Sorella Radio: Anna Bolena dal Met

Dopo pochi giorni dall’ascolto della Manon parigina Sorella Radio impone il “triste incarico” (per dirla con il Felice Romani di Anna Bolena, appunto) di recensire questa diretta da New York dove altra ed altrettanto famosa diva si dibatte, protagonista di Bolena, nelle difficoltà che l’arte di Giuditta Pasta ispirò a Gaetano Donizetti. Potrebbe questa piccola riflessione essere considerata un inutile esercizio di tiro alla croce rossa, per le condizioni naturali ed aggiuntesi nel tempo della protagonista, ma credo si possa anche intendere come riflessione sul sistema attualmente imperante nell’opera, che prescinde da Anna Netrebko o Natalie Dessay, dalle loro qualità, dai loro difetti e dalla loro attuali condizioni vocali, per  riversarsi su come le scelte siano sempre esclusivamente errate vuoi in rapporto ai titoli vuoi alle qualità dei cantanti. Ormai abbiamo tristemente appreso che se questi irrinunciabili  elementi difettano non vi si supplisce da parte di agenti, direttori di teatro e critica invitando i cantanti a studiare e ad applicarsi, o magari cercandone altri più capaci benché meno “spendibili” in tutti i sensi, ma investendo in pubblicità, in recensioni su carta stampata e via web, che sono comunicati degli uffici stampa dei teatri, coronati da frasi del tipo “i cantanti di un tempo non ci sono più” oppure “inutile fare paragoni con il passato” o suprema ipocrisia tautologica “dobbiamo vivere il presente”.

Bene viviamo questo presente. Dimentichiamoci delle prestazioni di Maria Callas, Leyla Gencer, Beverly Sills, Joan Sutherland, Renata Scotto e pure Maria Chiara, cantanti che non riuscirono a portare sul palcoscenico del Met la regina donizettiana. Prendiamo, però, in considerazione che l’arte di Giuditta Pasta era un’arte di canto, donde passi di coloratura piuttosto complessi come la sezione della sortita “Non v’ha sguardo”, melodie legate e “lunghe” come il famosissimo “Al dolce guidami” seguito dal “Cielo ai miei lunghi spasimi” o il propemptikon “Va’ infelice”, o il “O del tuo cor magnanino”, slanci disperati come il finale “Coppia iniqua”, la stretta del finale primo “Ah segnata è la mia sorte”, ma ancor di più lunghi recitativi accompagnati, confezionati sulle doti di attrice vocale della cantante lombarda, per tacere della capacità di dare senso a qualunque abbellimento come accade per i trilli che esprimono furore nella cabaletta finale, delirio nel cantabile precedente. Insomma un ruolo, cui non ultima si deve aggiungere la lunghezza, scritto per una fuoriclasse, ma di quelle autentiche.

Al pubblico che abbia ascoltato questo broadcast dal Met chiedo che ci sia di tanto mitico o anche solo di professionale in una cantante che  al di là del timbro gradevole sul mezzo forte ed in zona centrale, appare forzata e verista in basso (duetto con Percy, duetto con Jane Seymour), farfugliante nei passi declamati (scena di raccordo alla sortita), sistematicamente stonata in zona medio alta, scolastica nella poca coloratura eseguita (soppresso il da capo della sortita, in un’edizione che ripristina le code del terzetto Bolena – Enrico – Percy). Non c’è un attacco che non sia o in vizio di intonazione o viziato da portamenti, non c’è un suono basso che non suoni tubato e non ricordi l’origine russa della cantante, non c’è un filato che non si spezzi, non una melodia che non sia priva del richiesto legato. Il capolavoro in negativo di questa Anna è stato l'”Infelice e teco reca” e la sezione conclusiva del cantabile “Al dolce guidami” (dove il filato si è per l’appunto, come già nella donna Anna scaligera, spezzato).

Poi il pubblico – americano, ma non solo, a leggere certi fori nostrani – applaude entusiasta. Allora l’operazione di damnatio memoriae è riuscita, il “presentismo” ad ogni costo ha vinto. Poi che importa se questo esempio (ed altri, sia chiaro) sia tale per cui chi canta in tal modo si assicura un risicato quinquennio di carriera, che solo lo zelo di certi osanna mediatici può riuscire a prolungare, sia pur di poco.

Le caratteristiche vocali ed interpretative della Pasta  furono al debutto del titolo il contraltare di quelle di Giovan Battista Rubini, in campo tenorile il fenomeno vocale ed interpretativo che, sino a Caruso, connotò ed ispirò il canto maschile. Sentite Stephen Costello e concluderete che le cronache di allora sono mendaci, perché Percy può essere anche cantato (?) con una voce urlante dal fa acuto in su, strozzata nelle note che lo precedono, impacciata nel legato e nella coloratura. Mai sentiti acuti più dilettanteschi di quelli esibiti ( ed applauditi o, quanto meno, non riprovati) questa sera. Rossini parlava di capponi sgozzati. Esemplificati questa sera come accaduto nella sortita e più ancora nella cabaletta “Nel veder la tua costanza”.

