Die Frau ohne Schatten: per la quarta volta alla Scala

Die Frau ohne Schatten, “la figlia del dolore, terminata durante la guerra in un’atmosfera di tristezza e preuccupazione” (come scrive il suo stesso autore), torna alla Scala per la quarta volta nei suoi quasi 100 anni di età. Ma mentre nel 1940 il battesimo milanese dell’opera venne officiato dall’amico Marinuzzi che poteva vantare un rapporto privilegiato e confidenziale con Strauss e nelle due successive apparizioni la scelta cadde prima (1986) sulle solide certezze del kappelmeister Sawallisch, poi (1999) sul grande Sinopoli (che però ebbe sempre un rapporto problematico con la Scala), la quarta è stata condizionata dal “pasticciaccio brutto” del cambio di direttore a poche settimane dal debutto. E in un’opera come la Frau non è un problema da poco. All’improvvisamente indisposto Bychkov (direttore piuttosto discontinuo, ma che con Strauss pare abbia trovato una particolare empatia) è succeduto Marc Albrecht, solido professionista germanico (figlio d’arte) che, se pure non promette voli, garantisce sicurezza e ordine. E così è stato, in un’esecuzione che certamente non passerà alla storia (anche se il trionfo parossistico della prima avrebbe potuto far intendere – allo spettatore meno smaliziato – esattamente il contrario), ma che nella sua aurea mediocritas, si segnala come uno dei migliori spettacoli della recente offerta scaligera. L’esecuzione musicale, dunque, è stata corretta: certo il suono dell’orchestra non è particolarmente bello, talvolta i fiati “svirgolano” per fatti loro e non è certo il caso di cercare i mille colori e le mille sfumature presenti nella raffinatissima scrittura straussiana (i due mondi – spirituale e terreno – contrapposti anche acusticamente dall’uso sapiente di strumenti diversi: i primi evocativi di una purezza astratta, i secondi con un impasto più materico e concreto, erano, di fatto, ridotti, ad un’unica “poltiglia”). Ma non si sono ascoltati né gli scollamenti fastidiosi della recente Aida di Wellber, né la pesantezza del fu “maestro scaligero”. Albrecht non è certo Sinopoli o Marinuzzi (e non è neppure Sawallisch), ma non lo è nemmeno Bychkov: onestamente non si poteva pretendere di più con un’orchestra che sarebbe da reinventare. Purtroppo la mano del direttore è piuttosto pesante con le forbici: i tagli, abbastanza numerosi, sono distribuiti in tutti e tre gli atti, ma si concentrano nel secondo e nel terzo, riguardando, soprattutto, la parte della Nutrice (che oltre ad essere praticamente dimezzata – nel III atto è quasi del tutto assente – vede espunti i passaggi più “rischiosi”), e in misura minore Imperatrice e Imperatore. A conti fatti circa 20 minuti di musica vengono sacrificati, andando ben oltre quei tagli che – ci dice Böhm (di cui non mi fido troppo) – sarebbero stati autorizzati dallo stesso Strauss in vista dell’esecuzione di Dresda. Scelta comunque assai deprecabile, ma tant’è… Il cast è chiamato ad affrontare ruoli di particolare difficoltà: dalla scrittura wagneriana dell’Imperatore (solida, robusta, ma sfogata in acuto e costretta a bucare un’orchestra altrettanto corposa) alle scalate verso l’alto dell’Imperatrice e della Tintora (soprani drammatici acuti, la prima aggravata da cristalline agilità, la seconda da un declamato martellante), dalla morbidezza sfumata e pastosa di Barak (dal fraseggio vario ed espressivo) alla potenza maligna della Nutrice (dalla scrittura centrale, ma insinuante in un canto declamato rotto e isterico). Di questi gli unici in grado di dare una risposta plausibile agli innegabili problemi interpretativi, sono stati Johan Botha e Michaela Schuster anche se il primo è parso molto affaticato all’atto III (nei due precedenti l’acuto era più solido e facile e la linea di canto più sicura) e la seconda – pure “graziata” dalle discutibili scelte editoriali di Albrecht – malgestisce i bassi (anche se rende molto bene la natura “mefistofelica” della Nutrice, spesso, invece, ridotta a petulante vecchina). Falk Struckman cerca di ammorbidire un canto tendenzialmente privo di sfumature, ma resta un Barak alterno. Particolarmente a disagio l’Imperatrice di Emily Magee che arriva stremata già alla conclusione del primo atto. Meglio Elena Pankratova, ma è chiaro che il ruolo della Tintora dovrebbe risolversi con una pienezza e una sicurezza maggiori. Un discorso a parte merita la contestata regia di Klaus Guth. A me è piaciuta molto, ma occorre fare un paio di premesse. La Frau è un’opera fortemente simbolica, dove ogni parola, ogni gesto, ogni personaggio, nasconde qualcosa di diverso in un labirinto di riferimenti e suggestioni che, forse, non era ben chiaro neppure ai suoi autori. Ci pensa lo stesso Hofmanshtal a chiarire il punto quando dichiara: “c’è solo una via da percorrere: allontanarci dalla precisione storica ed etnografica”. Concetto che ribadirà più volte a Strauss quando, in occasione dei preparativi per la prima, gli scrive che “ciò che esige il testo poetico – la poesia in quanto tale non mette in scena un aneddoto storico, ma un tema eterno cioè atemporale e simbolico – è un ambiente e un costume idealizzati”, oppure quando “rimprovera” al compositore richieste sceniche realistiche o fedeli al testo, confermando che le indicazioni del libretto sono un mero elemento letterario. Non trovo dunque scandaloso – nel rispetto della drammaturgia e dell’acceso simbolismo (come peraltro fa Guth, senza compromettere gli equilibri) – percorrere strade diverse dalla mera oleografia naturalistica (che, nel caso di specie, risulterebbe involontariamente comica se davvero si seguissero alla lettera certe indicazioni, come il canto dei pesciolini fritti). Guth, dunque, opta per una scelta più “psicologica”: la vicenda non è altro che un sogno che si dissolve all’alba quando la luce rischiara il finestrone della camera da letto e le figure incantate e spaventose, svaniscono nello sfondo. Per farlo predispone una scena a struttura fissa (una camera borghese che ha l’indubbio vantaggio di spostare in avanti i cantanti e di fare da cassa di risonanza per le voci: assai più gratificante, dunque, della scena vuota di tanti suoi celebrati colleghi), con sfondo mobile che si apre su altre stanze, finestre, mondi incantati…il tutto condotto con innegabile abilità e senso del teatro. Certo non si può non riflettere sul disagio odierno di rapportarsi al mito, sulla “moda” del dramma borghese a tutti i costi, sulla rinuncia alla fabula come metafora (sostituita dalle valenze metaforiche della realtà) e sull’insistenza – talvolta eccessiva – degli elementi della più spiccia psicanalisi, tanto che non può non venire in mente Cioran quando scrisse: “mille anni di guerra hanno consolidato l’Occidente; è bastato un secolo di psicologia per ridurlo allo stremo”. Sono riflessioni comuni ad una certa idea di regia: rinunciataria e, talvolta, manierata. Guth, tuttavia, sa come muoversi e costruisce uno spettacolo coinvolgente ed esteticamente appagante (tutto si può dire, ma non che sia sciatto): fatte salve le grosse teste di animali cornuti che ricoprivano i figuranti e che miravano ad interpretare gli elementi provenienti dal mondo degli spiriti (Keikobad, la gazzella, i bimbi non nati etc…), ma che, invece, ricordavano terribilmente gli inquietanti “rabbits” di David Lynch. Nel complesso uno spettacolo non certo indimenticabile, non certo storico, ma sicuramente “potabile”.

