Verdi Edission: Falstaff

“Scrivendo Falstaff non ho pensato né a teatri, né a cantanti. Ho scritto per piacer mio e per conto mio”. Con queste parole – indirizzate da Verdi a Giulio Ricordi nel 1891 – si comprende la portata “rivoluzionaria” (nell’ambito ristretto della tradizione italiana) dell’ultima opera del “cigno di Bussetto”. Il piacere del pubblico, i desiderata dei cantanti, la convenienza spiccia degli impresari teatrali erano stati esplicitamente esclusi dal processo compositivo, trasportando di colpo l’opera italiana (ancora legata al rispetto di convenzioni e forme) in una dimensione europea. Con il suo ultimo capolavoro, infatti, Verdi stravolge il mondo musicale nostrano sotto due aspetti: scardina le forme e ne rinnova il settore più obsoleto: l’opera comica. Per quel che riguarda il primo aspetto si deve notare come la struttura del melodramma italiano non avesse subito molti cambiamenti dall’epoca di Rossini: un insieme di rodate convenzioni, un più o meno rigido susseguirsi di numeri chiusi segnavano il passo condiviso di opere tra loro diversissime, ma dove erano ben riconoscibili certi comuni denominatori (ad esempio: introduzione, cavatina con o senza cabaletta, duetto in due parti con o senza cantabile in mezzo, concertato in finale d’atto, rondò o scena per la primadonna). Un “marchio di fabbrica” che, se pur aveva garantito la diffusione di un linguaggio di successo (favorito dal sorgere di un rapido mestiere, un vero artigianato musicale che, barcamenandosi in una certa mediocritas, non conosceva grandi voli artistici, ma neppure grosse cadute di gusto), parallelamente aveva contribuito a rendere il mondo musicale italiano poco permeabile  alle istanze di rinnovamento provenienti da esperienze straniere (tedesche in particolare). La codifica delle convenzioni rendeva facile il lavoro di compositori e cantanti che, semplicemente, riempivano i buchi di una struttura già preconfezionata. Decine e decine di titoli si susseguivano nelle stagioni italiche, spesso differenziandosi tra loro per i diversi gradi di inverosimiglianza della trama o per l’improbabilità delle soluzioni narrative: al centro di questa macchina di produzione stava il cantante che così riempiva le tasche sue e quelle degli impresari. Ovviamente dalla media spuntavano i grandi (Bellini, Donizetti, Verdi), ma rimanevano quota marginale dell’industria, e, appena fama e sostanze lo consentivano, cercavano di emigrare all’estero (Parigi soprattutto), per coltivare la propria arte con maggiore libertà e soddisfazione (giovandosi di maggior rispetto da parte dei cantanti e di orchestre non raccogliticce com’era la media di quelle italiane: condicio sine qua non per poter sviluppare una musica che non fosse solo mero intrattenimento). Ma nonostante tutto le convenzioni non venivano stravolte. Non mancavano, certo, i tentativi – più o meno consapevoli – di superamento, ma la sostanza ed il nucleo dell’opera rimanevano saldamente ancorati alla tradizione del melodramma: lo stesso Otello – pur con un uso abbastanza spregiudicato delle forme – ricorre alle stesse convenzioni e alle stesse successioni di numeri che potrebbero trovarsi, pur con le dovute distinzioni, anche nelle opere di Pacini o Mercadante. Falstaff, in questo senso, è qualcosa di completamente diverso: sia nella struttura che nella sostanza musicale. Per quel che riguarda il secondo aspetto, invece, occorre premettere l’incredibile arretratezza dell’opera comica in Italia. Ancora, nella seconda meta dell’800 rimanevano gli schemi dell’opera buffa tradizionale: ritmi, idee melodiche, distribuzione vocale tra i personaggi…tutto rimandava a formule in auge ai tempi del primo Donizetti. Con Falstaff si abbandonano tali certezze a favore di una vera commedia musicale dove la parola diviene un tutt’uno con la musica, in un rapporto di totali simbiosi (come appaiono lontani i tempi di un Rossini che riciclava i propri brani anche in contesti diversissimi tra loro): il soggetto, già musicato con esiti diversi da Salieri, Balfe e Nicolai, per la prima volta non era trattato quale semplice farsa vagamente triviale (con equivoci di dubbio gusto e risata grossolana), ma gli veniva concessa una dimensione di ambigua grandezza (non solo comica) attraverso la caratterizzazione del protagonista – sicuramente un cialtrone – non in termini farseschi, ma sottolineandone la profonda umanità. Verdi, dunque, dopo “cinquant’anni di galera” si “permette” – raggiunta ormai la certezza di fama e successo – di scrivere musica seguendo soltanto le proprie idee, senza, di esse, dover rendere conto ad alcuno (inconcepibile sino a pochi anni prima). Da tempo aveva in animo di trarre un’opera da Le allegre comari di Windsor (dell’amato Shakespeare: autore che lo segnerà per tutta la carriera, sia nei titoli realizzati che nei progetti abbandonati, come il rimpianto Re Lear), fin dall’epoca di Don Carlos. Solo in tarda età e