Stiffelio al Teatro Regio di Parma

Il Regio di Parma ha risollevato gli esiti del suo assaggio di stagione lirica ( due opere non possono considerarsi una stagione, bensì un assaggio di stagione….per una stagione che di fatto non c’è più.!) con la produzione di Stiffelio andata in scena ieri sera, che ha riscosso un buon successo alla fine ed una messe di opinioni, variamente ( e coloritamente ! ) argomentate da parte del pubblico, esperto e non. Un allestimento minimal hamisch sobrio ed adeguato firmato dal duo Calcagnini – Mantovan ha fatto da essenziale e perfetta cornice alla musica.
Premesso che non si sono udite le smaccate indecenze dell’Aida ultima scorsa, questo Stiffelio si è certamente difeso meglio in virtù di prove migliori fornite dai cantanti, grazie anche al fatto che l’opera è mediamente poco conosciuta. E’ un dato di fatto che Stiffelio non abbia neppure trovato in passato, ad onta delle ben tre edizioni critiche dal ’68 in poi, quelle eccellenze interpretative annoverate dalla consumatissima Aida, atte a suffragare confronti e a porsi come esempi o modelli per gli esecutori: uno veramente Stiffelio ben cantato nessuno lo ha mai sentito in età moderna,
perché non ha mai avuto interpreti memorabili, quali erano i cantanti verdiani doc che hanno amministrato Verdi negli anni precedenti la sua riscoperta filologica. Già con Aroldo la questione sarebbe assai diversa dove, al posto delle Sass o delle Gulin, peraltro poco note ai più nelle loro performances quali Lina, iniziassero a comparire le Caballè o le Callas, oppure al posto dei monotoni Domingo o Carreras quali Stiffelio, il commendator Bergonzi. E di fondo, dietro al successo di ieri sera, c’è stato questo, un accontentarsi da parte del pubblico di sentire solfeggiare senza accenti e colori i cantanti, già di per sé viziati da una “verdianità” estranea, per imposto tecnico e modi del fraseggio, al vero canto del Cigno di Busseto, soprattutto quello difficilissimo sino alla trilogia popolare, guidati dall’imberbe bacchetta prodigio ( ma non troppo! ) di Andrea Battistoni. Bacchetta che ha dato chiara prova di concepire Verdi quale mero compositore di marcette, fracassi, nevrotici e bim bum bam. Cantare non è solfeggiare. Cantare è dire, è dare un senso alle parole, alla situazioni drammaturgiche, rendere significati che talora non sono immediati per noi e la nostra sensibilità. E il “dire”, per Verdi, è centrale, essendo l’obbiettivo di tutti i suoi sforzi, dei suoi contorcimenti compositivi, dei suoi ripensamenti, delle sue grattate e riscritture, delle sue contraddizioni, delle idee maldestre poi corrette, insomma, il dire di Verdi è l’Ottocento tutto alla ricerca di sè, con le proprie contraddizioni, con il proprio mix, talora anche poco accattivante o difficile, di passato e futuro, di vecchio e di nuovo.
Così è Stiffelio, dove il genio è alle prese con svariati problemi, in primis l’inteatralità della commedia protestante, quindi i personaggi sbozzati ma non finiti, un canto di conversazione ancora da perfezionare, una certa carenza di ispirazione con cui l’esecutore moderno deve per forza fare i conti, perché costretto a metterci del suo quando il capolavoro non è, per una volta, tale.

