Rigoletto a Pavia. O della bruttezza relativa

Recensire oggi la provincia ha senso solo se consideriamo chi in passato la frequentava e la relazione che intrattiene col divismo del presente. Da Magda Olivero a Renata Scotto, i grandi cantanti non hanno mai rigettato l’eventualità di poter cantare come detto “in provincia”. Renata Tebaldi si è esibita al San Carlo come al Coccia, la Callas alla Scala come a Catania, distribuendo con lo stesso gusto e la stessa professionalità – giacché il rispetto per il proprio mestiere non si tara certo sui confini o sul prestigio della ribalta – il campionario di suoni che le han rese a ragione note e soprattutto amate. La distinzione manichea, parossistica tra grande teatro e teatro di tradizione è a conti fatti una “conquista” degli ultimi lustri. Ci sono sale di serie A e sale di serie Z. I vasi comunicanti sono stati tagliati, il loro incontro aborrito. Peccato però che a conti fatti – ossia misurate le qualità delle esecuzioni – emerga un paradosso che ha quantomeno del bizzarro: proprio laddove si è voluto ergere il muro, si è poi scoperto che le fondamenta erano di marzapane, e che la realtà forse è un po’ diversa. Anzi, la stessa…

Mai come oggi infatti, in tempi appunto di assoluta, esasperata separazione tra la presunta star e il misconosciuto routinier (qualcuno potrebbe mai immaginarsi la Netrebko a Novara?), è possibile tracciarne invece un’indubbia congiunzione, fino a dichiararne una pressoché totale congruenza. Una Tosca a Ferrara non è peggiore di una Tosca in Scala, un Don Pasquale a Como non è peggio cantato di un Don Pasquale a Londra. Così come un Flauto magico a Mannheim non è peggiore di un Flauto magico al Met (piuttosto, siamo stati testimoni in più di un’occasione dell’esatto contrario: ricordiamo l’ottima Norina ASLICO di una recente stagione passata, Ilina Mihaylova, chiaramente scomparsa dalle scene; il buon Damiano Salerno, ormai a corto di scritture; l’ottimo Luca Tittoto, già Creonte ASLICO nella Medea della scorsa stagione, ora Sir Giorgio nei Puritani; per non parlare di Jessica Pratt e Shalva Mukeria, relegati alla provincia padana e marchigiana, laddove meriterebbero ben altri contesti di esibizione).

Non fa eccezione in questo senso il Rigoletto sentito poche sere fa al Fraschini di Pavia. Perché la regola è sempre quella: se di brutto spettacolo si tratta – e questo Rigoletto lo è, senza se e senza ma – non è stata certo migliore la produzione estiva a Orange passata per radio, o lo scempio consumato al Met lo scorso maggio. Tre spettacoli in egual modo non riusciti, tre investimenti monetari diversi, visibilità e fama degli interpreti agli antipodi. A parità di resa, entrano quindi in gioco gli altri fattori. È la logica del brutto relativo, appunto. E allora tra i Filianoti, le Machaidze, le Rancatore, i Lucic, le Ciofi, gli Alagna e i Nucci fuori tempo (e gusto) massimo, preferisco tenermi un cast sgangherato, ma senza particolari pretese. Un cast che, a riprova di quanto detto, esplicita in miniatura questa tendenza: Ivan Inverardi – l’elemento più in vista di tutta la compagnia e recente compare Alfio in Scala – si è rivelato di gran lunga il peggiore in campo (l’ennesima beffa del sistema!). Dotato in natura di un volume e di un timbro di notevole riguardo, non riesce a sostenere con la giusta intonazione le grandi arcate di canto spianato del primo duetto con Gilda e della terza sezione dell’assolo del secondo atto, in cui il tempo più lento dell’invocazione di pietà prevedrebbe una particolare perizia nella gestione del legato. Per non parlare del duetto del finale terzo, inficiato da diffuse fissità in zona centrale. Rimane poi misteriosa l’osservanza dei discutibili – più per negligenza di esecuzione che per dettato filologico – acuti di tradizione: ingolfatissimo il sol naturale sulla frase di Rigoletto a Monterone, «Un vindice avrai» e la modulazione che ne consegue. Sbiancato, tutto indietro il fa diesis su «All’onda! All’onda!» quando sta per gettare il sacco col cadavere della figlia. Stessa solfa per le “maledizioni” e la chiusa del “Pari siamo”. Tuttavia c’è attenzione nel diversificare l’emissione – in relazione alle intenzioni di fraseggio – con smorzature e attacchi in piano degni della più feconda memoria dei 78 giri, con la differenza che qui il fiato si ingorga nella gola (un esempio su tutti, «il PIAnto» e «FA CH’IO RIDA BUffone», ancora nel monologo del primo atto) e ne vengon fuori dei versacci sommessi che nulla hanno da spartire col Canto. La voce gira un poco meglio in buona parte dei passi di declamato di cui la partitura è piena (prima sezione di “Cortigiani”), mentre in altri rischia spesso la mancata tenuta dell’appoggio, finendo così per allinearsi alle ultime tendenze in fatto di recitativo, sillabato e declamato: il “parlato”. Sul versante interpretativo siamo più dalle parti di Quasimodo che da quelle di Triboulet.

