Riflettere e confrontare, seconda puntata: Malcom Groeme

Dopo la puntata inaugurale delle nostre riflessioni sulla Donna del lago, puntata dedicata al personaggio del sovrano, è il momento di parlare dell’amoroso, il prode Malcom che, unico fra i numerosi e pugnaci ammiratori della protagonista, ne possiede il cuore. Il carattere tutto sommato ornamentale del personaggio (in un’opera peraltro non certo densa di passaggi drammatici in senso stretto: l’azione propriamente detta è concentrata nel secondo atto, il primo essendo una sorta di prologo e una presentazione dell’ambiente scozzese e dei personaggi che lo popolano) e l’impiego di una voce femminile en travesti possono spiegare l’imbarazzo con cui alcuni registi, evidentemente digiuni di musica e forse più ancora di cultura classica, trattano questa figura, ridotta nei casi più infelici a una proiezione mentale ovvero sostituto materno ovvero doppio simbolico di Elena, e via psicanalizzando. In effetti il compositore mette in scena, col giovane guerriero del clan, l’eroe melodrammatico puro, erede dei personaggi prediletti dai castrati nonché omaggio all’arte di una delle più illustri primedonne rossiniane, Benedetta Rosmunda Pisaroni, già destinataria, sei mesi prima del debutto della Donna, dell’Andromaca di Ermione, e che sempre al San Carlo ebbe modo di prodursi in numerose parti del repertorio del Pesarese (magari anche consistentemente ripensate e convenientemente adattate, ad esempio Amaltea nel Mosè in Egitto).
Al musico, secondo la terminologia classica, vengono riservate nell’opera due grandi arie (la seconda delle quali con coro), un duettino con la protagonista e una sostanziosa presenza nel primo finale. Parte quindi non amplissima, eppure densa di occasioni preziose per la primadonna rossiniana, chiamata a esprimere la tenerezza dell’innamorato e insieme la fierezza del guerriero, sia pure risolta in chiave di giovanile baldanza. La parte è di scrittura piuttosto grave, toccando a più riprese le note sotto il rigo (ad es. nell’attacco mi3-si2 del “Vivere io non potrò”): il limite estremo in questo senso è il sol diesis2 (“tutto detesto” nella cabaletta dell’entrata), mentre in acuto non si oltrepassa un sol4, che compare in cadenza all’attacco “Ah si pera” della seconda aria (un fa diesis4 compare per due volte, ancora in vocalizzo, alle parole “più non brilla” e “più non sfavilla” nella cabaletta d’entrata). Appare verosimile che la Pisaroni, vero contralto dai trascorsi sopranili (e Rossini sembra ricordarcelo quando, al duettino e nel largo del finale primo, fa cantare Malcom una terza giusta sotto Elena), non avesse problemi a “puntare” autonomamente la parte, aggiungendo, là dove risultassero giuste ed opportune nonché propizie alla sua voce, incursioni all’acuto e più in generale trasporti verso le zone più alte del pentagramma, trasporti che ad esempio nelle ripetizioni e nei da capo sono ben documentati dalle cronache dell’epoca, anche al di là del titolo in questione.