Il maestro Battistoni, dal canto suo, mostra autorevolezza nel gesto, ha un certo piglio “mutiano”, la faccia seria e le braccia che si muovono con energia, ma…lì finisce. Il podio non è un gioco, ma lo stallo dove tutto uno spettacolo cristallizza e vive. Anche Muti faceva fracasso all’occorrenza, ma lo sapeva fare bene e sapeva anche quando era ora di smettere la retorica ed i quarantottismi “popular” perché era necessario che arrivasse qualcos’altro, qualcosa di molto diverso e ben più sfaccettato di quello che proviene dal piccolo podio di Battistoni. A lui è mancata proprio la cifra dell’opera, incapace di andare oltre una generica velocità piuttosto meccanica e di costruire atmosfere di sorta. Le enumero così come le ho annotate seguendo il video: l’ouverture, un brano abbastanza disgraziato, ma che non introduce affatto un ‘opera comica; nessun clima all’entrata di Stiffelio; il successivo coro, di nuovo una marcetta; di nuovo alla scena tra Lina e Stiffelio, negli accompagnamenti alle frasi “ Le ingenui custodi del pudore…” , quindi alla stretta di “Si parlatemi… l’anello a chi lo deste..”, uno dei momenti peggiori della serata; la scena del cimitero di Lina, pessima nell’intera sezione che precede la cabaletta di lei, pesante ed inadeguato drammaturgicamente, per poi mancare di forza nell’accompagnamento alla cabaletta stessa, dove il soprano aveva bisogno di un po’ di forza dalla buca, essendo il soprano privo dello spessore richiesto; di nuovo il coro dopo il quartetto atto II “ Non punirmi o signore”, assente del tutto la mistica o qualsiasi effetto prospettico; senza vigore e slancio alla maledizione di Stiffelio, per cui valgono le considerazioni espresse per la cabaletta di Lina; ancora, rumore nella scena finale della chiesa. Insomma, appena il battere del tempo.

Se il maestro Battistoni non ha trovato la cifra dell’opera, i cantanti non sono stati da meno. La povertà delle intenzioni e degli accenti ha regnato sovrana su tutta la serata. Occorre una diversa e più articolata concezione dell’Ottocento rispetto a quella del maestro e della sua orchestra giocattolo per saper suggerire le giuste intenzioni, per cogliere le sfumature e i toni di questa commedia privata dell’onore, della fede e del ricordo. L’idea è quella che i grandi vocalisti di Verdi dipingono con i loro “accenti” nelle storiche incisioni di cui a volte abbiamo parlato. Il sapore che hanno saputo trovare, tanto per chiarire, il già citato Bergonzi nell’aria di Mcduff o il fraseggio del leggendario Cortis nella grande scena del Ballo in Maschera, o quello di Francesco Merli nell’Otello o di Aureliano Pertile nella grande scena di Rodolfo della Miller: un canto aulico ma anche sfumato, modulato sulla singola parola, sfaccettato nelle intenzioni, tante e modulatissime.  Un canto che sa di antico, di Ottocento appunto, dove la conversazione, seppur concitata, tra il marito tradito e la moglie adultera sa di ben altro rispetto a quel vociare plebeo sempre sul forte cui si è abbandonato il tenore l’altra sera, incapace di distinguere nel canto e col canto l’invettiva dal dolore, la rabbia dal sentimento religioso, la narrazione del racconto pubblico della sortita dalle frasi intrise di gelosia del successivo incontro con Lina. Un canto in cui l’adultera, seppure involontaria, esprima toni dolenti e contenuti sin dalla sua prima scena con Stiffelio diversi da quella del cimitero, intrisa del ricordo della madre. Anche il duetto con il padre si deve distinguere dalla scena chiave concitata con il marito che la ripudia al III atto. Un personaggio, quello di Lina, ove una Gencer, austera e dolente, lirica ma anche sdegnata, avrebbe trovato mille e mille colori, che la parte in sé comunque contiene, ad onta della qualità musicale più o meno alta dell’opera. Idem dicasi per il personaggio di Stankar, dal carattere forse stereotipato, ma sempre appartenente al modello del padre nobile, vendicatore dell’onore ma anche ottocentesco ipocrita che vuole nascondere il peccato della figlia.
La buca non crea i climi  presupposti al canto, ed i cantanti in quel pestare meccanico ed incolore si perdono, mai stimolati a fare e certo non autonomamente creativi sul piano del fraseggio.