I due reduci dei Contes d’Hoffmann milanesi Ekaterina Gubanova e Ildar Abdrazakov dei cantanti del passato anche recente hanno solo la capacità di cantare nel volgere di pochi giorni ruoli differenti in luoghi all’opposto del globo. Ma una Seymour sgangherata in zona acuta, imprecisa nelle colorature ( duetto con Enrico VIII), che taglia e scorcia il rondò, anch’essa incapace di legare e sostenere il suono in ogni zona, di gusto ed emissione verista (e per giunta priva della generosità delle autentiche dive del verismo) è una scelta sbagliata. E ciò anche se è il rimpiazzo della prevista Garanca (autentica desaparecida del firmamento canoro). Quanto al sovrano, il centro bitumato alla slava determina problemi d’intonazione in zona medio-acuta (duetto con Seymour, terzetto del secondo atto). E tacciamo della cavata, ormai più adatta ai ruoli da buffo che non a quelli da basso cantante.

La più fresca del “mazzo” è Tamara Mumford quale Smeton. Fresca non vuol dire automaticamente adeguata alla parte, che pur di modesta entità se raffrontata con le altre, prevede ben due assoli. La cavatina nella scena introduttiva è risolta più o meno senza incidenti degni di nota, ma la scelta di gonfiare i suoni al centro, alla ricerca di uno spessore mezzosopranile che appare estraneo a questa voce da soprano leggero, determina nella seconda arietta sistematiche stonature, soprattutto blandi passi di scrittura blandamente fiorita.

Sul podio Marco Armiliato contiene i danni, optando per tempi generalmente spediti, impantanandosi però ad esempio nel concertato della caccia e nel duetto Anna-Percy, semplicemente letargici e vieppiù funesti per i cantanti, che non hanno l’ampiezza né la tecnica per reggere simili indicazioni agogiche. C’è poi una lodevole ricerca di un suono cupo, da vera tragedia, soprattutto nelle scene corali, intento smentito da pagine come l’ouverture e il duetto Enrico-Seymour, che eseguite così, con un’orchestra imprecisa e poco rifinita, genericamente brillante e prodiga di clangori bandistici, rimandano piuttosto al mondo dell’opera comica. Non aiutano in questo senso i cantanti, che ad esempio nel confronto fra il Re e la sua nuova bella inducono a ritenere la pagina un possibile duetto alternativo per Bartolo e Rosina, da includersi nel Barbiere rossiniano.

E siccome il cast assemblato per l’occasione da uno dei massimi teatri mondiali era per più della sua metà composto di cantanti russi, chiudiamo la nostra piccola riflessione provando a immaginare una Bolena, da allestirsi ai primi del Novecento nel teatro di corte dello zar:

Anna Bolena – Natalia Ermolenko-Yuzhina / Antonina Nezhdanova
Enrico VIII – Lev Sibiriakov
Giovanna Seymour – Medea Mei-Figner
Percy – Dmitri Smirnov / Leonid Sobinov / Nikolai Figner

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18 pensieri su “Sorella Radio: Anna Bolena dal Met

  1. ho a registrazione dell’ Anna Bolena cantata della Netrebko a Vienna, per non è ne migliorata e,nemmeno peggiorata,di tutta l’opera la parte migliore della Netrebko è il finale.
    qui ripeto quello che detto dopo Vienna la vocalità della signora non è adatta a questo ruolo,poi se nel pubblico prevale il carisma per questa cantante bisogna prenderne atto,quindi l’accetta cosi com’è.

  2. Una pagliacciata vocale, ecco l’ unico termine adatto a una rappresentazione simile.
    Difendere la Netrebko dopo una simile dimostrazione di totale impreparazione professionale significa essere sordi o non voler ascoltare, che è ancora peggio.
    E quanto al carisma, riguardatevi il video del finale. Se togliete l’ audio sembra che stia sbraitando “Stride la vampa”, dalle facce che fa.
    In quanto agli altri, non meritano nemmeno che se ne parli.

  3. Dispiace per la fine che ha fatto la Garanca. Un timbro molto piacevole, una presenza stupenda, sprecati per via di una pessima tecnica, al punto che la sua autentica natura vocale non è mai emersa per davvero.
    La peggior respirazione che io abbia mai sentito.
    Temo che la rivedremo con il contagocce.

  4. il canto delle Netrebko mi sembra davvero distante dalle
    esigenze della scrittura del compositore e quanto a stile a
    parer mio comunica solo senso estraneità .
    Ora cerco in rete se Marcella Pobbe ha cantato qualcosa del Maestro;
    Credo che avrebbe saputo fare di meglio.

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