dopo il ritiro ufficiale (Otello doveva/voleva essere la sua ultima esperienza teatrale) riuscì a realizzarla. Con la stretta collaborazione di Boito (a tutti gli effetti coautore dell’opera: tale la simbiosi tra parola e musica), Falstaff iniziò a prendere forma nel 1889. Il lavoro, a stretto contatto col librettista, a differenza di altri titoli, procedette abbastanza tranquillamente, con un Verdi insolitamente divertito per le notizie circa la sua nuova opera che ormai trapelavano nell’ambiente: la sua principale preoccupazione era quella di “estrarre tutto il sugo di quella enorme melarancia shakespeariana senza che nel piccolo bicchiere guizzino i semi inutili, scrivere colorito e chiaro e corto, delineare la pianta musicale della scena affinché ne risulti una unità organica che sia un pezzo di musica (…) far vivere l’allegra commedia da cima in fondo, farla vivere d’un’allegria naturale e comunicativa è difficile, difficile, difficile ma bisogna che sembri facile, facile, facile…” Non il rispetto delle convenzioni, dunque, non il posizionamento del rondò del soprano in modo che non desse fastidio alla cabaletta del tenore (e ai rispettivi primadonnismi), ma preoccupazioni di organicità musicale. Proprio la collocazione di Falstaff nel coevo teatro musicale (e anche nei confronti della precedente produzione verdiana), il suo carattere di opera ideale, voluta da tutta una vita e mai realizzata per mancanza di un libretto adeguato e di sufficiente indipendenza dal gusto del pubblico, rende particolarmente complessa la fase preparatoria alla messinscena, ossia la ricerca di cantanti e interpreti. Ci pensa Verdi a mettere subito in chiaro le cose: “si tratta di commedia: musica, nota e parola, non cantabili, movimento scenico e molto brio”. Il “canto”, inteso alla maniera vetero ottocentesca, come elemento centrale a cui sacrificare coerenza e libertà espressiva, viene esplicitamente escluso dall’orizzonte estetico del Falstaff (ciò naturalmente non significa che l’opera vada mal cantata). Basterebbe questo a segnare il passaggio dei tempi e il tramonto di un’epoca seppure gloriosa: la “morte del melodramma” avviene con Falstaff (e non – come pure sostengono molti – con Turandot). Da allora si scardina definitivamente il rapporto tra autore, opera e interprete, relegando quest’ultimo in un ruolo secondario rispetto alle prevalenti esigenze artistiche: pur in ritardo, anche in Italia il compositore da artigiano diventa artista. E di conseguenza devono cambiare anche le modalità espressive: scrive di nuovo a Ricordi – “la musica non è difficile, ma bisognerà cantarla diversamente dalle altre opere comiche moderne e dalle opere buffe antiche. Non vorrei che si cantasse come si canta ad esempio la Carmen, e nemmeno come si canta o il Don Pasquale o il Crispino. E’ uno studio a farsi e ci vorrà tempo. I nostri cantanti non sanno fare in generale che la voce grossa; e non hanno elasticità di voce, né sillabazione chiara e facile e mancano d’accento e di fiato”. L’attenzione alla parola cantata, dunque, pare centrale nelle prescrizioni dell’autore, e con questo riferimento va ricercato il cast adeguato. I primi intoppi sono di carattere orchestrale: la morte di Faccio (unico direttore d’orchestra italiano degno di poter affiancare le bacchette europee) lascia un vuoto incolmabile e, dopo aver scartato Mancinelli ed escluso l’ipotesi, caldeggiata da Ricordi, di un concorso (di cui Verdi diffidava fortemente, poiché fatti per far vincere i mediocri), i favori dell’autore andarono a Edoardo Mascheroni, scelto per la fama di gran lavoratore (“ed alla Scala è necessario un lavoratore”). Altra grana da affrontare era il livello scadente dell’orchestra: Verdi ne era decisamente insoddisfatto (“per l’orchestra c’è del marcio in Danimarca”), in particolare per violini e fiati stonati. Ma le difficoltà più grosse si ebbero nella scelta dei cantanti. L’autore aveva in mente dei cantanti-attori, e non le celebrità che calcavano i palcoscenici di allora (“troppe celebrità, troppi divi: il troppo anche nel bene produce il male!”). Mise subito in chiaro che le prove sarebbero state lunghe e che lui sarebbe stato molto esigente (“non è facile eseguirla come io desidero”), non come in Otello – di cui non era stato per niente soddisfatto – dove, dice, aveva sopportato di tutto. Verdi aveva ben chiare le caratteristiche dei suoi interpreti e molti nomi proposti furono scartati perché troppo “cantanti”. Per Quickly voleva azione, disinvoltura accento sulla sillaba e scartò la Guerrina Fabbri che “può aver successi nei cantabili a base di agilità come nella Cenerentola, ma la parte di Quickly è un’altra cosa”, alla fine scelse Giuseppina Pasqua. Allo stesso modo Alice e Meg: per la prima scartò Gemma Bellincioni (troppo sentimentale), Emma Calvé (troppo primadonna) e Luisa Tetrazzini, a favore di Emma Zilli, pur con qualche riserva; per la seconda Virginia Guerrini (dispiacendosi che la parte fosse solo secondaria). Nannetta doveva essere giovanissima, brillante e bravissima (il pensiero a certe Nannette di ieri e di oggi mette i brividi) e la scelta cadde su Adelina Stehle. Per Ford venne scartato Arturo Pessina (perché “più cantante che attore”) a favore di Antonio Pini-Corsi. Per Fenton a Angelo Masini (troppo divo) fu preferito Edoardo Garbin (che si sarebbe sposato con la prima Nannetta proprio l’anno di Falstaff). Mentre per il protagonista scelta obbligata fu Victor Maurel: non senza alcuni impicci di natura economica. L’esoso baritono (e la di lui moglie), infatti, pretese condizioni contrattuali assurde, tanto da far infuriare Verdi (che pure non ebbe mai un buon rapporto personale con Maurel, nonostante lo ammirasse artisticamente) e da minacciare il ritiro dell’opera attribuendone, a mezzo stampa, la colpa al cantante. Ma alla fine anche il divo chinò la testa e l’opera andò in scena la sera del 9 febbraio 1893, davanti ad una platea sceltissima di letterati, musicisti, corrispondenti esteri e tutto il bel mondo dell’epoca. Il successo, ça va sans dire, fu enorme, anche se Falstaff non divenne mai veramente popolare. La critica (favorevole e contraria) si sbizzarrì nel trovare ascendenze e ispirazioni, richiami e riferimenti (da Mozart sino ai Meistersinger), esercitandosi – allora come oggi – in alambiccate elucubrazioni tanto improbabili quanto inutili, testimonianti solo l’incapacità di comprendere, l’ansia di catalogare e l’arroganza di giudicare ciò che, probabilmente, non potevano o volevano capire. Ma Richard Strauss lo definì uno dei capolavori di tutti i tempi. In realtà Falstaff è un’opera diversa da tutte le altre, che mischia con sapienza il canto alla parola, senza far mai prevalere l’uno sull’altro (ricorda quasi certe teorizzazioni del recitar cantando) e in cui l’orchestra si emancipa del tutto dal mero ruolo di “accompagnamento”: non si sentono più le trombe che doppiano la voce o gli arpeggi pizzicati o il tremolo degli archi a sostegno del pigolio dei legni; neppure le soluzioni di facile descrittivismo sonoro (le albe o i temporali che infestavano il melodramma italiano con la loro pedante banalità). L’orchestra è organizzata indipendentemente dalla voce e dialoga col cantante, suggerendo temi, proponendo contrasti, attraverso piccole cellule musicale che mai assumono la forma di numero chiuso. Non ci sono arie, concertati, duetti etc…ma un fluire ininterrotto e libero di monologhi e dialoghi costruiti con grande sapienza teatrale, sonetti e madrigali, parodie (impagabile l’esemplificazione della forma sonata nello scambio Bardolfo/Pistola/Cajus nell’atto I) e citazioni di musica colta decontestualizzata, quale la grande fuga che chiude l’opera. A tale libertà formale corrisponde una analoga libertà nell’uso delle tonalità che, pur nel rigore dell’applicazione dell’armonia, apre a scenari insolitamente avanzati e a soluzioni atipiche e avveniristiche. Del pari la strumentazione è ricca e raffinata, fatta di accenni attraverso l’utilizzo di temi conduttori o evocativi (le trombe che irrompono nel “voi siete un uom di guerra” di Ford a Sir John, ad esempio, a suggerire un’ironica marzialità). Sembra che Verdi, nel suo testamento, voglia metter tutta la sua sapienza musicale, più che il mestiere appreso negli anni di una lunga carriera. Impossibile in breve spazio analizzare compiutamente le tante sfumature di una partitura ricchissima come Falstaff, basti solo un accenno a due aspetti da tenere in considerazione nella pratica esecutiva: ritmo e recitazione. Verdi stesso aveva vergato sull’autografo alla fine di ciascuna delle due parti che compongono l’atto I, l’indicazione di 14 minuti e 14 minuti e mezzo: tempi frizzanti e vivaci, dunque, senza perdite di tensione o autocompiacimenti (per la verità non vi è proprio spazio per essi, neppure nel lirismo smaccato – ed evidentemente parodistico – di Fenton e Nannetta). Il senso teatrale verdiano è proverbiale ed è ancora una volta dimostrato in queste indicazioni così precise. Per ciò che riguarda la recitazione, è utile ricordare (a certi baritoni indulgenti verso una sbandierata gigioneria) che né Boito né Verdi erano degli sprovveduti e ben conoscevano i meccanismi teatrali utilizzati nel dipingere la vicenda: evitabilissime dunque le aggiunte fantasiose di frasi berciate o di versi d’espressione, così come la storpiatura di parole o le vocettine da rimbambito con cui certi cantanti pensano di rendere più “divertente” Falstaff. Non è necessario, atteso che non si tratta di una volgare farsaccia. Falstaff, per la sua singolarità e diversità (rispetto all’opera italiana tradizionale), attirò più le attenzioni dei grandi direttori che di grandi cantanti: da Toscanini a Karajan, da Bernstein a Solti, sino a Muti, Davis ed Abbado. Taluni vi ritornarono più volte, con esiti alterni, lasciando interessanti testimonianze discografiche: anche diversissime tra loro (si pensi a Karajan). Difficile esimersi dal confronto con Toscanini: opera quanto mai congeniale all’approccio toscaniniano che – se discutibile laddove affronti il primo ‘800 o certo Verdi – in Falstaff trova terreno ideale per la sua concinnitas teatrale, il suo senso del ritmo e la sua carica travolgente, che lascia poco spazio a momenti contemplativi. In questo è aiutato dall’intelligenza e dalla coesione di un cast che è veramente una squadra, capitanata dal più grande, forse, Sir John della discografia: un Giuseppe Valdengo misuratissimo nella resa della parola cantata, controllato nel fraseggio e, soprattutto, del tutto alieno a sbracature ed eccessi (si ascolti il monologo dell’onore, cesellato senza aggiungere nulla alla strepitosa malizia del testo). Non si può dire altrettanto con buona parte degli altri interpreti del ruolo: non certo Gobbi che, pur nella raffinatissima (anche troppo) cornice dipinta da Karajan, eccede con torvo istrionismo in una datatissima sequela di facili effettacci (voce roca, falsetti, versi, risate); neppure Evans (con Solti) o Fischer-Dieskau (con Bernstein) sono modelli di misura, oltre ad avere pochissima dimestichezza con la lingua e la prosodia italiana (elemento necessario per interpretare l’opera al meglio), a cui l’uno supplisce con eccessi di trivialità alquanto fastidiosi, l’altro con un artificiosa vivisezione della parola (pur rimanendo estraneo al suo significato) in un intellettualismo che sfocia nella leziosità. Altri due interpreti storici sono Giuseppe Taddei e Mariano Stabile (di cui si offre il Falstaff integrale, dalla Scala nel 1951): il primo per la pastosità e il calore della voce (anche se il fraseggio non è immacolato), il secondo per il timbro chiaro, aspro e baldanzoso (lontano dalla bonaria paciosità dell’iconografia di Sir John) corrispettivo ideale della vitalissima e tesa direzione di De Sabata che, come e più di Toscanini, impone tempi vorticosi e un bel suono asciutto. In tempi più recenti vanno segnalati gli esiti alterni di José van Dam (troppo sforzato in una parte evidentemente poco congeniale e di cui non si coglie affatto il carattere) e di Juan Pons, diretto molto pesantemente da Muti e altrettanto morchioso. Interessante la tardiva incisione di Trimarchi, ma funestata da eccessi d’ogni sorta, stavolta non imputabili al pur estroverso cantante (che imperversò negli anni trascorsi nel repertorio buffo tradizionale, con esiti tutt’altro che felici), ma alla fantasiosa regia sonora di Will Humburg, direttore per certi versi interessantissimo, ma dotato di un cattivo gusto“esemplare” nel farcire ogni sua incisione (altrimenti meritevoli di ascolto) con effetti da radio dramma: porte che cigolano, rumori di passi, stoviglie che si rompono, starnuti, risate e – orrore tra gli orrori – battute aggiunte a mo’ di commento mentre altri cantano. Caso a parte il Falstaff di Renato Bruson che, con la complicità di Giulini (grandissimo interprete verdiano) esalta la malinconia del personaggio, il rimpianto della giovinezza perduta e il non arrendersi alla decadenza della vecchiaia, facendone un personaggio di statura tragica, in cui il sorriso è sempre venato di tristezza. Una grande prova, molto personale. Molto interessante il Falstaff diretto da Davis coi complessi della LSO e con uno splendido Michele Pertusi protagonista misurato che, a differenza di molti, canta e non parla. Da ultimo segnalo l’edizione diretta da Claudio Abbado: uno dei momenti più bassi della sua discografia (funestata da cantanti del tutto estranei al contesto italiano e incapaci di rendere in modo quanto meno decente il dettato verdiano: risolto in macchietta o in farsa triviale).  Con Falstaff si chiude la carriera di un compositore che ha segnato l’800 musicale italiano ed europeo (per quel che riguarda l’opera naturalmente): un’uscita di scena beffarda e ambigua, velata di malinconia e disincanto, ma sempre lucida e ironica. Falstaff è però anche un’apertura a forme musicali nuove, ad un linguaggio moderno e originale che unisce la lunga tradizione italiana, il recitar cantando e il grande sinfonismo europeo. Una strada che in pochi, tuttavia, scelsero di seguire: forse solo Puccini ne colse propriamente le possibilità, non certo i seguaci della “giovane scuola” che, sotto una pesante verniciatura di wagnerismo all’acqua di rose, non fecero altro che rimasticare le vecchie formule senza riuscire a comprenderne la tenuta ormai obsoleta. Non riusciranno a superarle, ma le affonderanno in effetti senza causa, tra roboanti strilli tenorili e decadenti svenevolezze di viziate primedonne. Falstaff rifugge una tale retorica seriosità, e nel disincanto (agrodolce) per cui, in fondo, “tutto nel mondo è burla”, riesce a sorridere di sé e della vita, senza nulla prendere sul serio, senza nulla a cui rendere conto…neppure alle magnifiche sorti e progressive della musica dell’avvenire.

