I venerdì di G.B. Mancini: impariamo a confrontare. De Lucia vs. Caruso 2

Dopo le amare incomprensioni e la torva polemica sollevatesi la scorsa settimana a seguito di quella che voleva essere solo una obiettiva, neutrale e stringata considerazione sulla emissione vocale del mitico Caruso, è d’obbligo ritornare sullo stesso argomento ed incardinare il confronto su di una selezione di brani meglio ponderata, corredandola di un’analisi più completa e dettagliata, onde far comprendere più a fondo quali siano le motivazioni che mi inducono ad individuare in Caruso la figura chiave della decadenza dell’arte vocale nel secolo vigesimo. Per fare ciò, portino pazienza i lettori, mi servirò di uno spazio maggiore rispetto a quello normalmente dedicato a codesta mini-rubrica. Nata, lo rammento, con lo scopo di fornire qualche tangibile parametro di giudizio per imparare a riconoscere da sé chi faccia buon uso della propria voce, e chi meno, senza paura di violare un tabù nell’individuare eventuali defaillances anche nei “mostri sacri” del passato. L’orecchio si affina prima di tutto imparando a riconoscere gli errori: ciò che qui interessa è il canto, ben più dei cantanti.

1) Il verismo

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Assai diverse sono le maniere stilistiche con le quali i due tenori eseguirono le opere del nascente repertorio verista, ma solo il tipo carusiano, sfrondato di tutte le arcaiche delicatezze proprie dello stile ottocentesco, si sarebbe consolidato nelle generazioni di cantanti successive, tramandandosi possiamo dire sino ai nostri giorni. La ragione della prevalenza di questo nuovo stile è da ricercarsi anche nel suo più sobrio rispetto verso la lettera dello spartito, qualità senz’altro apprezzata dalle nuove leve di compositori e direttori d’orchestra, che non gradivano il protagonismo, i vezzi e gli arbitrii musicali dei divi ottocenteschi. E’ poi lecito chiedersi se questo sia stato davvero un bene per l’arte del canto, o se la maggiore aderenza alle note scritte non sia stata invero scelta obbligata di limitati virtuosi e poco variegati interpreti, prima che virtù stilistica.

I primordi del disco, tra cui questa incisione, colgono un De Lucia ultraquarantenne entrato già nella seconda fase di carriera, in uno stato vocale di fisiologico declino (dovuto anche alla frequentazione deleteria, per la sua voce da tenore di grazia, delle opere veriste), che spiega il frequente ricorso agli abbassamenti di tonalità. Si aggiunga poi che De Lucia fu sempre tenore piuttosto corto: nei suoi dischi non si avventura praticamente mai, a voce piena, oltre il la3, e mostra una preferenza per le vocali strette. L’aria di Loris è brano abbastanza pesante e di tessitura non comodissima, perché insistente sui primi acuti e sulla zona che precede il passaggio di registro, ma che non sale oltre un la3. Ciononostante De Lucia abbassa, di mezzo tono, forse impensierito dal la acuto scoperto sulla vocale larga. Il che può sorprendere, considerando che in incisioni anche molto più tarde il cantante sostiene, in tono, le ben più acute tessiture dei duetti di Sonnambula, o dei brani del Don Pasquale. Ma De Lucia era tenore di formazione belcantista, più a suo agio con la scrittura vocale di compositori come Rossini, Bellini o Donizetti, che premiava chi sapeva cantare, che non con quella tagliagole della nuova scuola, più adatta ad ugole superdotate. Caruso, il primo interprete del ruolo, è invece colto qui nella sua prima fase, nel momento di massima freschezza vocale ed a mio giudizio di migliore qualità d’imposto, prima della trasformazione nel Caruso dalla voce baritonaleggiante che tutti conosciamo. Ritengo che la vera voce di Caruso sia quella documentata da questi primi dischi. Il timbro è chiaro, aereo, garbato, il suono più leggero e a fior di labbro. Molto belle le prime frasi, l’emissione assai libera, pura, non presenta forzature ed anzi si piega, salendo, ad alcuni suggestivi alleggerimenti: un Caruso assai distante da quello cui si è normalmente abituati. Sentiamo però un principio di difetto in certe sottolineature timbriche in zona centrale, ove il cantante si auto compiace di talune bruniture, perdendo così la posizione alta dell’emissione (“tua lieve”, o “la tua pupilla”, dove la i di “pupilla” è assai indietro – vocale del resto assai difettosa in tutto il brano, a partire da “TI vieta”). Le frasi finali, emesse a tutto volume, presentano quello sgradevole mugugno in preparazione di ogni attacco che sarebbe divenuto vezzo sgradevole di molti tenori delle generazioni successive.