23 pensieri su “Die Frau ohne Schatten: per la quarta volta alla Scala

  1. Andrò a vederla domani, vi farò sapere! comunque, avendo ascoltato la prima, non posso che concordare su tutto, forse darei un po’ più di merito ad Albrecht, che si è rivelato il direttore migliore di questa stagione. Certo, bisogna anche vedere qual’è il termine di paragone, ma a me non è sembrato affatto male, forse sarò stato abituato ai vari Barenboing, Wellber (che a dire il vero mi è piaciuto, almeno nella mia recita) e via dicendo, ma avendolo anche ascoltato con altre orchestre direi che promette bene. Certo, come dice Duprez, non sarà mai un Toscanini, un Abbado o anche semplicemente un Muti, però direi che la scala sta (forse) uscendo dalla brutta malattia e seguente convalescenza che le hanno procurato quei microbi di cast…speriamo bene! Tra pochi giorni volo a Vienna per lavoro, e li ritornerò alla Staats dopo 10 anni, chissà se il paragone con la scala regge…(ovviamente ironico :) )

  2. Domenica sera sono uscita perplessa da teatro, tante le cose che non mi hanno convinto.
    Lo spettacolo di Claus Guth si basa sull’assunto che la narrazione non è una favola ma il frutto della mente disturbata da nevrosi e schizofrenia dell’imperatrice: tutto inizia con le visualizzazioni reali dei suoi simboli onirici, animali che la seguiranno nel corso della narrazione quali elementi didascalici, e con un letto d’ospedale psichiatrico. Il percorso iniziatico di si trasforma in terapeutico. Sull’identificazione della Vienna freudiana quale chiave di lettura, lo spettacolo si articola all’interno di una scenografia neutra, tinta legno, senza spigoli con forme ondulate (onda quantica di un universo fluido ?) che isola, unisce o separa con i suoi movimenti. All’interno di tale lettura, tutto funziona, sembra chiaro, didatticamente illustrato dai simboli visualizzati (cervi, gazzelle, spettri con le alucce nere..), dalle proiezioni di filmati esplicativi ( i pesciolini che compaiono nella padella guizzano anche sulle pareti, pesce azzurro e spermatozoo..ecc.); il mondo degli spiriti e quello degli umani non sono contrapposti ma speculari in quanto dualismi della stessa mente (imperatrice/tintora), e le ombre proiettate da entrambi e stagliate marcatamente sulle scene, testimoniano, emblematicamente nella vicenda della ricerca dell’ombra, l’interscambio, ovvero, l’identificazione tra la realtà (malata) e i suoi fantasmi ; i movimenti drammaturgici sono efficaci, tutto ha senso. Ricordando l’incanto fiabesco dello spettacolo di Ponnelle, questa mi è sembrata la narrazione di un’altra vicenda, di una storia senza bellezza, livida, plumbea: e grigio è anche il colore del “rosso falcone” o della rappresentazione simbolica dell’immancabile-psicanalitico-padre Keikobad, solo l’imperatrice è bianca, senza colpe poiché ignara. Uno spettacolo non banale, logico e coerente ma greve nel tentativo di spiegare l’inspiegabile, lontano per natura dal fantastico.
    Ho trovato molto bravi primo violoncello e violino, mi è sembrata bene l’orchestra e il direttore che ha dominato la difficile partitura con tempi serrati, ed alternando sapientemente lirismo e drammaticità, ma anche qui, tanto mi è parso mancare: l’eleganza di una lettura raffinata, trasparenze sottili, ricchezza di colori nei dettagli e la tensione di quelle ”note sospese”, come un elastico luminoso che progressivamente giunge alla sua massima espansione, che rendono Strauss struggente. Meno riusciti gli adagio, come alla fine del primo atto, dove il magnifico canto dei guardiani mi è parso slentato, quasi noioso.
    Anche il cast era di tutto rispetto ma nessuno mi è piaciuto veramente : bella la voce dell’imperatore di Johan Botha spesso strozzata in alto e ondeggiante nello sforzo; importante la voce dell’imperatrice di Emily Magee con gli acuti spinti da sotto, ottima scenicamente la nutrice della Michaela Schuster con problemi in alto ed in basso, bel registro acuto ma poco espressiva e assai volgare la tintora di Elena Pankratova dalla voce spoggiata al centro e spesso inudibile , il migliore, nonostante il mezzo mostri segni d’usura, mi è parso Barak di Falk Struckmann, che tuttavia, ha dato vita ad un personaggio grezzo e poco sfumato.
    Mentre, a suo tempo, tornai a rivedere lo spettacolo Ponnelle/Sinopoli, non tornerò a rivedere questo.