Gli Ascolti:

Giuseppe Verdi: Falstaff

John Falstaff: Mariano Stabile

Ford: Paolo Silveri

Fenton: Cesare Valletti

Dr. Cajus: Mariano Caruso

Bardolfo: Giuseppe Nessi

Pistola: Silvio Maionica

Mrs. Alice Ford: Renata Tebaldi

Nannetta: Alda Noni

Mrs. Quickly: Cloe Elmo

Mrs. Meg Page: Anna Maria Canali

Orchestra e coro del Teatro alla Scala di Milano

Victor de Sabata

Atto I

Atto I – parte I

Atto I – parte II

Atto II

Atto II – parte I

Atto II – parte II

Atto III

Atto III – parte I

Atto III – scena II

 

4 pensieri su “Verdi Edission: Falstaff

  1. Sono assolutamente d’accordo con Duprez sullo iato che distingue “Falstaff” da tutto il resto della produzione verdiana. Io l’ho sempre visto, fatta salva la qualità stellare della musica, come una meditazione ultima sul genere “opera”, una meditazione lontana e che tuttavia guarda con immenso affetto e partecipazione a tutti i tipi attraverso i quali questo genere si è sviluppato e, sembra dire Verdi, concluso. Meditazione sui tipi, ho detto; ma non soltanto questo. Ché, anzi, Verdi riesce ancora una volta a creare personaggi unici nella loro individualità, dal momento che risultano dotati di di straordinarie concretezza e presenza. In ciò l’opera verdiana mi ricorda Richard Strauss. “Arianna a Nasso” in primo luogo, opera sui tipi della commedia e al tempo stesso creazione di straordinarie figure umane, troppo umane, screziate di tutti i momenti dell’amore, dai più solenni e passionali ai più leggeri. Ma soprattutto l’opera ultima, il meraviglioso “Capriccio”, andato in scena a Monaco in tempi cupissimi, il 28 0ttobre 1942. Anche questa è un testamento, una meditazione sull’opera da parte di chi, al pari di Verdi, è uno dei più grandi operisti di tutti i tempi. Ma questa meditazione è capace ancora di creare, nel personaggio della Contessa, una delle più affascinanti figure femminili dell’intera storia del genere. Ascoltando il suo monologo finale, non si può che rimanere violentemente colpiti dalla luce intensissima e trasparente di un simile tramonto,
    Marco Ninci

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