Più elaborata la resa espressiva di De Lucia, che riesce ad articolare il brano in un unico, graduale e toccante crescendo, dalla impalpabile mezza voce iniziale sino al fortissimo dell’acuto di “t’amo”, ove si sfoga tutta la tensione creatasi nel climax. Impeccabile il legato, linea vocale pulitissima, scevra di portamenti, intaccata solo da talune prese di fiato arbitrarie e dall’uso di ornamenti fuori stile. Un verismo, il suo, molto distante dagli stereotipi oggi entrati nell’immaginario comune. Sul lato tecnico, si faccia attenzione a come vengono esasperate le “i”, per esempio nella frase “la tua pupilla esprime”, in modo da raccogliere il suono “avanti”, in una posizione piccola (“parole piccole” diceva Schipa), ed ottenere un acuto timbrato nella salita successiva. Sull’acuto la A è molto coperta, oscurata, praticamente un’intervocale, ma il suono così riesce ben appoggiato, rotondo e proiettato, senza sguaiataggini.

2)La lirica da camera

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De Lucia e Caruso si distinsero entrambi come interpreti della romanza da salotto italiana, ascoltiamoli quindi nel celeberrimo Ideale di Tosti. Non sono trascorsi che pochi anni dall’incisione sopra analizzata, e la voce di Caruso è già sensibilmente cambiata. Il timbro è più scuro, pastoso, personale, subito riconoscibile, una sorta di marchio di fabbrica: non è difficile intuire il perché ai suoi dischi dovette arridere un tale primato nelle vendite (insidiato però, una decina di anni dopo, da un tenore irlandese, finissimo vocalista: il conte John McCormack). La voce ha acquisito colore, paciosa morbidezza, spessore, ma la fonazione ha perso leggerezza e libertà, e gli splendidi, aerei alleggerimenti di quattro anni prima non sono più possibili. Vi addito qualche esempio di suoni palesemente indietro, tarpati, chiusi in bocca, privi della giusta proiezione, cosicché capiate ciò che intendo: le i di “amIca face” (0:36), “TI sentii” (0:46), la “i” e la “a” di “solitaria” (1:03), e molte altre i ancora nel prosieguo del brano. Gli acuti presentano una certa tensione e fissità, come fisiologica conseguenza di un centro che è già troppo scuro e appesantito: l’ulteriore oscuramento attuato per effettuare il passaggio di registro diventa quindi un insostenibile gonfiamento che inevitabilmente fa scivolare la voce indietro (sentire la “a” di “sembiante” al min. 2:20, in cui l’emissione è decisamente sopra le righe, e la successiva, faticosa salita, spinta da sotto, al la nat. di “aurora”, che esce un poco forzato e fisso). Certo, se il cantante non può essere additato come esempio di emissione sorvegliata e ortodossa, bastano comunque la naturale e generosa espressività, la scansione molto musicale della parola, lo slancio, nonché l’irresistibile malia timbrica per mettere in secondo piano, nell’ascolto globale, le deficienze tecniche.

Il tempo di De Lucia come solito è assai largo, in modo da consentirgli di cesellare riccamente la melodia, e pertanto, dovendo rientrare nei quattro minuti del disco, l’incisione comprende solo la seconda strofa della romanza. Nessuna frase è mai lasciata al caso, il cesello scolpisce ogni singola sillaba facendo di questo come di ogni brano da lui eseguito un mosaico finissimo. La salita al la naturale sulla o di aurora è magistrale: il suono, sostenuto da una ferrea colonna di fiato, sta tutto davanti, ben coperto, raccolto, intenso, timbratissimo, squillante, penetrante. Pregevole la chiusa, ove De Lucia esibisce la sua capacità di eseguire impeccabili modulazioni a mezza voce anche sugli acuti, padroneggiando alla perfezione il falsetto rinforzato. Decisamente un canto d’altri tempi.

3)La canzone napoletana

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Per finire, un confronto tra napoletani nella famosissima canzone “O sole mio”.  Qui Caruso, nel ’16, è ormai un mito vivente, una star ricca e famosa, affermata in tutto il mondo. Ascoltandolo possiamo ben comprendere, però, le perplessità del pubblico italiano, quando ebbe modo di risentirlo nei suoi fuggevoli ritorni in patria del ’14 e del ’15, e si trovò di fronte un tenore ormai baritonaleggiante. Le prime frasi, centrali, a dire il vero sono assai buone, anzi direi impressionanti soprattutto per la squisita grana vocale, ma i problemi emergono quando si arriva al ritornello (“Ma n’atu sole ecc…”), che insiste molto sui primi acuti. Il suono è largo, slabbrato, molto arretrato, un’unica intervocale larga e ingrossata che non è mai né A né O. Pessime in particolare le E, rigidissime ed ingolate (“sta ‘nfronte a TE”, min. 2:54), e molto brutta quella su cui risolve l’acuto finale, un sol, praticamente un bercio. Sono passati quattordici anni dall’incisione di “Amor” ti vieta”, e non sembra più lo stesso cantante.