Pareva promettere molto meglio il duca di Piero Pretti, almeno alla luce delle battute iniziali. Esibisce la giusta spavalderia nel breve scambio con Borsa – bravo Saverio Pugliese – e la ballata ha il giusto accento e la dizione nitida. Gli acuti mi son parsi invece da subito piuttosto tirati, indice di qualche difficoltà nel far girare correttamente il passaggio superiore. Già il duetto con Gilda, che arriva spesso a toccare la zona fa-sol-la, ne sancisce le pecche, su tutte un’emissione via via sempre più contratta e dura nella parte superiore del pentagramma, mentre la zona centrale rimane sonora e pulita. I tentativi di creare una mezzavoce («che m’ami, deh, ripetimi») finiscono invece per essere una semplice riduzione di decibel e nulla più. Ne patiscono il recitativo in apertura di secondo atto e l’aria successiva, compromessa da un’intonazione peregrina quando si tratta di sostenere il fiato in discesa. È chiaro che non è sufficiente l’omissione della puntatura per sopperire a un Duca suo malgrado più barbarico che libertino.

Parte male la Gilda di Irina Dubrovskaya. Dotata di timbro ingeneroso, stridulo e acido di natura, e di un peso vocale da soprano soubrette – comunque troppo leggero anche per una parte non certo gravosa in fatto di esigenze di tonnellaggio come quella della figlia del gobbo – risolve sottotono il “Caro nome”, inficiato da attacchi aspri in alto («le delizie del’amor», «col pensiero il mio desir»), da trilli ingolati e da scale e arpeggi snocciolati con qualche sbavatura dovuta alla troppa aria emessa. Trova però maggiore compostezza nel prosieguo della recita, in particolare nel duetto in chiusura di terzo atto, in cui la timbratura del suono appare pressoché costante e i tentativi di colorare le frasi meglio risolti.

Tremendo lo Sparafucile di Eugeniy Stanimirov. Cavernosa e frammentata la linea vocale nei versi del confronto con il buffone nel primo atto – uno dei momenti meno felici – mentre la salita su «Sparafucil mi nomino» è berciata, così come le altre nella locanda nel terzo atto. L’accento è generico, oltre quanto la scrittura già consapevolmente preveda. Autentico mezzosoprano, Alessandra Palomba è Maddalena, degna sorella del sicario. Sia in termini drammaturgici che di resa vocale. Sia per il timbro sabbioso, che per l’eccedenza di suoni poitrinés. Gli staccati nel grande quartetto («Ah! Ah! Rido ben di core») richiamano sonorità “ultrateatrali”, più vicini al diffuso coccodè di più rilassate circostanze. Buono infine il tonitruante e composto Monterone di Pasquale Amato, inficiato da un vibrato largo in odor di senescenza.

Routinaria la direzione di Marco Guidarini, a capo di un’orchestra tutt’altro che impeccabile, in particolare nel reparto ottoni. Passaggi come la comparsa di Monterone al primo atto, la tempesta, l’omicidio sacrificale di Gilda trovano la giusta tensione in buca, quasi a suggerire una dote narrativa a capo della giovane bacchetta. Più flaccidi e slavati i momenti di astratto accompagnamento, come gli assoli dei tre protagonisti.