  3. “spettacolo non banale, logico e coerente ma greve nel tentativo di spiegare l’inspiegabile, lontano per natura dal fantastico” dici bene Olivia…quella di Guth è una lettura legittima che, però, denuncia una certa incapacità dell’uomo moderno a rapportarsi con il mito. E’ segno dei tempi e forse è anche giusto così. Credo, tuttavia, che una soluzione meramente favolistica, sia inadatta alla Frau…lo stesso Ponelle – che citi giustamente – si rifà ad una drammaturgia astratta, al teatro No giapponese (che c’entra con il libretto di Hofmanshtal esattamente come i risvolti psicanalitici di Guth). Io vado a teatro per essere coinvolto in uno spettacolo che non si a un concerto in costume (altrimenti mi basta il cd) e quello di Guth era teatro vivo. Per il resto ribadisco: una Frau di routine, a cominciare dal direttore…un onesto mestierante. L’orchestra suona male, qui è più ordinata, ma siamo alla lettura d’emergenza…il cast mostra pregi e difatti. Il fatto che questo appaia come un trionfo la dice lunga sul comatoso stato del teatro milanese.

  4. Trovo che le riflessioni di olivia intorno alla regia siano condivisibili in toto. Tra l’altro scene e costumi erano di rara bruttezza e non di rado si cascava in un desolante kitsch da cartoon di serie B ( gli aspetti favolistici ) o da socialismo reale ( gli interni dell’ospedale ). La Frau è opera meravigliosa, di una bellezza che a volte stordisce, ma il testo di Hofmansthal è forse un po’ troppo esorbitante nella stratificazione dei simboli. D’obbligo sarebbe – registicamente – la mano lieve e incantata, evitare di aggiungere simboli e significati alla folla di quelli già presenti e operanti. Togliere e non aggiungere, come insegnano le elementari regole del buon gusto e in questo caso anche del buon senso. Il siparietto coi bimbi disposti come il profilo di una nave e che mimano il gesto del remare è forse coerente con l’assunto moralistico dell’opera, ma di un gusto da recita scolastica. Ed è esempio di un livello registico che non trovo tollerabile. Le opere sono meravigliosi organismi che si reggono su equlibri delicati: troppo spesso vengono manomesse e violate dalle mani pesanti e ignare dei registi, che trovano in esse non l’occasione per scavare e riflettere su quanto inteso dagli autori, ma uno strumento e occasione per la propria personale affermazione, costi quel che costi. Anche mettere – come è già stato fatto – i congiurati del Ballo in Machera su un bidé. In certi casi è davvero meglio un’esecuzione in forma di concerto: le grandi opere racchiudono la loro forza drammaturgica nel calibrato rapporto tra musica e parole. Quando un regista si mette a scardinare e reinventare tale rapporto è quasi sempre un molesto scocciatore.

    • Dovendo sopportare da una decina d’ anni lo stile registico Eurotrash tedesco, sottoscrivo in pieno l’ ultima frase di Gianmario. Io di Guth conosco solo la trilogia mozartiana messa in scena a Salzburg. Dopo averne visto i DVD, ho inserito questo signore nelle prime posizioni della mia personale lista “Se li conosci, li eviti”.

    • Però Guth non scardina affatto i rapporti musicali e drammaturgici: non ambienta la prima scena del Ballo in Maschera in un cesso pubblico :) Ovviamente può piacere o non piacere, gli si possono contestare molte cose, ma non c’è nulla di sciatto o di improvvisato…e SOPRATTUTTO nulla di antimusicale. Non è il solito regista eurotrash: certo calca la mano sul dramma borghese alla Thomas Mann (il suo Tristan o il suo Parsifal sembrano “La montagna incantata”), ma è una cifra stilistica che non disturba… Perché se si fanno le pulci a Guth che dire dei concerti in costume di Pizzi coi manichini dei cavalli e i colonnati o quelli di Wilson o le scene vuote che infestano i nostri teatri? Guth non aggiunge simboli alla Frau (mai leggere le note di regia, meglio guardare lo spettacolo senza preconcetti) semplicemente li inserisce in una dimensione non più favolistica o mitica, ma onirica…senza cambiare nulla nella drammaturgia.
      La trilogia Mozart/Da Ponte, a mio giudizio è molto bella (con alcuni momenti riusciti e altri meno), coinvolge e non falsa i rapporti musicali. Senza contare l’innegabile capacità tecnica. Poi il resto è gusto personale.
      Ps: secondo me lo spettacolo più bello di Guth è il Messiah.

    • Gianmario non è che manchi la riflessione o la capacità drammaturgica per realizzarla, è che la legittima lettura di Guth è triste e desolante in questa Frau e condivido quanto tu dici sulla necessità di una mano più lieve ed incantata.

      Mentre non condivido quanto detto da Mozart poiché ho trovato magnifico il suo” Così fan tutte” di Salisburgo .