La versione di De Lucia è invece a mio parere uno dei massimi capolavori del napoletano, versione unica ed inimitabile di questa canzone, che in genere tutti cantano un po’ allo stesso modo, per lo più a squarciagola. Utilizzando una simpatica espressione altrove assai abusata, sembra di sentirla cantare per la prima volta. Si ascolti anche solo l’aggraziato attacco del ritornello, sul sol 3 di “Ma n’atu sole”, quanta differenza rispetto alla tribunizia declamazione carusiana!

G.B. Mancini

 

 

 

23 pensieri su “I venerdì di G.B. Mancini: impariamo a confrontare. De Lucia vs. Caruso 2

  1. Articolo più articolato – mi si passi il gioco di parole non felice – e ricco di spunti di riflessione e approfondimento.
    Per mio gusto personalissimo, mi sento di dire quanto segue:
    1) Nell’assolo di Loris non amo né Caruso né De Lucia; inoltre, in disaccordo con Mancini, non trovo affatto la prima salita al sol3 di Caruso un suono alato e alleggerito, quanto piuttosto un maldestro tentativo di mezzavoce che finisce col far l’effetto di certi suoni sbiancati di molti tenori considerati dalla critica paludata fini stilisti, in particolare mozartiani; confesso candidamente che ho tanto sentito la mancanza di Pertile – ma non è assolutamente un rimprovero a Mancini: lo scopo di questo suo intervento è approfondire le questioni sollevate dal suo precedente e Pertile, ça va sans dire, non c’entra nulla;
    2) In “Ideale” vince De Lucia a mani basse, anche perché curiosamente Caruso, cui non difettava certo l’istinto interpretativo, mostra di non aver capito nulla della romanza, demolendo il clima rarefatto che il povero Tosti s’era sforzato di creare (nota a demerito per entrambi i cantanti: l’interpolazione del la bequadro acuto sulla “novella aurora” è orribile, anche quando è eseguito con la maestria abbagliante di De Lucia; è tanto più bella la frase così com’è scritta; stessa cosa per la chiusa acuta; perché i cantanti si ostinavano/ostinato a pensare di saperne più dei compositori? Grande mistero);
    3) L’interpretazione di De Lucia di questa abusatissima e quasi insopportabile canzone napoletana – confesso candidamente: è la prima volta che ascolto questa sua versione – è splendida: finalmente una canzone d’amore e non un campo di battaglia in cui sparare acuti a perdifiato; bravo bravissimo davvero.

    Per quanto riguarda “Caruso iniziatore del malcanto contemporaneo”, è affermazione forte e, posso comprendere pur non avendo seguito il dibattito del post precedente, irritante. Penso che in essa ci sia del vero; d’altra parte non posso non ricordare quando diceva Tullio Serafin e cioè che quando sentiva i dischi di Tamagno o di Caruso gli veniva da ridere tanto poco erano fedeli. Purtroppo noi solo su quelli possiamo tentare di esprimere un giudizio e penso che Mancini difenda la sua posizione con coscienza e onestà, non solo pour épater les auditeurs. In molte sue affermazioni non mi riconosco; in altre, specialmente quando si tratta della nefasta – ma direi involontaria – influenza su molti cantanti – non solo tenori – successivi, non posso che essere d’accordo, fidando nelle mie orecchie. E’ un discorso non facile e complesso. Ma che vale la pena affrontare anche a rischio di scatenare una piccola guerra.

    • >”in disaccordo con Mancini, non trovo affatto la prima salita al sol3 di Caruso un suono alato e alleggerito, quanto piuttosto un maldestro tentativo di mezzavoce che finisce col far l’effetto di certi suoni sbiancati di molti tenori considerati dalla critica paludata fini stilisti, in particolare mozartiani”

      Non ti capisco, è un suono molto libero, galleggiante sul fiato, privo di spinta, molto dolce, carezzevole.

