Firenze: Viaggio a Lourdes

Premessa 1: è sempre splendido ascoltare le dirette operistiche di Radio 3: una grande emozione! Soprattutto per i contenuti inflitti dai soliti, ineffabili speaker, con la complicità del direttore d’orchestra in talune occasioni: quanta meraviglia suscita in me ascoltare blablaologi affannarsi uno sull’altro pur di giurare e spergiurare che se la men che sublime compagnia di canto ha qualche deficienza non è affatto colpa dell’imperizia tecnica o di un palese caso di errore di cast, fattori che inficiano (ma di poco, giusto qualche piccolo neo, non di più) la bontà della rappresentazione: il colpevole di tali nefandezze, di tali difficoltà insostenibili per la voce e l’equilibrio psicofisico del cantante, è senza dubbio  quel perfido, infingardo, esecrabile terrorista che si cela dietro il mestiere di “compositore” ! Ah malnato!
Come definire poi le perle lasciate rotolare onde svalutare l’opera in questione?
“Il Viaggio a Reims? Una cosetta da poco. Un’ operina senza drammaturgia, forse inutilmente complicata, colpa di Rossini certo, per giovinastri da scaraventare al saggio di fine anno!”.
Povero Gioacchino.
E si che per questa “sciocchezzuola” fece scomodare la crema canora dei suoi bei di onde impressionare con la loro bravura le maestranze, Re e pubblico e quindi garantirsi i finanziamenti per il “suo” teatro.
E fu sempre quel mariuolo che ne impedì, nonostante l’unanime successo, la circolazione, conscio dell’impresa pazzesca di riunire un cast di 17 cantanti, dieci dei quali impegnati in parti protagonistiche di difficoltà folle: altro che saggio di fine anno per giovinastri “promettenti” da mandare allo sbaraglio, miei cari!
E non dimentichiamo il rimprovero al pubblico:”Prima delle nostre dirette non si devono MAI ascoltare edizioni precedenti o magari, ORRORE, storiche! Anzi se non si conosce l’opera è ancora meglio, anzi auspicabile. Potrebbe iniziare il tremendo gioco dei confronti e la serata potrebbe uscirne con le ossa rotte! Non sia mai!” E’ tutto bellissimo, Madama la Marchesa!

Premessa 2: trovo estremamente avvilente che gli artisti dell’opera in questione utilizzino i social network per elemosinare, perché di questo si tratta, la presenza del pubblico, chiamato addirittura a gruppi, onde assicurarsi un teatro per lo meno mezzo pieno ed evitare così sconvenienti vuoti in sala. Trovo demagogiche anche certe furberie come “sconti per gli amici di Facebook” infarcite di “se volete bene al Teatro…” con quel che segue. Patetico.

Premessa 3: in questo “Viaggio a Reims” fiorentino, ad esclusione di Marianna  Pizzolato e di Michele Pertusi, si è fatta attenzione a riunire un cast di voci tutte, dico tutte, microscopiche, senza corpo, anemiche e amebiche. Non che Rossini abbia bisogno dei cannoni della Bastiglia, ma di ampiezza, proiezione, duttilità, fuoriclasse autentici SI!