Il signor Aronica fraintende il ruolo, e a parte un paio di passaggi in piano, non trova mai una dimensione plausibile al personaggio di Stiffelio, amministrando entrata, duetto, duettone, maledizione, finale tutto allo stesso modo, sul forte, forzato dalla scrittura orizzontale della parte che lo porta a declamare. Ha voce di qualità, suono pieno, facilità ad amministrare la serata, ma non di fatto non ha “detto” mai, e le scene, la progressione drammatica che porta il protagonista a ripudiare la moglie, di fatto non si sono colti. Complice Battistoni e le sue marce, ha amministrato il racconto dell’entrata sempre sul forte ( perché? è un racconto..), come le frasi  “Ah no il perdono è facile” ingenuamente attaccate in modo scomposto ed esteriore, tanto che quando la scena con Lina si impenna nelle manifestazioni di gelosia di Stiffelio, “Si parlatemi ..l’anello a chi lo deste” l’accento non è diverso da quelli sin lì trovati e lo spettatore non può cogliere una diversa sfumatura drammaturgica tra i due momenti. Idem dicasi per terzetto e quartetto del II atto, tanto che a forza di insistere su quei toni la voce del tenore, che è facilissima, sul “Che ho mentito almen dite…. un accento proferite…” ha finito anche per perdere in compostezza di emissione. Il tono giusto ed esatto Aronica lo ha trovato invece in “Me disperato abbruciano”, eseguito con piglio e slancio, purtroppo analogo ai momenti precedente e perdendo, dunque, gran parte dell’effetto che poteva sortire. Un vero peccato anche per il III atto, perché “Opposto il calle dell’avvenire” è il momento più bello di tutta l’opera, ed avrebbe meritato qualcosa di meglio di quell’attacco a squarciagola e senza poesia che ha fatto sentire, e toni meno monotoni in tutto quanto è venuto dopo.

Quanto alla signorina Yu Guancun, giovane e di brevissima carriera, è stata in primo luogo inadeguata sul piano vocale, essendo più un lirico leggero che non una voce spinta o drammatica; per giunta ha sofferto la pesantezza della parte per via delle evidenti lacune tecniche sia in zona acuta, dove la voce non gira e tende o ad andare in dietro o a stimbrarsi, che in quello centro grave, dove le mancano le note ma anche la cognizione tecnica di come si amministri il passaggio di registro inferiore. Ha amministrato una parte ostica, và detto, ma i limiti di partenza si sono tradotto in un fraseggio men che limitato e in alcuni passaggi difficili maldestramente eseguiti. La latitanza sul piano espressivo è emersa sin dalla prima scena con Stiffelio,“ Tosto ei disse…A te ascenda o Dio clemente” eseguita in modo incolore, come le ripetizioni di “ Perdonata perdonata…” sempre identiche. Al duetto con il padre, poi, le prime note dolenti, nei passi acuti in punta di forchetta “Oh qual fate orrendo strazio ” , dove ha gridato e stonato qua e là; indi alla stretta della scena, le discese di prammatica prescritte da Verdi per i suoi soprani, risolte con suoni scoperti e parlati e successive salite all’acuto inceppate. Alla scena di apertura del II atto si è arrangiata come ha potuto su frasi troppo impegnative per lei come “Madre madre soccorrimi”, superando un po’ meglio l’aria “Là dagli scanni eterei….” solo per quanto concerne le frasi centrali, non certo quelle finali più alte, gridate, ma ne è uscito comunque un canto senza la corposità e la vis drammatica necessarie, come pure nella seguente cabaletta. Insomma, una voce troppo leggera, che nei momenti chiave, come nella bellissima scena con Stiffelio del terzo atto, ha visto il giovane soprano privo degli accenti importanti richiesti: “Non allo sposo volgomi ma all’uom di sacro zelo..”, oppure ”Egli un patto proponea…” etc sono filate via senza intenzioni o accenti palpabili.