      >”In “Ideale” vince De Lucia a mani basse, anche perché curiosamente Caruso, cui non difettava certo l’istinto interpretativo, mostra di non aver capito nulla della romanza, demolendo il clima rarefatto che il povero Tosti s’era sforzato di creare”

      giusto

      >”L’interpretazione di De Lucia di questa abusatissima e quasi insopportabile canzone napoletana – confesso candidamente: è la prima volta che ascolto questa sua versione – è splendida: finalmente una canzone d’amore e non un campo di battaglia in cui sparare acuti a perdifiato; bravo bravissimo davvero”

      mi fa piacere sia stata apprezzata, come ho scritto sopra la considero un capolavoro, una versione unica: sembra di sentirla cantare per la prima volta.

      >”d’altra parte non posso non ricordare quando diceva Tullio Serafin e cioè che quando sentiva i dischi di Tamagno o di Caruso gli veniva da ridere tanto poco erano fedeli. ”

      Beh, Tamagno è diverso… incise la propria voce con la tecnologia più arcaica e rudimentale, e per di più a fine carriera, già malato. L’emissione poi, argentina, chiara, squillante, non era di quelle idonee ad essere riprodotte su di un disco, come anche Lauri Volpi, mentre la voce di Caruso fu la voce fonogenica per antonomasia, non si può certo dire che il disco lo abbia danneggiato, anzi! Ritengo che i dischi di Caruso siano più che attendibili per farsi un’idea precisa del cantante.

      • Caro Mancini,
        sul primo sol non so davvero come spiegarmi meglio. Penso che lo sentiamo in modo diverso. Forse, per cercare di chiarire il mio pensiero, posso dirti che a volte Lauri – Volpi, Kraus e lo stesso Pavarotti sulla vocale A ritardavano la cosiddetta copertura del suono sull sol3, lasciandolo libero e aperto; ecco, il sol di Caruso non mi suona così, mi suona sbiancato e non sostenuto.
        Per quanto riguarda ciò che dici a proposito di Tamagno, concordo pienamente con te: come tutti i tenori suoi coevi – De Negri, Vignas, Escalais, Garbin, insomma tutti i tenori educati all’ottocentesca (lo dico per comodità) – il disco rende conto solo – solo! – dell’ottima posizione del suono e del correttissimo e auspicabilissimo in tutti i registri vocali equilibrio fra centri timbrati sì ma leggeri e acuti molto “avanti”, squillanti e proiettati. Per Caruso, dici tu, non vale lo stesso discorso. E io sono d’accordo con te: tutti i difetti che hai evidenziato in “Amor ti vieta” sono sotto le orecchie di chiunque voglia ascoltare senza pregiudizio – in particolare la I di “ti” segnala un clamoroso cambio di colore vocale. Però credo comunque che i dischi di Caruso diano una immagine parziale, anche se molto migliore di tanti altri suoi colleghi, di come suonasse la sua voce in teatro. Per ricollegarmi a un tuo post precedente – Dame Joan che canta “Ah, non credea mirarti” – tu giustamente, attirandoti una pioggia di strali, evidenziavi le note centrali artefatte (e chiunque possegga e abbia ascoltato i primi recital della grandissima Joan, e intendo quelli diretti da Santi e Molinari – Pradelli non può negare che qualcosa, nella gestione delle note centrali, sia cambiata col passare del tempo). Ora, molti fortunati che hanno avuta la possibilità di ascoltarla dal vivo ti hanno segnalato il fatto che sì, i centri erano artefatti ma non indietro come sostenevi tu. Questa lunga parentesi per dire che forse, e ripeto forse, dal vivo la voce di Caruso suonava in modo tale da far risultare secondari e trascurabili i difetti che il disco impietoso mette in evidenza. Questo era il senso del mio intervento a proposito delle incisioni. Ma mi rendo conto che, non potendo tornare indietro nel tempo, non sapremo mai come stavano le cose in teatro. In questo senso mi sono sentita di citare le parole di Serafin. Anche perché sono sicura che tu converrai con me quando dico che anche oggi, con tecniche di registrazione avanzatissime, la voce umana resta una delle fonti sonore più difficili da riprodurre. Per cui penso che i dischi di Caruso siano una testimonianza molto più attendibile di quelli di, chessò, un Garbin; però rimane un margine di inafferrabile.
        Per concludere – sennò non mi fermo più – sono in ogni caso convinta che la straordinaria risposta che il pubblico ha dato a Caruso sia in teatro sia, soprattutto per quanto riguarda i nostri discorsi, in disco, abbia scatenato una funesta imitazione che, va da sé, ha riprodotto tutti i difetti e nessun pregio. Però, a titolo puramente speculativo, pensi che sarebbe successo qualcosa di diverso se, per dire, si fosse verificato un fenomeno analogo coi dischi di Slezak (tenore che io amo alla follia)?
        Grazie dello spazio. Mi fa sempre piacere discutere e confrontarmi con voi.