Tutto questo per dire che la riscrittura, intesa come mezzo per stimolare ed esaltare l’interprete e non come semplice espediente per “tutelare” un’esecuzione insicura o imprecisa (più onesto sarebbe, in simili casi, parlare di semplificazione e rappezzo), è pratica più che legittima e in certa misura quasi obbligatoria, come ricorda, nell’aria di entrata e più ancora nel finale primo, generosamente fiorito, Marilyn Horne, che pur non possedendo la voce sontuosa di altre colleghe ha una musicalità e un istinto teatrale formidabili. Si ascolti, per tutti, il recitativo “Mura felici”, con dovizia di messe di voce e la scelta di un colore vocale che suggerisce, fin dalle prime note, l’estasi e quasi lo sgomento del personaggio, in maniera non dissimile da quanto avviene, per la stessa interprete, nell’entrata di Arsace ovvero in quella di Tancredi. E non si tratta di scarsa fantasia, perché le tre arie, pur nella diversità del trattamento musicale, propongono lo stesso momento scenico, ossia il ritorno del giovane guerriero, al tempo stesso impaziente e timoroso al pensiero di rivedere la donna amata. Quanto alle variazioni della Horne, che qualche autorevole critico non manca di giudicare baraccone e pacchiane, sono povera cosa di fronte alla cadenza davvero monumentale proposta da Zara Dolukhanova, che esegue la cabaletta “O quante lagrime” nell’ambito di un’incisione integrale di Cenerentola, in luogo della prevista aria di Alidoro. La cantante russa appare, in questo, memore di un famoso capriccio (i critici di cui sopra lo definirebbero piuttosto un arbitrio) d’interprete posto in essere da Giuditta Pasta, che nei panni di Desdemona eseguiva quale numero di presentazione, in luogo del duettino con Emilia, l’intera scena di Malcom, opportunamente rivista nella tonalità. Più ancora che per la cadenza, strutturata come quella di un Allegro di concerto solistico, con tanto di ricapitolazione dei temi principali e degli incisi ricorrenti, l’esecuzione della Dolukhanova si distingue per la qualità dell’emissione vocale e per la facilità e la dolcezza con cui è sgranata la coloratura, il che conferisce al brano un carattere forse un poco più sognante di quanto non sarebbe opportuno, ma l’esecuzione risulta davvero irresistibile, soprattutto se si considera il carattere assolutamente pionieristico della registrazione. Peraltro tutt’altro che unica nel suo genere, come ricorda, alle prese con tutt’altro autore, una delle più eminenti wagneriane di sempre.

La stessa vocalizzazione fluida, omogenea in tutta la gamma, animata però da una più struggente malinconia nel cantabile e da accenti più vigorosi ma in nessun caso gutturali e striduli nella vocalizzazione di forza, si ritrova nel Malcom di Martine Dupuy, una delle creazioni più riuscite della cantante francese, anche in considerazione di una voce non certo di autentico contralto, ma che ricorda, in primo luogo sotto il profilo timbrico, piuttosto quella di un soprano lirico. Anche qui illuminante appare il confronto con la natura assai più generosa, ma tecnicamente assai meno rifinita, di Lucia Valentini Terrani, la cui voce risulta ovattata ad es. nei do3 di “dolce speme” e “mio tesoro” e morchiosa nelle sestine vocalizzate in prima ottava, per poi suonare in affanno e corta di fiato nella successiva cabaletta, manifestandosi nell’arpeggio fa3-la3-do4-fa4 “del mio più barbaro” il proverbiale “scalino”, mentre la Dupuy sale con facilità quasi oltraggiosa al do5 alla chiusa della cabaletta.

Quella di Malcom, come tutte le prime parti del Pesarese, ha la caratteristica di mettere impietosamente in evidenza non tanto i difetti timbrici degli esecutori (se così fosse la Rossini Renaissance non avrebbe semplicemente avuto luogo, visto che i suoi protagonisti più rilevanti venivano e tuttora vengono tacciati, e non senza fondamento, di avere voci da comprimari o da coristi), bensì i loro limiti vocali, che sono poi, ovvio e scontato ribadirlo, limiti derivati da insufficiente o incompleta applicazione di principi tecnici. Quando, alla ricerca di un sostegno nella zona medio grave della voce, si scelga di enfatizzare i gravi pompandoli esasperatamente, in una maldestra imitazione del canto di Fedora Barbieri ultima maniera; quando per conseguenza le note centrali risultino prive di smalto e il passaggio ai primi acuti (sentire ad es. il do diesis4 de “il povero mio cor” al recitativo d’entrata) produca suoni striduli e spoggiati, mentre più in alto (la puntatura al la4 sempre nel recitativo iniziale alla parola “martoro”) anche l’intonazione risulta a dir poco vacillante; quando la coloratura venga ridotta a una poltiglia di suoni disomogenei, affastellati con una libertà ritmica che fa pensare, più che alla sprezzatura definita dai trattati, a un’abborracciata lettura a prima vista, ebbene, in questi casi appare difficile parlare ancora di canto, e più ancora di canto rossiniano. È un processo che solo una severa autocritica, un pronto ripensamento e un rinnovato studio possono arrestare. In difetto, il trascorrere del tempo, più o meno clemente anche in ragione della natura vocale dell’esecutore, può solo ed esclusivamente enfatizzare questi difetti, che non sono, come vorrebbero alcuni sostenitori a oltranza, trascurabili imperfezioni, ma sicure premesse di un’interpretazione monocorde e priva di autentica sostanza. Insomma, chi si sognerebbe di dipingere un affresco utilizzando una matita spuntata?