Prendiamo Eva Mei (Madama Cortese): il giudizio su di lei dovrebbe essere sospeso in quanto non pervenuta. La sua voce allo stato attuale è inudibile. Davvero, non si sente! Qualche acutino-ino-ino chiaro, chiaro, come in filigrana, qualche frase della prima aria e poi? Il sillabato diventa un pezzo per orchestra e coro che ripete “Bene!”, le frasi negli interventi successivi sono evanescenti. Se la voce non c’è, non c’è, non me la posso inventare!
Spaventosa Leah Partridge (Folleville, ruolo Cinti-Damoreau) preclaro esempio di scelta inspiegabile considerati la coloratura ingarbugliata e impastata oltre che durissima, il timbro senescente di chi ha superato i quarant’anni di carriera, e la voce ingolfata gutturale poggiata sul niente, poiché il fiato è bloccato in una apnea da guinness.
Bruno Praticò (Trombonok) vocifera anche grevemente, perché la voce di una volta non c’è più, fa il gigione, dilaga e diverte.
Sovrapponibili, educati, belanti e linfatici Yijie Shi (Belfiore, ruolo Donzelli) e Lawrence Brownlee (Libenskof): il secondo però è completamente anonimo, fraseggiando tutto con asettica monotonia, emettendo acuti e superando il passaggio grazie a continui “demi-plié”, grazie ai quali ottiene la “spinta”. Contento lui. Il primo ha qualche sfumatura in più, tanta buona volontà, ed un po’ di sana verve che lo rendono spigliato e gradevole.
L’eroico buffo Marco Camastra (Don Profondo), il quale ha sostituito in tutte le recite l’indisposto Bruno de Simone, ed il baritono chiaro Vincenzo Taormina (Don Alvaro, nelle intenzioni basso) hanno voci poco timbrate, ma in compenso molto, molto dure e secche, eppure ricche di buone intenzioni nel fraseggio.
Musicalissima Auxiliadora Toledano (Corinna) impegnata con la sua voce più chiara di quella della  Gasdia e della MacNair, ma anche della Ratti, siamo in zona Sumi Jo, in un ruolo Pasta (sarebbe stato meglio impegnarla come Folleville al limite): corretta ed elegante al centro ed in alto, dotata di coloratura perfettibile, ma la parte la sovrasta troppo anche con le variazioni votate all’acuto. Alla Toledano assieme ai due tenori, a Camastra ed a Taormina consiglierei di specializzarsi in parti da mezzo carattere invece che rossiniane mature, verdiane o donizettiane anche spinte. E’ un semplice e disinteressato invito, che ognuno può cogliere come crede.
Distanziati dagli altri di intere spanne, si coprono di gloria Michele Pertusi (Sidney) e Marianna Pizzolato (Melibea): quando entra in scena Pertusi sembra di ascoltare Wotan in mezzo alle fanciulle fiore, tanto la voce risulta ampia e ben proiettata; il timbro è scuro e piacevole come sempre anche se nella grande aria qualche durezza fa capolino nella scansione del legato, ma nulla di disturbante, poiché il controllo dei propri mezzi e dell’intonazione è ancora buono e saldo. Il fraseggio dipinge un Lord solitario eppure romantico, timido e orgoglioso, ma sicuramente elegante senza scendere a patti col buon gusto. Bella scoperta, per me, la Pizzolato: nonostante il timbro da soprano non sfogato, più che da mezzo o contralto, possiede un buonissimo controllo della proiezione e del fiato, dote che le permette di rendere morbidi, sonori e omogenei i registri centrale e grave; buona anche la coloratura resa ancora più spigliata e frizzante dalla fantasia del fraseggio, primo di cadute di gusto e stile, ma votato ad una malizia scanzonata quasi come il gustoso rosso folletto che interpreta scenicamente. Attenzione solo al registro acuto che purtroppo non gira come dovrebbe risultando duro e metallico, ma che può essere migliorato ponendo attenzione a rendere più fluido il passaggio superiore.
Discreti tutti gli altri interpreti, anche se dotati di intonazione non esattamente irreprensibile che a volte fa soffrire.

Daniele Rustioni sul podio ha il pregio, non da poco visti i disastri degli ultimi due anni, di far suonare l’orchestra, alla mia recita,  FINALMENTE con un suono omogeneo, preciso, puntualissimo, grazie anche ad una agogica rilassata, anche troppo a volte, che fa sicuramente esaltare, con profitto, certe bellurie in partitura, come il sestetto, i duetti Corinna-Belfiore, Melibea-Libenskof, le arie di Corinna, l’aria di Sidney, il concertato a quattordici voci; ma irrigidisce il fraseggio orchestrale, vuoi per aiutare una compagnia tutt’altro che ideale e con non poche difficoltà, rendendolo non poco gelido, privo di leggerezza e levità fino a mutare una spumeggiante festa canora come il”Viaggio” in un dramma giocoso semiserio. C’è da dire che i fiati, soprattutto i flauti, gli archi, e l’arpa avevano suonato così bene e con un suono così curato solo ad un recente e bellissimo concerto di Wayne Marshall dedicato alla musica del ‘900: mi auguro che l’orchestra e i direttori che si susseguiranno possano continuare su questa strada.