        P.S.: chiedo scusa, non ricordo chi fra voi autori me lo ha consigliato: ho acquistato e ascoltato e riascoltato il Parsifal diretto da Kegel: veramente impressionante; grazie per la segnalazione.

        • Un suono indietro è un suono indietro, e si può riconoscere senza problemi anche dai dischi. E’ vero che il disco può fare anche da lente di ingrandimento e mettere ancora più in risalto certi difetti che in teatro si assorbirebbero meglio, però bisogna prendere atto del fatto che vi sono cantanti che in disco non mostrano nessuna pecca. Quindi chi sa cantare impeccabilmente non ha niente da temere dal disco, almeno in teoria. Quel che dal disco non si può capire è quanto la voce spande: in tal senso il disco è una manna per i beceri cagnacci e per le imposture vocali (servono nomi? spero di no), perché li eguaglia tutti, li innalza allo stesso livello di udibilità di chi utilizza una fonazione giusta. La “democrazia (del disco)” è stata davvero una catastrofe (per la musica ed il canto).

          • Nuovamente siamo d’accordo: chi sa cantare non ha nulla da temere dal disco – forse solo il fatto di, a volte, “suonare” meno bene di chi trucca il suono. E non credo che il disco eguagli tutti: i cani son cani e non ho bisogno di nomi davvero, anche perché la lista sarebbe lunghissima e composta dai soliti noti e notissimi – e richiestissimi e pagatissimi, ahimè. Tutto qui. Non volevo affatto polemizzare ricordando il tuo post sulla Sutherland. Volevo solo argomentare un mio dubbio. Tutto qui.
            Buona giornata.

          • “La “democrazia (del disco)” è stata davvero una catastrofe (per la musica ed il canto)”. Tesi accettabile, ma incompleta. La storia dell’umanità si è sempre divisa tra “apocalittici” e “integrati”; sappiamo tutti che il primo degli apocalittici è stato Platone che nel “Fedro” si scaglia contro la scrittura, distruttrice e degeneratrice dell’eccellenza della cultura orale. Aveva ragione: basti pensare che la scrittura di fatto impigrisce e rischia addirittura di marginalizzare le enormi potenzialità della mente umana al contrario dell’oralità che le esalta. Chi di noi potrebbe più mandare a memoria migliaia di versi dall’Iliade e dalll’Odissea, opere che abbiamo solo grazie a uomini che sono stati capaci di tramandarcele oralmente? Se penso a quanti numeri di telefono ricordavo anche solo 10 anni fa e a quanti ne ricordo adesso che sono a disposizione le agende del telefonino, mi vergogno…e capisco che meno si chiede alle proprie capacità e meno si otterrà. Tuttavia se oggi conosciamo lo stesso Platone e i suoi dialoghi è solo grazie al prodigio della scrittura. Quindi il discorso è giocoforza incompleto: ci ha pensato Derrida che ha parlato della duplice valenza del “pharmakon”-scrittura, da intendere sia come “cura” che come “veleno”. Il disco, come la scrittura, così come tutte le invenzioni che hanno effettivamente reso possibile la condivisione della cultura umana, è dunque sia cura che veleno. Affermare che il disco è solo veleno significa avere una prospettiva parziale.

          • L’analogia che tu proponi tra disco e scrittura non regge molto. Semmai avrebbe senso paragonare la scrittura di un poema con la scrittura della musica su pentagramma. E comunque Platone aveva solo ragione, ovviamente.

  2. Visto che siamo in un blog di musica, definirei stonato l’aggettivo “torvo” per definire la polemica intercorsa per il post precedente, insomma, mi appare davvero spropositato come aggettivo. Per il resto, premetto che ho sempre preferito per gusti personali De Lucia, tuttavia penso che la perentorietà della definizione di Caruso come iniziatore del malcanto non sia problematica per il contenuto in sè, ma proprio per la sua perentorietà. L’arte del canto è arte umana, soggettiva, filtrata sempre da un’individualità e in questo caso consegnata all’ineluttabile “opacità” del supporto tecnologico. Per questo nessuno può affermare che Caruso sia la causa “diretta” del malcanto, mentre si può seriamente ragionare sul fatto che sia stato la causa “indiretta” di una pericolosa personalizzazione dell’arte vocale che, considerato anche l’enorme successo mediatico, ha di certo qualcosa in comune con alcune storture odierne (tra cui può rientrare anche la “baritonizzazione” della voce tenorile), che tuttavia in Caruso rientravano in un discorso più complesso e si riferivano a una qualità che non ha niente a che vedere con le nullità in circolazione, purtroppo tanto spesso osannate. P.S. Comunque il post mi è piaciuto così come l’intervento di lontanodalmondo.