      Tuttavia, se la Steber fosse stata l’imperatrice ci sarebbe andata bene qualsiasi regia !

  5. Quando si critica un regista, Duprez reagisce citando i concerti in costume di Pizzi, come sempre…
    Io comunque il DVD del Don Giovanni di Guth l’ ho visto per la prima volta insieme a un mio giovane amico tedesco, che apprezza la lirica ma non se ne intende moltissimo.
    Il suo commento alla messinscena fu il seguente. “Ma ambientata in mezzo ai barboni di oggi questa storia non ha senso. Ti sembra che qualcuno oggi si metta a corteggiare una ragazza cantando una serenata?”

    • Attenzione però all’argomento “realistico”…se si applica all’opera allora nulla avrebbe senso: chi muore cantando nella realtà?

      Comunque quel Don Giovanni non mi fa impazzire…tuttavia non posso non apprezzarne la coerenza teatrale (senza forzare i significati). Per intenderci è molto più rispettoso Guth in quel discutibile Don Giovanni di Carsen

  6. Io penso che fare regia non sia semplicisticamente riferirsi alla trama prevista dal libretto ( quello che poi normalmente fanno oggi i registi ) ma anche a quello che forse un po’ arbitrariamente chiamerò il sottotesto, che è costituito dalla specifictà drammatico-musicale di una particolare opera: potremmo gerenericamente dire il suo stile. Ad esempio far muovere i personaggi di opere barocche al modo del realismo cinematografico significa avere capito nulla. Pannain, molti anni fa, scrisse che i personaggi delle opere barocche sono stagliati come bassorilievi. Grande osservazione. E dunque, per esempio, la Semiramide di Pizzi era in questo senso perfetta. Quando per esempio in Handel si conversa, si telefona, si flirta e si cazzeggia con i ritmi di un telefilm o di una telenovela si è invece totalmente fuori strada. Ma principalmente non per il tradimento di trama o di epoca: piuttosto per il tardimento della cifra stilistica dell’opera. Come restaurare una facciata barocca adornandola di fregi liberty ( l’esempio non è mio, è di Arbasino ).Tutto questo anche per dire a Duprez: la Semiramide di Pizzi dovrebbe essere studiata con reverenza e rispetto. E anche la sua Armide scaligera, che però ho purtroppo visto solo una volta e ricordo meno bene nei dettagli, mi ha saputo dare grandi emozioni.

    • Non sono per nulla d’accordo: il teatro – qualsiasi esso sia – è vivo e vitale e non può essere “intagliato nel marmo” checché ne dica Pannain o Arbasino… Io vado a teatro per essere coinvolto e non per annoiarmi: se mi annoio qualcosa non va… Con Pizzi mi annoio (esattamente come con Wilson, Pier’Alli etc…) ergo non credo che vi sia nulla da studiare o riverire in quella specie di “arredamento” spacciato per regia teatrale. Qualsiasi regia (tradizionale o moderna) deve essere teatrale…se stanno tutti imbambolati come statue di marmo, scusa, preferisco il cd! Nel ‘700 all’opera si beveva, si mangiava, si giocava e ci si accoppiava…ogni tanto si ascoltava musica. Oggi per resistere a 3 ore e mezzo di arie tripartite alternate a recitativi secchi occorre sfruttare le notevoli potenzialità teatrali (il sottotesto appunto) di certi straordinari libretti (penso all’Agrippina). Poi ognuno si emoziona come vuole o come ritiene. Trovo però sbagliato un atteggiamento di chiusura pregiudiziale… E comunque la Frau non è un’opera barocca e quando Strauss la scrisse il cinematografo esisteva già.. :)