Marco Gardini punta su una scena proteiforme e architettonica, probabilmente una beauty farm anni ’40 del ‘900, sui colori sgargianti, su controscene pertinenti, su gags tutto sommato riuscite. Certo il tutto fa un po’ a botte con i chiari e continui riferimenti alla monarchia francese del libretto, oppure l’incongruo ammiccare alla attuale situazione economica che il regista usa per una ma vivace scena tra giocolieri; se ci si lascia andare alle trovate sceniche anche simpatiche, alla recitazione attenta, al gioco delle luci, ma anche acquatici, il divertimento è a portata di mano.

Il pubblico, che ha in pratica disertato le recite di questo “Viaggio”, ha al termine applaudito con sincera convinzione.

Marianne Brandt

 

Il Viaggio a Reims nacque come opera “monstre”, nelle dimensioni e nel numero delle prime parti, destinata alla crema del Teatro degli Italiani, che dal nuovo sovrano attendeva giusta mercede del proprio valore. L’inno all’incoronato Borbone era insomma anche un inno all’equivalente del moderno Fondo unico per lo spettacolo. Istituzione che sarebbe più onesto e lungimirante abolire, ove non serva che a foraggiare le illuminate menti che hanno trasformato il Viaggio, complice la damnatio memoriae della Rossini Renaissance e il nuovo vento che spira dalle coste adriatiche, in un testo da saggio accademico, cui l’opera si presterebbe per l’elevato numero di parti da coprire e il sostanziale equilibrio fra le stesse. Purtroppo una simile prospettiva sembra non tenere in alcun conto le caratteristiche e l’onerosità delle parti in questione. La risposta più eloquente a questo “new deal” l’ha fornita, in questo spettacolo fiorentino, il pubblico stesso, disertando le recite e spingendo alcuni solisti a promuovere, tramite i soliti canali virtuali, vere e proprie svendite dei troppi posti ancora disponibili a poche ore dalle rappresentazioni. Ci auguriamo che tutto ciò sia avvenuto all’insaputa del teatro, che avrebbe avuto ogni diritto di opporsi a simili comportamenti, squalificanti per chi vi ricorra e umilianti per un’istituzione con la storia e la tradizione del Maggio. Comportamenti, oltretutto, non proprio efficaci: alla prima recita del secondo cast (sabato 21) la platea presentava numerosi posti vuoti, la prima galleria era piena a metà e la seconda non veniva neppure aperta.

Il ben poco folto pubblico, composto in parte di scolaresche, ha tributato un successo tiepido, malgrado l’impegno di isolati plaudenti, che si distinguevano per l’imparzialità degli interventi al termine dei numeri chiusi e per lo scarso riscontro ottenuto ad esempio durante la sfilata dei brindisi, che sono stati applauditi esclusivamente dai presenti sulla scena.

In buca Daniele Rustioni ha proposto una lettura meccanica, non sempre precisa sotto il profilo ritmico e della coesione fra orchestra e palcoscenico (specie nell’introduzione dell’opera e nell’aria di Lord Sidney), incapace di differenziare i momenti di comico puro da quelli in cui l’autore rifà il verso al melodramma serio, come avviene ad esempio nella grande aria della Contessa e nel sestetto. Pur con le suddette carenze, la prova del direttore è parsa meno deludente di quelle offerte in analogo repertorio da ben più celebrate giovani bacchette, anche perché la scelta di tempi generalmente stringati ha favorito non poco le voci, nessuna delle quali dotata di particolare attrattiva timbrica o straordinaria ricchezza di suono.

Perfettamente aderenti alla lettera e quindi allo spirito delle più recenti manifestazioni pesaresi le variazioni in sede di capo, che qui divenivano in gran parte semplificazioni, insistendo di preferenza all’ottava bassa. Insomma, più che variazioni, rappezzi e raggiusti anche poco meditati, perché le voci in questione non avevano certo nel registro grave le loro carte vincenti.

La regia di Marco Gandini, una raccolta di gag, non tutte di buon gusto (il pediluvio di Trombonok, Lord Sidney che sguazza in due dita d’acqua durante la grande aria, la valigia della Contessa buttata in acqua dagli inservienti), collocava l’azione in epoca vagamente moderna (i costumi da bagno stile Belle Epoque come nella produzione catalana di Sergi Belbel immortalata in dvd, il Giglio d’Oro versione”beauty farm” come nella produzione pesarese di Emilio Sagi, vista anche a Firenze qualche stagione fa, gli abiti, gli accessori e i bauli dei personaggi quale esplicito omaggio a Ronconi), alludendo a un presente di crisi, finanziaria (la sfilata dei musicisti, qui mutati in clown, nel finale), politica e psicologica. Il riferimento, pur sommariamente realizzato, appare calzante, perché il Viaggio descrive, con il tono blando della commedia, un mondo giunto a un punto di svolta, che vorrebbe tornare all’antica grandeur ma, per inettitudine o superficialità, si contenta di restaurare un ordine posticcio, imbevuto di autocompiacimento e illusioni di gloria.