Il nuovo allestimento a firma Massimo Gasparon, in associazione con lo Sferisterio di Macerata, ricalca certe intuizioni di scenotecnica di ponnelliana memoria, con una scenografia al centro che gira su un asse in modo da descrivere l’avvicendarsi degli ambienti. Ma il palco scarno ne mina la suggestione creata dall’illustre precedente, così che l’allestimento – nutrito di reminescenze che vengono dalla scuola pittorica veneziana – finisce per ricordare più un carillon disperso in uno spazio siderale che la carica di un milieu fortemente determinato. Non è nuova nemmeno l’idea di individuare nella corte dei Gonzaga un parallelo con le maschere della commedia dell’arte. E poi, Rigoletto travestito da Pulcinella manca il centro dell’impianto teatrale del libretto: lo statuto tragico di un buffone rivisto con lo sguardo del tardo romanticismo verdiano.

43 pensieri su “Rigoletto a Pavia. O della bruttezza relativa

  1. Io c’ero a Pavia e rimango nuovamente stupefatto da questa tipologia di analisi. Come può un amante dell’arte e della musica non rimanere colpito dall’interpretazione di Inverardi, da quello che è riuscito a trasmettere dal palco? La vera bruttezza a mio avviso risiede nelle critiche fatte da gente che non è più in grado di emozionarsi.

    • Ho sentito la Dubrovskaya un paio di volte e devo dire che dal vivo il timbro- pur se a tratti ancora acerbo considerando la giovane età- è sonoro e possiede un dinamica da lirico leggero molto interessante.
      Non suona eccessivamente acidulo, anzi, è un timbro piacevole e con buoni armonici.
      Visto il panorama odierno è sicuramente una cantante che promette bene e che ha la qualità per fare strada.
      La qualità che più colpisce è la facilità di emissione degli acuti e sovracuti, veramente notevole ed impressionate.Ripeto solo che ha bisogno ancora di maturare come personalità e nella capacità di scavare i personaggi.

    • Carlotta, vorrei invitarti a cena, parlare di intonazione. Alla fine, amichevolmente, cantare in un bel luogo risonante e praticare l’intonazione. In tal modo si potrebbe togliere questo concetto dalla relatività.
      Sono 27 che mi occupo di intonazionea a vari livelli, su voci e diversi strumenti… Voglio veramente capire e sentire cosa intendi tu. Magari imparare ciò che nella mia continua professione non ho mai assimilato…
      Spero tu possa accettare questa simpatica proposta.
      Con affetto, Dario

      • Ma Dario, chiaramente ero ironica. Io parlavo di relatività del concetto di bellezza (rispettabile e legittimo). Così come delle tanto inflazionate “emozioni”. L’intonazione e la tecnica in generale sono invece questioni – inutile dirlo – oggettive. Ti confesso che rimango piuttosto perplessa quando sento parlare di arte in relazione al canto di Inverardi da parte di qualcuno che si occupa di musica da 27 anni. Stiamo discutendo di un baritono che tutti noi abbiamo sentito più volte, a Bologna e recentemente a Milano. Come già detto, è dotato in natura di grande ampiezza, che però non sa gestire: la linea del canto non riesce mai a stabilizzarsi, tende appunto alla fissità, all’apertura sguaiata dei suoni, non ultimo al deficit di intonazione. E gli acuti sono sempre berciati. Per quanto riguarda il confronto, direi che sarebbe interessante farlo davanti a un audio della recita, che purtroppo non possiedo (e men che meno mi son peritata di portare il registratore…). Se tu lo hai, possiamo caricarlo sul sito e aprire un dibattito pubblico, coi miei colleghi e con tutti i nostri lettori.
        Ciao,
        Carlotta

        • Carlotta, sono un maniaco dell’intonazione. Ma perdonami: che senso ha di parlarne in un contesto del genere? Intonato rispetto cosa? Ad un’orchestra stonata come quella dei Pomeriggi?
          Allora, diciamo che l’appoggio su cui cantava Inverardi era osceno, soprattutto violini e fiati. Però, dal mio punto di vista, di musicista che per fortuna non ha perso ancora la capacità di stupirsi, da artigiano che tratta epoche diverse e non solo l’opera, posso affermare con estrema sicurezza che Inverardi è un artista, che vive nel profondo quello che canta e che commuove…
          Inutile fare un ‘Microscopio’ di un contesto così traballante. Poi da musicista conosco cosa vuol dire calcare la scena, mi immedesimo nel ‘sacrificio’ di quelle persone, nello sforzo che compiono, nell’amore che ha accompagnato la loro vita e cerco di conseguenza di cercare il positivo o per lo meno di critica avendo rispetto.
          Un bacio Carlotta