    • Gianmario sull’argomento Pizzi (come tanti altri, non dimentichiamolo) posso dirti che Semiramide (opera che odio con tutto il mio cuore) si presta secondo me a “quel tipo” di messinscena, mentre tante altre opere da lui sperimentate proprio no. Del suddetto salvo infatti solo il Cappello di Paglia e la Boheme, opere comunque sicuramente più “facili” (passatemi il termine) di altre da mettere in scena. Quando andavo a vedere i suoi allestimenti alla Scala sembrava che tutto ruotasse attorno al solo e fine a se stesso senso estetico della scenografia, parere che accordo anche a Zeffirelli e certe volte, poche, anche a Strehler, dove nel primo caso c’è una tale abbondanza scenografica ed estetica che si perde anche il senso dell’opera (come in Traviata), mentre nel secondo caso, il valore dell’opera si perde non per abbondanza ma per mancanza di originalità (con questo non penso che Strehler sia banale, sarei un pazzo, ma io, sarà una questione personale e contestabilissima, quando vidi dal vivo nel 87 e quando adesso rivedo il suo Don Giovanni ad esempio trovo scene e costumi equilibrati e stupendi, ma nella REGIA vera e propria trovo una sostanziale mancanza di originalità, che, beninteso, non deve passare al lato opposto e trasformarsi in assurdità (tanto per rimanere in tema, il D. Giovanni di Carsen, allestimento dove se ci fosse stata un po’ più di banalità sarebbe stato molto meglio…).

      • Poi mi taccio, ma davvero non comprendo cosa vi sia di banale nei superbi giochi di luce del Don Giovanni di Strehler, nella meccanica dei movimenti (naturalissimi e mai caricati), in uno spettacolo che scorreva come una commedia di Goldoni… Forse non c’erano lambrette e parallelepipedi, o donne seminude o ambigui giochi sulla presunta omosessualità di Don Ottavio…. Mancava tutto questo, e francamente ne ho fatto volentieri a meno…

        • Duprez, poi mi taccio anche io. Non mi risulta di aver scritto che il Don Giovanni di Carsen fosse un capolavoro… su quello di Strehler credo che allora abbiamo visto un altro spettacolo, perchè io lo trovo SICURAMENTE di altissimo livello, BELLO però hp trovato tutto fuorchè movenze naturali. Per il resto non ho mai desiderato giochini o donne seminude,primo perchè non mi interessano, secondo perchè se voglio vederli vado in un sex shop, non pago 200 euro alla scala e francamente di devo confessare che mi offende che tu abbia una così bassa stima di me.

          • Posso fare anche l’esempio più stupido di questo mondo? nella scena del combattimento tra Don Giovanni ed il Commendatore ci sono nove colpi di spada che vanno al ritmo delle nove note di Mozart, e quando fra esse c’è la pausa, il combattimento si ferma. Per banalità intendo che la regia (parlo sempre delle movenze, il resto è obbiettivamente incontestabile) è qualcosa di bello, di fine, ma di già visto. Sarà che forse ho visto questo spettacolo più di 20 volte, trovandolo sempre magico e, per carità, tutto filava liscio, forse anche un po’ troppo. Poi, per carità, ognuno ha i suoi pareri, ci mancherebbe altro.

          • La mia era solo curiosità naturalmente: anche io ho visto tante volte lo spettacolo di Strehler (e anche le sue magnifiche Nozze di Figaro – che avrei rivisto volentieri anche quest’anno se non ci fosse quel cast e soprattutto quel direttore che ritengo, ad essere gentili, totalmente inadeguato)…però non mi hanno mai infastidito quei movimenti e ti dirò, più che trovarli “banali” li trovo “normali” e logici…perché, in quel punto, fare chiasso con le spade, ad esempio, potendo sfruttare il ritmo mozartiano (che proprio alle stoccate allude). E’ un po’ come i rumori di tuoni e fulmini anche laddove ci pensa già la musica (temporale nella Lucia o tempesta nei Puritani)…io li trovo abominevoli (e pure Bonynge quando li ha voluti ha dimostrato un gusto orrido e antimusicale)

      • Per dovere di cronaca: dal Don Giovanni Strehler se ne andò a metà prove per dissensi con Muti, il Così Fan Tutte lo abbandonò il terzo giorno per passare a miglior vita, le Nozze lo fece (teatrino di corte a Versailles) e si vede; eccome se si vede… (e così il meraviglioso Flauto di Salisburgo – scene e costumi Damiani – prontamente rimosso da Karajan che pare non lo amasse punto)

  7. Prima che la discussione si concentri su Pizzi, le regie moderne o tradizionali etc… (a scapito dell’argomento principale che è QUESTA Frau scaligera), informo che qualsiasi esempio mi facciate, qualsiasi argomentazione vogliate portare, non cambierò di una virgola il mio pensiero su Pizzi e le sue presunte regie d’opera…per cui tanto vale chiuderla qui, evitando che si ripetano per innumerevoli volte i medesimi concetti da ambo le parti :)

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