  3. Caro Mancini,
    desidero solo brevissimamente rilevare (nella scia dei saggi e lungimiranti commenti qui sopra pubblicati) che di “amare incomprensioni” e di “torva polemica” non s’è vista neppure l’ombra.
    Si è visto, cioè io ho visto, un maldestro e reiterato tentativo, da parte tua, di far passare come penetranti analisi tecnico-vociologiche palesi ideologismi (pure affetti da un tasso di rancore che certo non ha reso più semplici le cose) che nulla possono avere a che fare con la critica, vocale musicale ecc. ecc.
    Penso che anche tu ne vorrai dar volentieri atto, il post da te ora pubblicato è molto diverso: nel metodo e nella prospettiva.
    Poi uno può essere d’accordo o no (e io concordo con te solo in parte, ma questo è del tutto secondario: il punto centrale è che se scrivi cose del genere si può felicemente e lietamente discutere, arrivando a qualche risultato utile; in caso contrario, la discussione diventa sterile (come a me pare sia in effetti diventata riguardo ad altri tuoi post).
    Ora non entro nel confronto Caruso-De Lucia ma lo farò appena posso (non farlo mi sembrerebbe a questo punto scortese).
    Ciao

  4. Molto utili gli esempi ed anche i commenti, amo sia De Lucia che Caruso, non tutto ovviamente, per il secondo in modo particolare esistono registrazioni francamente imbarazzanti e per il primo sono in mio possesso riversamenti a velocità diverse che ne mutano le caratteristiche di timbro, colore ed estensione (avvicinandolo pericolosamente al timbro baritonale) ferma restando la sua capacità di fare della voce tutto cio’ che voleva.

    Grazie carloguasco

  5. Il Caruso del 1902 a mio parere è un cantante ancora in fase di formazione, che non ha ancora pienamente espresso il proprio potenziale. Neanche a me piacciono i suoi Sol in “Amor ti vieta”, che al mio orecchio suonano sbiancati e spoggiati. Non mi entusiasma neppure l’esecuzione di De Lucia. A mio gusto questa romanza perde abbastanza se abbassata di mezzo tono. Fastidiosa poi quella “i” schiacciata su “esprime”. Mancini cita Schipa, ma a lui non ho mai sentito fare una “i” del genere… Quello non è un suono raccolto, è un suono schiacciato.

    Su “Ideale” le cose vanno meglio per entrambi. Giuste però le notazioni di Mancini sulle “i” di Caruso. A mio parere è comunque un’esecuzione molto bella.
    Grandissimo De Lucia, senza riserve. A voler essere pedante, è sgradevole solo la “e” stretta di “sembiantE” (era chiaramente arrivato corto di fiato).

    “O sole mio” di Caruso invece mi piace tantissimo, voce splendida, grande comunicativa. Sono d’accordo però con i difetti che Mancini evidenzia su alcune sue “e”, mentre la salita al “Ma n’atu sole” mi sembra molto ben risolta, con suono ben appoggiato ed un normale aggiustamento delle vocali (necessario a mantenere omogeneità timbrica) per risolvere quelle note di passaggio.
    L’esecuzione di De Lucia è fantastica, una vera rivelazione, in particolare dal punto di vista stilistico-interpretativo. Un capolavoro assoluto.

    • Si tratta di capire il perché De Lucia sottolinei, esasperi la posizione della i in quella maniera, financo a produrre un suono schiacciato, come tu dici; giacché si tratta di una costante nel suo modo di cantare, e non di una vista isolata. Né possiamo liquidarlo come vezzo stilistico: no, si tratta di una necessità tecnica. E’ funzionale alla preparazione degli acuti, o più in generale al mantenimento della posizione alta del suono. Quella i gli serve per sentire il suono battere “avanti”, evitando che scivoli indietro producendo quel rumore fosco e tarpato che sentiamo nelle i di Caruso. E’ un accorgimento piuttosto scolastico, anche sgradevole da sentire, ma con un suo senso: niente avviene per caso nel canto di De Lucia. Schipa non fa mai la i in quel modo? Evidentemente non ne aveva (più) bisogno, avendo lui raggiungo un equilibrio ed una naturalezza pressoché perfetti nella propria emissione. Potrebbe essersene servito in fase di studio, quando perfezionava il proprio imposto, o forse più semplicemente non ha mai avuto alcun problema ad emettere una i pura e libera sul fiato. Ma non siamo tutti uguali, De Lucia è diverso, lo fa perché gli serve. Per questo è utile segnalarlo, è una dimostrazione di costante consapevolezza tecnica e sorvegliata attenzione vero l’emissione, al di là della sua gradevolezza.