Lo spirito del Rof aleggiava sovrano anche nella scelta della protagonista femminile, Ruth Rosique, vocina aspra e stonata (soprattutto nell’Improvviso finale), perfettamente rispondente al diktat adriatico che vede nella poetessa Corinna l’archetipo della soubrette da opera comica. Durante il duetto della suddetta con il gracchiante Belfiore di Enea Scala (passato nel giro di due stagioni dal contraltino Libenskof al più centrale, ma non meno impervio, cavaliere francese), chi scrive si è abbandonato a un esercizio di onanismo spirituale, immaginando un Viaggio a Reims 1912 con Giannina Russ e un debuttante Giovanni Martinelli. La filologia ne sarebbe forse risultata oltraggiata, ma non più di quanto sia avvenuto con la Madama Cortese (che la regia tramuta in una sorta di paraplegica immaginaria) di Donata d’Annunzio Lombardi, per la quale si evocherebbero invano i nomi di Eugenia Ratti e Alda Noni, bastando e avanzando quelli di Nina Artufo e Romana Righetti. Detta altrimenti, la signora troverebbe più onesta collocazione in un teatro di varietà, perché un simile massacro della scrittura rossiniana, a base di suoni fischianti e vetrosi, non trova l’eguale nella discografia ufficiale e ufficiosa, peraltro mai brillante con riferimento al personaggio in questione. Rozza nell’emissione, ingolata e quindi poco o punto sonora, approssimativa nella coloratura e in difetto di magniloquenza, Oana Andra quale Melibea, voce di timbro, peso specifico  e colore assolutamente identico alle summenzionate colleghe, in parte però di autentico contralto. Nel gruppo svettava facilmente Rocio Ignacio quale Contessa di Folleville, complice uno strumento naturalmente sonoro e acuti facili e piuttosto importanti. La voce è però tutt’altro che omogenea e la coloratura aleatoria e cempennata. Auguriamo alla signora di trovare il tempo e le opportunità per sviluppare al meglio le indubbie doti che possiede, anche perché con simili premesse la freschezza e il vigore vocale rischiano di risultare tutt’altro che eterni.

Scarsi motivi di soddisfazione anche dal resto della compagine maschile. Nel ruolo più arduo e di maggior soddisfazione, anche per la presenza di un’aria con strumento obbligato, Mirco Palazzi ha riproposto la vocina legnosa, in debito d’ossigeno con frequenti e antimusicali riprese di fiato, l’ornamentazione faticosa e opaca del recente Raimondo lagunare. Marco Camastra (Don Profondo), cui non fa difetto il brio, rientra nella categoria, ultimamente assai nutrita, dei dicitori (non molto fini), e lo stesso vale per Andrea Porta, che ritiene doveroso caratterizzare il proprio personaggio con un accento tedesco alla Sturmtruppen, mentre Domenico Balzani, dotato di uno strumento vocale di tutto rispetto, si compiaceva quale don Alvaro di acuti fibrosi alla maniera del peggior Leo Nucci. Michele Angelini, Libenskof la cui divisa faceva pensare a un compromesso fra un ussaro e un carabiniere, dopo un’esecuzione problematica del sestetto (nella cabaletta, in cui sembrava a tratti accennare, la scelta di sopprimere la scala che prepara il secondo acuto ha compromesso l’esecuzione dello stesso), si è in parte riscattato nel duetto, cantato con voce ben proiettata, facile soprattutto all’estremo acuto, mentre nelle note successive al passaggio si odono suoni un poco schiacciati. La capacità di accentare la coloratura, specie nei cantabili, è un hapax in questo disgraziatissimo cast.