Il migliore della serata è stato forse il signor Frontali, che è cantante esperto di lungo corso, cui fanno difetto, però, acuti sicuri e avanti ed in qualche caso l’emissione nobile: in alto, infatti, la voce si stringe e i piani tendono a sfuocarsi. La parte migliore della sua prestazione è stata al terzo atto, in particolare i passi centrali dell’aria, “Lina, pensai che un angelo”, cantato con accento adeguato, anche se con qualche durezza e suono ghermito, come nel recitativo che precede, oppure nella scomoda scrittura della cabaletta, i piani in particolare. Il momento peggiore, invece, il duetto con Lina per le durezze dell’emissione in“Dite che il fallo a tergere..” od in “ Ed io pure innanzi agli uomini”, anche per alcune stonature in cui è incappato, forse a anche a causa delle difficoltà in cui versava la collega, in “Oh qual fate orrendo strazio ” . Ha ricevuto, comunque, l’applauso più sentito della serata dopo la sua scena del terzo atto.  Degli altri coprotagonisti taccio.

Insomma, la morale della favola è questa: il successo arriva non perché si canti Verdi come Verdi avrebbe desiderato, ma perché si và a tempo e si eseguono le note senza troppe urla o lai o incidenti e senza nemmeno scegliere le voci con pertinenza. Verdi non ci ha lasciato un capolavoro, è certo, ma che qualche contenuto in più vi fosse in quest’opera è certo, per lo meno un po’ più di “recitar cantando”. Regna sovrano, invece, il “solfeggiar cantando”. E siamo alle porte del 2013, anno di celebrazioni verdiane che avranno luogo senza che esista più una generazione di cantanti che possano dirsi davvero “verdiani” ( di primo, secondo o terzo livello poco importa ), diffusamente cantori senza tecnica ed altrettanto diffusa misconoscenza di cosa siano il fraseggio, il canto sulla parola, il senso più vero e profondo, lo stile ( per usare un termine volutamente ottocentesco ) di quanto creato dal maestro di Busseto. Cosa intendiamo celebrare allora?

11 pensieri su “Stiffelio al Teatro Regio di Parma

  1. Giulia, ma in tempi di vacche magre cosa vai cercando? Il cast non mi è parso malvagio e, a mio parere, il vero problema è risultato il direttore. Condivido ciò che hai detto su di lui e aggiungo che i poveri cantanti non avevano neppure il tempo di respirare. Battistoni se ne andava per proprio conto, incurante di tutto, soprattutto del palcoscenico! Ottoni e percussioni la facevano da padroni e il zum pa pa regnava incontrastato… Rispetto alla precedente Aida si sono fatti passi da gigante, accontentiamoci!

  2. Buonasera,
    non sono un’esperta d’opera, ed è la prima volta che scrivo sul sito, pur leggendovi da qualche anno.
    Scusate se il mio messaggio è fuori oggetto, tuttavia vorrei acquistare l’abbonamento alla prossima stagione, ma non trovo da nessuna parte informazioni sulla data di apertura delle vendite. Già lo scorso anno sono arrivata troppo tardi e non sono riuscita ad abbonarmi, vorrei evitare di fare lo stesso quest’anno.
    Qualcuno ha idea di quando saranno aperte le vendite online degli abbonamenti 2012-2013?
    Vi ringrazio molto!

  3. L’ultima replica dello Stiffelio al Regio conferma il giudizio della sig.ra Grisi a mio parere.
    Il ‘solfeggiar cantando’ ha imperato, il direttore tiene il tempo ma evidenzia tutti i limiti interpretativi della sua giovane età.
    Spiccava Frontali con un suono non sempre bellissimo, ma con una verve interpretativa di gran lunga superiore alla media della serata.
    Tuttavia, a mio avviso, visto quello che si è sentito a Bologna recentemente (Turandot pessima e Traviata sopportabile a sprazzi), il Regio di Parma ha prodotto una serata, se non dignitosa, quanto meno ‘decente’.

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