      Su Caruso non sono d’accordo con te, ritengo che il Caruso giovane cantasse assai meglio di quello maturo, la cui voce è il risultato di una ricerca volontaria di colore e volume che finì con l’appesantire tutta l’organizzazione vocale. In “ma n’atu sole” e battute seguenti mi pare che il passaggio sia risolto in maniera tutt’altro che esemplare, si sente che cerca lo spazio “dietro” e che modifica le vocali in modo maldestro. Il passaggio, se eseguito a regola d’arte, non deve sentirsi.

  6. Risposta a Mancini:
    Ma la scrittura come “pharmakon” è un topos filosofico-culturale, è chiaro che non può essere paragonata al disco, se non da un punto di vista paradigmatico! Per il resto, Platone aveva ragione fino a quando non ha scritto i suoi dialoghi (le poesie composte da giovane però le ha bruciate!)… Al contrario del maestro Socrate, che invece non ha mai ceduto… Per non parlare del fatto che per non pochi pensatori successivi proprio loro due rappresentano l’inizio della decadenza occidentale!
    Non vorrei tediare, però un’ultima cosa vorrei dirla: il problema non è il disco, ma l’USO che se ne fa. Come detto, l’arte del canto è arte umana, fragile e contraddittoria, ma capace anche di essere geniale e visionaria: se la gente canta male non è colpa delle registrazioni, ma di quello che sente e che non sente in esse!!! Ben venga, a maggior ragione, una rubrica come questa, con tutte le sue contraddizioni e la sua visionarietà!

  7. Qualcuno ha detto (forse Gatti Casazza o forse no) che Caruso era grande per le tante qualità che aveva senza necessariamente essere il massimo in ciascuna; quindi non erano esclusi difetti , mancanze o cantanti che potevano superarlo per squillo, oppure eleganza, tecnica o altro.
    Comunque di fronte ai difetti indicati in questi articoli, non mi sembra che i partecipanti a questa discussione siano tutti d’accordo nell’ammetterli come tali; e se da semplice ascoltatore che giudica per impressione ascolto Caruso in O sole mio, non noto i difetti denunciati ; così penso che un ascoltatore può anche non accorgersi delle eventuali imperfezioni di Caruso, ma non può non accorgersi delle vocali innaturali di De Lucia che anche qui tutti hanno notato. Per cui, pur apprezzando l’interpretazione di Amor ti vieta resa da De Lucia, metterei in conto, poiché si tratta di un confronto neutrale con un altro cantante, le sue “I” difettose (come bellezza di suono) che qui invece vengono giustificate, il brutto acuto finale dove le vocali sono assai più brutte di quelle definite ingolate di Caruso, e la A di t’amo che è intervocale.
    Apprezzo gli ornamenti fuori stile, la resa espressiva elaborata, e anche l’eventuale poco rispetto dello spartito che fanno parte di una maniera di cantare, ma non includerei Caruso tra quei “limitati virtuosi e poco variegati interpreti”, per i quali la maggiore aderenza alle note scritte potrebbe non essere altro che un’ ultima spiaggia.
    Per l’Amor ti vieta di Caruso invece ho trovato la seguente recensione: “Alla frase La man tua lieve la voce scende nella regione centrale, Caruso fa sentire un colore intenso e sensuale che dà al suo Loris una passionalità sconosciuta sia a De Lucia sia a Giuseppe Anselmi, In più … un impeto affatto nuovi…… capacità di conferire alla pagina una dimensione unitaria, che evita di perdersi in tante miniature vocali, di per sé pregevoli, ma fatali per l’efficacia drammatica del pezzo”; penso quasi che le “I” di Caruso siano intenzionali e concorrano a quel colore intenso e sensuale.
    Al contrario qui le sottolineature timbriche in zona centrale vengono criticate, e si dice che il cantante si auto compiace di talune bruniture (cioè nemmeno interpreta).
    Aggiungo che esiste un Telegramma del 1906 dove Giordano dice che Caruso è stato e sarà sempre il miglior Loris. Caruso almeno dal vivo convinceva. Invece Milka Ternina non volle incidere dischi perché riteneva come altri che nemmeno la voce di Caruso in disco mostrava la sua vera gloria.
    In quanto a “Ideale” di Tosti, Caruso è criticato per non avere capito nulla della romanza. Può essere; Ma Tosti era suo amico, scriveva canzoni per lui , verosimilmente sapeva e approvava come le cantava. Inoltre il cantante, incisa la romanza, ne mandò un disco a Tosti che rispose con una lettera di compiacimento.
    Nell’insieme sono del parere che eventuali difetti di Caruso non potevano essere gravi se non impedirono quei signori già nominati (Puccini, Serafin, Walter) e altri, tutti capaci di ascoltare e giudicare a orecchio non meno di quanto si possa ai giorni nostri, nei loro giudizi favorevoli che testimoniano tra l’altro di un successo che non veniva soltanto dal disco. Aggiungo ancora che probabilmente Caruso non era nemmeno così impreparato come qualcuno può credere poiché la sua compagna era buona musicista e cantante d’opera (oltre che cugina della madre di Del Monaco, ma questo non c’entra nulla).