          • Guarda Dario, ho trovato su youtube l’intera recita comasca. Beh, la prestazione di Inverardi mi pare addirittura peggiore di quella pavese. Un confronto su quell’audio sarebbe impietoso per il tuo beniamino (basterebbe risentire tutta la sezione che anticipa l’assolo del secondo atto, il duetto con Sparafucile, per non parare di tutti quegl’orribili pianissimi…). Qui non si tratta di fare miscroscopi, ma nel rilevare gravi carenze spalmate sull’intero arco della recita (e i commenti che ho sentito fuori dal teatro sono rivelatori, del tipo “Questo baritono ne ha di lavoro da fare”)! Mi spiace che ai miei appunti tu abbia ribattuto con la solita, usurata “poetica della buona volontà”, tanto più di moda quanto più non si riesce ad entrare nel merito delle questioni – e quanto più di fatto non si sa mettere su esecuzioni quantomeno decorose – fatta di “sacrifici”, “amore”, e via zuccherando. Dickens continuiamo a leggerlo, ma la sua declinazione recensoria la lasciamo ad altri. A quest punto mi chiedo: tu, nel tuo lavoro quotidiano, vieni giudicato secondo l’impegno e l’affetto che ci metti? Io sono francamente stufa di leggere “giudizi” del genere su dei professionisti, che in quanto esercenti una professione dovrebbero essere giudicati per il loro “saper fare”.
            Mi sembra di star qui a ribadire che l’acqua è bagnata. Vabbè.

            Riguardo i commenti alla Dubrovskaya che mi precedono, che dire… non sono molto d’accordo. Non discuto sia la migliore della produzione, però il timbro è davvero infelice, e le mende vocali, in particolare le spoggiature in zona medio alta quando la nota viene portata dal centro, lo rendono ancora più acidulo. I sopracuti degli arpeggi del Caro nome li ho trovati approssimativi, troppo tirati e poco puliti. Ha cantato però sempre a fuoco il terzo atto (salvo quando deve appunto legare “LassU nel cielo”), questo va detto. Considerata la giovane età credo ci siano tuttavia consistenti margini di miglioramento. Vedremo…

  2. la verità è un asola ed il resto fanferlucche e cianciafrustole. L’ultimo baritono che abbia cantato rigoletto in maniera irreprensibile fu carlo tagliabue. circa l’interprete, però, i dubbi sono legittimi. lo cantarono piuttosto bene, ma non in maniera esauriente rispetto alle esigenze vocali del personaggio aldo protti e mac neil. poi l’abisso più o meno profondo. ai cantanti degli ultimi 50 anni manca il fraseggio ore ritundo ed ampolloso che è di rigoletto perchè a monte manca il controllo del fiato che era dei baritoni del passato.
    come sempre è l’ascolto comparato ad aprire le orecchie, sempre che le stesse siano collegate con la mente. in difetto si dicono e scrivono encomiabili fesserie. Encomiabili, ma sempre fesserie
    ciao a tutti dd

    • Tutto è relativo, anche il concetto di fesseria… è fesseria per me comparare un cantante con un’altro come se ascoltando un giovane di provincia si affermi “Ma non è Michelangeli, non ha il suo suono e la sua tecnica”. E’ un fesseria non essere più in grado di ascoltare, liberando la mente da ciò che si vorrebbe sentire, da ciò che si aspetta. E’ una fessereria, in presenza di un buon artista, non saper cogliere e godersi il suo messaggio positivo.
      Insomma… siamo un mondo di fessi….

  3. Salve a tutti…La recensione mi trova solo parzialmente d’accordo…Corcordo pienamente sul fatto che oggi si verifichi spesso che la recita (almeno come voci) di provincia sia superiore a quella dei teatri più importanti…Il che chiaramente dovrebbe far riflettere…

    In questo caso però vorrei spezzare una lancia in favore della Dubrovskaya. Purtroppo non ho ancora avuto modo di ascoltarla in Rigoletto ma sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla sua Violetta che ho ascoltato l’anno scorso ad Ascoli. Avevo ascoltato dei suoi audio prima della recita ed il timbro mi era parso piuttosto acido…ma sono stato ampiamente smentito dopo aver ascoltata dal vivo…Sicuramente non è dotata di una strumento potente ed è ancora immatura ma la sua voce è sempre in avanti, ben sostenuta, con una buona dinamica e “corre” moltissimo in teatro (nel crescendo finale di Traviata dominava facilmente l’orchestra). Per non parlare della sua facilità estrema nei sovracuti e nei si e i do acuti pieni e sonori.

