del tutto insignificanti.

  4. pensavano caro nicola ivanoff tu fossi russo visto il nick name!!!!
    siccome di cantanti nella fase finale della carriera, ormai, ne ho visti molti posso solo dire che sin tanto che non sono andati in scena non credo a nessuna programmazione
    ciao dd
    se vuoi scrivere ancora fallo pure in spagnolo non ci sono problemi. ci sarebbero con il catalano!!!!

  5. Io sono d’accordo a metà su Armiliato.
    Nel senso che il canto è casuale. Non c’è una ricerca tecnica e neanche un’imitazione dell'”affondo” di Del Monaco (che a molti può non piacere ma sapeva cosa faceva e ne pagava pegno). Quello di Armiliato è un vociare alla “sperindio”.
    Magari ci fosse una consapevolezza! Riuscirebbe forse a limitare i danni. E invece va avanti così da sempre.
    La Dessì, è vero. ha mestiere, canta (quando riesce) con accento e intenzioni convincenti. Ma basta, per carità! Sono stufo di queste signore che giocano a nascondino, cantando sempre al risparmio (e lo fa da anni!). Voglio sentire cantare! Con la voce quando c’è da farla sentire e con vere mezzevoci (e non con falsettini)!
    Il grande Artista (quello con la A maiuscola) si riconosce dalla consapevolezza dello stato dei proprio mezzi vocali… non dalle scollature.

  6. caro Lucar, bentrovato prima di tutto. Guarda che la tecnica dell’affondo di cui parlano gli affondisti in senso stretto mica è quella di Del Monaco, ed in fatti non cantano nemmeno come lui da vecchio. però se cerchi in internet o leggi nelle prefazioni ai testi di Menicucci, troverai regolarmente armiliato indicato come testimonial di quel metodo in comagni del buon Bocelli ed altri. perfino la Dessì ha dichiarato che per approcciare certi ruoli pesanti ha dovuto avvicinarsi a questa tecnica…….fatto che mi delude assai da parte sua, al di là che pratichi imeno il metodo ( in tale condizioni vocali mi rifiuto anchesolo di pensarci, ma resto dell’idea che lo affermi ma non lo pratichi….). a quell’affondo alludevo….

    • Ciao Grisi,

      ok, adesso concordo.
      Riguardo alla scuola del tale che nomini (ma che nomar non oso) è meglio non parlare.
      D’altronde se Armiliato è testimonial di quel metodo è evidente di quanto il metodo sia disastroso. 😉

  7. Non vorrei fare una citazione sbagliata, ma mi pare di aver letto o sentito riportare che Alfredo Kraus disse che Del Monaco utilizzava la stessa sua tecnica applicata ad un repertorio drammatico. Tutt’altro che affondismo……..

  8. Conoscevo di persona il maestro Kraus e devo dire che nonostante la tecnica che io considero assolutamente definitiva come insegnante spesso dava l’idea di non essere chiaro ( come tantissimi grandi ) Logicamente bisognava interpretare nel modo giusto i suoi suggerimenti. Per affondo lui intendeva non lo schiacciamento del suono in gola ma il sostegno dato dalla pressione diaframmatica. Il suono poi doveva essere libero e assolutamente immascherato. ( che è poi quello dell’antica scuola )

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