  8. Caro Alfonso,
    tutto ciò che dici su Caruso, tuoi pareri personali ma anche interessanti dati storici, è condivisibile e arrichisce la discussione. Questo almeno penso io. Poi, a costo di sembrare eccessiva, per mio personalissimo gusto dissento da Giordano: prima di Caruso, come grandi Loris metterei senz’altro Pertile e, un gradino sotto, Galliano Masini. Ma capirai bene che è una questione di gusto – fermo restando, però, che considero soprattutto Pertile un “tecnico vocale” straordinario.
    Condivido con te anche che l’eccesso di maniera di De Lucia può risultare fastidioso. D’altra parte non vorrei che si riducesse il confronto De Lucia – Caruso a una questione di maniera vs. spontaneità; anche perché ciò implicherebbe che Caruso non sapesse bene cosa facesse mentre cantava, e io sono convinta, come te del resto, del contrario: anzi, la mutazione del suo imposto vocale – secondo alcuni evoluzione, secondo altri involuzione tecnica – è segno sicuro del contrario: Caruso pensava quando cantava. Non dimentichiamo che Lauri- Volpi scrisse che Caruso seppe rendere i suoi centri pastosi e rotondi come i suoi acuti (notazione a mio parere interessantissima, in quanto il grande Giacomo non discute il registro acuro di Caruso, anzi; è questo che gli imitatori di Caruso non hanno capito, gonfiando a dismisura i centri a scapito del registro acuto).
    Tengo a precisare che il mio giudizio sull’esecuzione carusiana di “Ideale” è personale ma non epidermico: spartito alla mano, leggendo i segni dinamici, la gestione della melodia e dell’armonia, i suggerimenti agogici mi sento di dire che l’interpretazione di Caruso è troppo, come posso dire, stentorea (ma mi scuso: in questo momento non mi viene in mente un aggettivo migliore). A mio avviso De Lucia coglie meglio il clima del brano. Poi che a Tosti la versione di Caruso piacesse mi spinge a pensare che egli avesse nelle orecchie, beato lui, anche un ascolto dal vivo. Non so. E’ sempre difficile capire esattamente il parere dei musicisti su interpreti loro coevi. Per fare un esempio: Rubini a suo tempo era venerato, ma Wagner lo considerava un’insopportabile capretta belante. Chi ha ragione? Impossibile dirlo.
    Tornando a “Ideale”, come ho scritto trovo in entrambi i casi la salita al la acuto su “aurora” bruttissima, e la penserei così anche se Tosti, a suo tempo, l’avesse avallata. Secondo me la frase è più bella così come è scritta e così dovrebbe essere cantata.
    In ogni caso, di tutto ciò che hai scritto una cosa soprattutto mi ha colpito: il successo di Caruso non può essere considerato solo come fenomeno discografico. E io penso tu abbia assolutamente ragione, anche perché è certo vero che il disco esplose a quell’epoca ma è anche vero che l’influenza del canto carusiano non è poi così evidente nella generazione tenorile immediatamente successiva. Voglio dire: che c’è di carusiano nel canto di Pertile, di Masini, di Schipa – è quasi ridicolo citarlo e intenzionalmente non cito Lauri-Volpi – e di tanti tenori di area tedesca e russa coevi? Poco o nulla. Anche Gigli, che spesso viene indicato come il primo prodotto della maniera carusiana ha poi pochissimo in comune con quello che dovrebbe essere il suo modello. C’è più Caruso in Del Monaco di quando ce ne sia in Gigli.
    Insomma, una volta di più non si può, a mio avviso, indicare uno spartiacque: fin qui si cantava bene, poi da qui in avanti no. La storia della vocalità è fluida, come tutte le storie.
    Ultima notazione: sempre riguardo a “Ideale” le mie riserve le ho esposte ma non volevano minimamente sottointedere che derivino da una supposta pochezza intellettuale di Caruso. Secondo me la sua interpretazione non centra il clima, ma che l’uomo Caruso avesse saputo arricchire le sue umili origini con curiosità e intelligenza è fuori discussione e sarebbe sciocco e pretestuoso negarlo.
    Buona giornata a tutti.

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