    In sintesi ritengo che la signorina Dubrovskaya sia, al pari di Jessica Pratt, una delle poche buone voci (soprano) e con un bel potenziale nel panorama italiano di questi ultimi anni…

    Su Jessica Pratt (da voi adorata a 360°) concordo abbastanza…In particolare la trovo deliziosa in Rossini…Ma mi trovo in totale disaccordo sulla sua Elvira (purtroppo mi baso solo sulla sua Elvira di Salerno), a mio parere, priva di dinamica, di drammaticità, spesso caratterizzata da sovracuti lanciati in modo che definirei “selvaggio” (si ascolti “son vergin vezzosa” e “vien diletto” a Salerno)…e in due parole…piatta e scolastica

    • Cara Kirsten, grazie delle precisazioni.sulla DUbrovskaja. Sulla Pratt preciso. A 360 gradi se canta come in adelaide o in questa elvira. Quando ha cantato male come in scala e’ stato scritto e quanto ai Puritani di salerno concordo. La questione pratt e’ per me prooblema di continuita’. Sa fare tutto cio’ che serve per diventare una grande, ma per qlche motivo che non so, ha fatto fatica ad essere continua.la voce di questi mesi pare brillante come mai perche’ il fiato pare in ordine come in alcune sue cose che ci colpirono inizialmente. Vediamo se continua….

  4. Non ho visto lo spettacolo ma concordo con la premessa di Carlotta. Si vedono sempre più brutti spettacoli, cantati male e questo accomuna i vari teatri, le distinzioni tra provincia, città e metropoli si riducono. Per i grandi interpreti di un tempo la provincia era, soprattutto, il luogo dove debuttare e consolidare un ruolo prima di calcare le scene davanti al pubblico dei grandi teatri, temibile perché preparato. Oggi dalla Scala al Met il pubblico è in gran parte di turisti quindi a che serve più prepararsi e fare la gavetta ?

  5. Concordo con Olivia…………..ora più che mai nei grandi teatri si punta più alle qualità estetiche delle forme fisiche piuttosto che alle qualità estetiche delle voci:).Nei grandi teatri storici a salvare il tutto ci sono le grandi scenografie e una certa cura meticolosa della recitazione, spesso necessaria per coprire le falle e limiti vocali.

    • Ti ri-rispondo qua di sotto, perchè sono andata sul Tubo a sentire la Dubrovskaja. In Traviata, non canta affatto male, mi ricorda un po’ la Pendatchanska. Nel “Sempre libera” alcuni acuti sono un po’spinti ed aciduli…..ma solo alcuni..e talora stimbra perchè spinge…Meglio qui:http://www.youtube.com/watch?v=MGXxZAnbsKw&feature=related
      Nel Rigoletto francamente non so. Mi sembra un’altra cantante analoga a quel soprano bulgaro che cantò il Don Pasquale sempre nei teatri lombardi.Soprani interessanti che speriamo di rivedere e che non si perdano nel nulla. Cantassero tutti male così, avremmo una lirica migliore…saluti

      • Effettivamente anche secondo me si trova meglio in Traviata, forse perchè è un ruolo che ha “navigato” di più…Comunque aspetto di sentirla dal vivo in Rigoletto per giudicare…Speriamo bene per il suo futuro…ha un ottimo potenziale ed è molto giovane…

  6. Leggo la discussione pretestuosa tra dario e carlotta. Intonazione come dato relativo per giustificarre in cantante cui spesso si attribuisce questo difetto mi pare un distillato di alibi. Se uno stona, stona. Comparare tizio a caio e’ difetto dei melomani e concordo. Ma che la capacita’ di giudizio di chi ascoltanon possa provenire dal confronto con gli ascoli accumulato nel tempo e’ moderna cazzata da giornalettismo operistico. La capcita’ di giudizio viene dall’aaver ascoltato molto….con il cervello e le orecchie accesi. Come da che mondo e mondo nell’opera.