 

Gli ascolti

Rossini – La donna del lago

Atto I

Mura felici…Elena! O tu ch’io chiamo –  Martine Dupuy (1992), Ewa Podles (1994, 2006), Daniela Barcellona (2001, 2011)

O quante lagrime – Zara Dolukhanova (1951)

E nel fatal contrasto…Vivere io non potrò – Martine Dupuy & Lella Cuberli (1986)

La mia spada, e la più fida – Marilyn Horne (con Frederica von Stade & Dano Raffanti – 1981)

Atto II

Ah si pera…Fato crudele e rio – Lucia Valentini Terrani (1986), Martine Dupuy ( 1990 )

Arditi

Leggiero invisibile (Bolero) – Ernestine Schumann-Heink (1907)

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22 pensieri su “Riflettere e confrontare, seconda puntata: Malcom Groeme

  1. Pezzo interessante e ricco di spunti per discutere. Personalmente preferisco la Horne nei ruoli da mezzosoprano buffo, come Isabella o Rosina, mentre dei ruoli en travesti credo che nessuno come Martine Dupuy abbia saputo cogliere la cifra stilistica e realizzare il carattere del personaggio (pur con quella voce velata che ben poco aveva del contralto/mezzosoprano… queste sono parti pensate per voci molto versate nel registro grave, e dotate del calibro di una Stignani, tanto per intenderci…). Diverso il discorso per quanto riguarda la Podles, additata su qualche simpatico forum come esempio di un superato canto vecchia maniera (forse la Signora per costoro non è abbastanza ingolata? caspita, più di così!), e che invece presenta un’organizzazione vocale gravemente disomogenea e tutta ingorgata nel centro… il che per me è insopportabile. Oltretutto se quella è un contralto io, Giambattista Mancini, sono un campione riproduttore. Sulla Barcellona no comment.

    Ma, bando alle ciance, penso che se vogliamo farci un’idea di quale sia l’autentica vocalità di questi personaggi, occorra risalire ai dischi di Guerrina Fabbri, credo l’ultima superstite italiana a cavaliere tra Ottocento e Novecento della corda di mezzosoprano/contralto dopo l’era dell’Alboni, uno degli ultimi Arsace (ruolo cantato al Met a fianco della Patti), celebre Cenerentola, Isabella e Rosina (in chiave originale).
    http://www.youtube.com/watch?v=qT8zTE7d57k

    Restando tra le cantanti di tradizione italiana, ci sarebbe anche la deliziosa Eugenia Mantelli, ma era adatta a parti più acute, come Cenerentola.

  2. Ho ricaricato le arie di Malcolm di Martine Dupuy: non potevamo alla iattura della pessima registrazione Philips aggiungere anche un altro pessimo servizio da parte nostra . Mura felici è quello della sera della prima.

  3. il fatto che guerrina fabbri ben presto cantò quckly e madame dell’haltiere nella prima italiana di cendrillon di massenet la dice lunga della sua qualità tecnica. la voce più che un registro di petto aperto e forzato colpisce in negativo per il cosiddetto buco o scalino, che fra l’altro si attenua se canta da mezzo (rosina è però abbassata di mezzo tono credo sia in mi bem anzichè in mi). quanto alla prima rosina mezzo dissento la tradizione si attenuò dinanzi alle rosine soprano leggero (in origine erano solo rosine soprano ovevro voci che non scendevano al la o al solsotto il rigo vedi pasta, sontag etc), ma non sparì mai. Dopo la Marchisio e siano al 1876 vi furono la Scalchi, la Biancolini, la Mantelli sino a Fanny Anitua, rosina a parma nel 1916 per il centenario e ecredo anche gabriella besanzoni. Aggiungo che come esempio di arte del canto (e lo abbiamo proposto) metto la cavatina di ebe stignani. Anzi e mi riservo di trattare l’argomento le tre cavatina di rosina più interessanti vocalmente appartengono a tre canti stignani, sutherland e steber, che non cantarono mai rosina in scena!

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