Antonio Tamburini

25 pensieri su “Firenze: Viaggio a Lourdes

  1. Concordo con la premessa di Marianne. Se si vuole risparmiare, che Radiotre cominci a lasciare a casa quel manipolo di chierichetti i cui cinguettii bisogna sorbirsi a ogni diretta e si preoccupi piuttosto di migliorare l’ infima qualità del suono dei suoi programmi.
    Torniamo agli anni Settanta, quando le dirette dai teatri erano corredate dai semplici annunci di uno speaker che leggeva la locandina.

  2. Cit. “quando entra in scena Pertusi sembra di ascoltare Wotan in mezzo alle fanciulle fiore”: non sapevo ch Wotan, nel suo peregrinare, avesse fatto tappa anche presso il giardino incantato di Klingsor……… Sarà anche per questo che Fricka ha acconsentito alla costruzione del Walhalla onde trattenere il consorte ????? 😀

  3. ho assistito alla prima e sono sostanzialmente d’accordo con la Signora Brandt. Sarei un tantino più benevolo nei confronti del tenorino cinese, che nonostante lo strumento esile mi pareva sapesse usarlo con una certa maestria.

  4. Ho incrociato una o due volte il fioretto con voi, ma questa volta sono totalmente d’accordo (anche se sarei anch’io un po’ più benevolo con il cinesino, e molto più severo con la regia, caotica e inetta – ero alla prima). Scandaloso che un teatro serio metta in scena un’opera con più della metà del cast inadeguato. Con tutti i loro difetti, ho rimpianto la Ricciarelli e Araiza… ed è tutto dire!

    • e pensare che , spettatore della prima del viaggio a Pesaro, su almeno metà del cast approntato avevo da ridire. E credo ancora con ragione, ma ormai il viaggio è diventato come il saggio di fine anno delle allieve delle Marcelline!

      • Io adoro quel primo Viaggio pesarese (a cominciare dalla direzione)…

        Il fatto è che Il Viaggio a Reims è un’opera d’occasione, drammaticamente inesistente e musicalmente non tra le più ispirate di Rossini. Quindi, l’unico modo per rappresentarla decentemente, è l’eccellenza del canto. Rossini per questo l’ha concepita (tanto che non la volle mai replicare). Trasformarla in un saggio per debuttanti – cone fanno al ROF – è puro sadismo (per i debuttanti).

  5. Brava, Marianne, concordo su tutto. Aggiungo, poi (se non lo hai già scritto, purtroppo non ho avuto il tempo di leggere tutto l’articolo) che la scelta di dividere le due parti all’aria di Don Profondo e non al “famoso” (qui “allucinante”) concertato a 14 voci sia una vera profanazione, oltre che una scelta di pessimo gusto narrativo: infatti ad una persona che l’opera non la conosce viene da dire: “ebbene, questo ha fatto il catalogo dei tesori, e adesso?” (to be continued…), mentre il fatto che tutti andassero dalla Follville (non spendo parole per lei, non le merita), era perfetto per uno stacco decente, e la musica era adattissima al tipico “finale rossiniano”. io quest’opera avevo avuto il piacere di vederla alla Scala nel 2009, nella serata del terremoto, (la prima se non ricordo male) e devo dire che, pur con qualche pecca, il cast non mi era affatto dispiaciuto! ma questo, per carità!! questo spettacolo non era degno neanche di un teatro di provincia (nulla contro di essi)…tremendo.

  6. Bene. Letta recensione e ascoltata in differita la recita del 18 fortunatamente a quanto pare senza i commenti di chicchessia.
    Non conoscevo affatto l’Opera in questione.
    Ora devo dimenticarne l’esecuzione perchè mi è parsa, francamente, una porcheria. Solo che da neofita qualcosa di buono ho intuito che c’è. Quale edizione consigliereste per rimediare alla faccenda? Nel senso, proprio con la proverbiale faccia di “tolla”, dovessi ascoltare un Viaggio ben fatto dove andare a parare possibilmente su disco e in commercio in AD 2012? Grazie per i suggerimenti.
    PS: cara Marianne, forse ho capito che voce ha la Pizzolato. Complimenti per gli scritti, in genere li gradisco sempre molto.