  7. ho visto Rigoletto a Cremona e letto i vostri commenti; a parte l’aspetto vocale ho letto poco sulla regia che a me è parsa insoddisfacente;in sostanza tradizionale il regista ha voluto aggiungere qualcosa di originale nelle sue intenzioni, è come se a un piatto della tradizione culinaria si aggiungesse qualcosa di strano per dire “questo l’ho fatto io”;parlo di Pulcinella (Gasparon si richiama a Tiepolo, ma non era il più famoso Gianbattista,il padre, ma Giandomenico il figlio; inoltre il Duca(di Mantova?) e Monterone in frac e Sparafucile vestito come Goering; e poi dov’è l’originalità il richiamo a Venezia per via della prima? qualcuno direbbe:”ma che c’azzecca”. saluti Otello

  8. Incopreso e deluso torno fare musica…. voi continute a criticare :)

    Schumann diceva: “Solo l’artista può comprendere l’artista”.

    Rimango dell’idea che Inverardi in scena sia un artista che comunichi molto. Per me intonazione vuol dire essere in tono rispetto ad altro ed è ridicolo giudicare l’intonazione di un cantante e non sentire che l’orchestra è un disastro. Risentire quell’opera per giudicare è gestuo veramente banale… logico che vengono fuori un sacco di difetti e il tutto non può prescindere dalla diretta, dal teatro… Masiete voi le scienziate, quindi buona continuazione

  9. Tralasciando il mio profondo disgusto per l’infinito tradizionale proliferarsi di rigolettacci di provincia (smettetela di partorire disabili, siete proprio senza cuore), alla luce di questa ennesima recensione non posso che rafforzare il mio letargo operistico nelle registrazioni storiche. E poi, davvero, smettetela con queste “emozzzzioni”, il melodramma è un capriccio eroico della musicalità, non una trasmissione della De Filippi per scolaretti e massaie in pensione, non cerca di commuovere proprio nessuno. Buona serata.

    • Non sono affatto d’accordo. A teatro vado non solo per godermi buona musica – anche se nelle ultime recite ho sentito cani e porci – ma anche per emozionarmi o ridere della vita. Scusi, ma allora secondo lei l’opera buffa non dovrebbe esistere!!
      “Il dramma per musica deve far piangere, inorridire, morire cantando…”
      (Vincenzo Bellini)

      • Appunto, “cantando” dice Bellini. Il teatro è incapsulato nella musica, non nella componente di rappresentazione. Bellini diceva anche, rivolto al Conte Pepoli, librettista dei Puritani, “Ricordati che la gente vuole piangere a teatro” e non comprendere storielle librettistiche contorte o no che siano. Il fatto che uno si commuova però è largamente incidentale e scisso dalle intenzioni del compositore, lo stesso Shakespeare ripeteva sempre “nostro l’intento ma non l’esito”. È un discorso piuttosto articolato. Certo ridurre il melodramma a rappresentazione decorativa/critica della realtà significa averne una concezione assai poco matura.

  10. Siete tutti malati 😀

    Basta, non entro più in ambienti in cui gira questa brutta malatttia che colpisce spessissimo persone che non sanno produrre un suono: la MELOMANIA!

    Godetevi la vostre frustrazioni, io le mie emozioni! :-)

    Un bacione a tutti

  11. …più di quelli che arzigogolano sull’intonazione relativa ed altre cianfrusaglie affini per giustificare la robaccia???? ma di chi e cosa stiamo parlando? ma che vieni a difendere? l’amico? te stesso? o qualcosa che non ha nessun valore e di cui ci dimenticheremo presto? anche tu, dai a questi cantanti e a questa produzione il peso che ha…..

  12. Non avendo assistito alla recita dell’altro giorno, non mi permetto di giudicarla. Quanto all’allestimento, che io ho visto a Macerata ad agosto, sinceramente non l’ho trovato così orrido, ma abbastanza banalotto (poi forse sembrava più bello nella particolarissima cornice architettonica dello Sferisterio). Avete notato che i costumi “di Massimo Gasparon” sono in realtà, per quanto riguarda il coro, quelli disegnati da PL Pizzi per Bianca e Falliero di Pesaro 1986?

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