    • Caro rello, ti do questo interessantissimo link (è l’opera completa, nella versione più famosa, quella di Abbado-Ronconi, uniti ad un cast stellare). Questa produzione fu realizzata per il ROF nel 1982 (mi pare), data della riscoperta dello spartito. Questa è una ripresa con un cast solo lievemente differente fatta a Vienna. Spero proprio che ti piaccia, fammi sapere!
      PARTE 1: http://www.youtube.com/watch?v=YNGWynosAII
      PARTE 2:http://www.youtube.com/watch?v=5xBQ3-VRPFk&feature=mfu_in_order&list=UL
      Ti do anche il cast
      Conductor Claudio Abbado
      Orchestra – Wiener Staatsoper
      Chorus – Wiener Staatsoper
      Corinna – Cecilia Gasdia
      Marchesa Melibea – Lucia Valentini-Terrani
      Contessa di Folleville – Lella Cuberli
      Madame Cortese – Montserrat Caballé
      Cavalier Belfiore – Frank Lopardo
      Conte di Libenskof – Chris Merritt
      Lord Sidney – Ferruccio Furlanetto
      Don Profondo – Ruggero Raimondi
      Baron di Trombonok – Enzo Dara
      Don Alvaro – Carlos Chausson
      ciao!!

        • Esemplifico volentieri: la Gasdia è agli antipodi della vocalità richiesta dalla parte (anzi, della vocalità rossiniana tout court, con quelle agilità pigolate e gli strilletti, poi diventati di prammatica per le Corinne a lei successive), la Valentini è ormai a fine corsa (non che nel 1984 fosse molto meglio), la Caballé non sa la parte (difatti ne inventa una metà buona, e non alludo solo alle parole), Lopardo e Furlanetto sono indecenti (il secondo poi è schiacciato dal confronto con il Ramey pesarese), gli altri non si coprono certo di gloria. Dovendo scegliere un’esecuzione, opterei per Pesaro ’84, pur con tutti i limiti della proposta (eh sì, il Rof ha sempre avuto un quid per gli spettacoli zoppi).

          • Caro Antonio, infatti io ho detto cast stellare; stellare, quindi dal punto di vista della reputazione, ma non ho mai detto che la Caballè ad esempio fosse adatta per quella parte (cosa ci azzecca poi la caballè a cantare Rossini solo il Buon Dio lo sa…)

          • P.P.S. non trovate anche voi che Lopardo sia totalmente ingolato in qualsiasi ruolo???

          • Grazie Antonio.
            Stefix, vero, il confronto non regge. Devo però dire che ora, dopo questi ascolti, l’Opera acquista nuovamente il suo ruolo. Non sarà magari uno dei capolavori di Rossini, ma è lontana anni luce dalla porcheria fiorentina. Purtroppo con esecuzioni ignobili qualsiasi pagina sembra uno scarabocchio. Grazie mille ancora per l’approfondimento (e ora via a cercarne una versione in disco o in video).

  7. Caro Rello, sono molto felice che ti sia piaciuta! Anche perchè questa è un’opera che mi sta molto a cuore, la trovo meravigliosa, e quindi non potevo di certo sopportare che quella porcheria fiorentina, come hai detto tu, diventasse il Tuo Viaggio. Secondo me non molto adatti sono la Caballè (scusa se sono ripetitivo, ma ancora non ho capito come si possa farle cantare Rossini), Lopardo (anche qui già detto, ingolatissimo come il suo solito), e Chris Merritt, che non riesce a moderare la sua voce in una via di mezzo tra il forte e il piano, e che nel pezzo a 14 voci non sta dietro all’orchestra e fatica nei virtuosismi. Per il resto, la Valentini Terrani mi piace, come sempre, perchè secondo me è l’esempio più perfetto di mezzocontralto rossiniano, Furlanetto sfigura davanti al grandissimo Ramey, ma di per se non è malaccio, Dara ha un bellissimo timbro, la Gasdia (consider.ando le ultime interpretazioni di Corinna) canta indubbiamente bene, Raimondi è un campione di simpatia e così riesce a coprire quelle pecche tecniche che commette in quest’opera, e infine la Cuberli, che a dispetto di molti, a me non è piaciuta per niente: è come una ferrari che va a 20 all’ora; potrebbe fare mooolto meglio, mi sono addirittura annoiato a sentirla nel “partir, oh ciel desio” : la tecnica e il timbro direi che ci sono, ma tutti quei meravigliosi virtuosismi che hanno fatto divenire Rossini il mio compositore preferito? Abbado buono, molto (ma mooolto) tradizionale, per una direzione direi riuscita.

Lascia un commento