Verdi Edission: Aroldo

Giuseppe Verdi, come già avevano fatto altri prima di lui, praticò l’arte del remake sin dal 1847, allorquando per il suo debutto parigino rielaborò, con integrazioni, ampliamenti e modifiche di varia natura, il successo italiano dei Lombardi alla prima crociata, divenuti Jerusalem- E non avrebbe potuto fare differentemente, attese le ferree regole dell’Operà.
Approdare alle scene parigine significava non solo adottare la lingua francese ma assolvere tutta una serie di esigenze drammaturgico-musicali che incontrassero la moda ed il gusto in voga nella capitale. Verdi si ripetè ancora nel ‘57 con la versione francese del Trovatore, Le Trouvere ( per il quale scrisse le danze ed alcune limitate modifiche per lo più per Azucena..), poi nel ’65 con la più estesa revisione francese del Macbeth, destinata ad essere riproposta in Italia ritradotto dal francese nel 1874 e che a tutt’oggi si rappresenta. Viceversa, vi furono opere scritte espressamente per Parigi, come le Vespres Siciliennes o il Don Carlos, sempre nella formula del Gran opéra, che vennero successivamente trasposte entrambe in lingua italiana, il secondo, in particolare, sottoposto nel 1884 ad una sensibile riduzione di numeri atta a conferirgli una dimensione “italiana”. Si trattò di interventi, per alcuni titolo anche minimi, atti a performare un titolo ad esigenze specifiche di palcoscenici diversi. In altri casi, invece, il maestro mise mano a grandi successi, come la Forza del Destino e l’Aida, entrambi in lingua italiana, per motivi estranei alle prassi esecutive in voga da noi o a Parigi, ma legati alla volontà di riequilibrare le due opere, mettendo mano alla parte del protagonista maschile della prima e a quella femminile della seconda.  Il remake di Stiffelio in Aroldo, invece, al pari di quello che Verdi operò sul Boccanegra, prese le mosse dall’insoddisfazione per il lavoro originario, con lo scopo di recuperare un successo mancato. Nel secondo caso Verdi ebbe un tocco di genio, ed il capolavoro di compì nei modi e nelle forme che conosciamo e di cui parleremo più avanti in questa Verdi edission. Con Aroldo Verdi cercò espressamente di compiere un lavoro di miglioramento del soggetto sul piano  teatrale, rinunciando a parte di quel lato innovativo sul piano musicale che aveva connotato Stiffelio. Il remake, però, rimase insoddisfacente al pari della prima versione, in quanto gli aspetti convenzionali che vi introdusse non ebbero la capacità di far decollare l’opera. L’esito apparentemente felice della prime rappresentazioni del 1857 si esaurì presto, e già alle recite napoletane del 1859, a solo due anni di distanza dalla prima, l’insuccesso si ripresentò come per il titolo originario. Con Stiffelio, storia di un pastore protestante tradito dalla moglie, Verdi aveva inteso mettere in scena il percorso psicologico dell’uomo di chiesa combattuto tra gelosia e sentimenti di vendetta da un lato e perdono cristiano dall’altro. Un dramma statico, incentrato sul protagonista, cui gli altri personaggi, compresa la fedifraga sposa, finivano per fare da sfondo, in quanto poco più che abbozzati psicologicamente. Verdi si era spinto a sperimentare soluzioni musicali nuove per questo testo così particolare, ma senza riuscire a confezionare un  prodotto realmente efficace e convincente, quasi una via troppo avanti per i propri mezzi ed il gusto del proprio tempo. Il remake operato con Aroldo, infatti, dimostra questa stessa visione che Verdi aveva del testo originale, tanto che ne andò ad intaccare proprio gli elementi di maggiore originalità, ripiegando su una serie di momenti più convenzionali ma di maggiore efficacia drammaturgica. Il pastore protestante venne trasformato in un crociato di ritorno dalla guerra, quindi un uomo di azione, slegato dai vincoli dell’abito sacerdotale, anche se la condizione di crociato lo rendeva “uomo di Dio”.  Al finale di Stiffelio con il perdono dispensato in chiesa dal pulpito, troppo sintetico ed insoddisfacente, ne venne sostituito uno nuovo dilatato alla durata di un atto aggiunto, con elementi corali, una scena di tempesta ed un terzetto, poi ampliato in quartetto, quale conclusione dell’opera.
La maggior parte delle modifiche dell’opera preesistente si concentrarono sul primo atto, mentre secondo e terzo vennero ritoccati limitatamente a pochi punti, mentre il quarto atto fu aggiunto, come detto, ex novo. Per Aroldo venne scritta una nuova aria di ingresso, da eseguire subito dopo un‘entrata in scena più sintetica rispetto a quella di Stiffelio, quindi dopo il settimino un finale assai più articolato e monumentale di quello, che chiudeva in origine il primo atto. Quindi il quarto atto, con la preghiera a due con Briano e tutto il finale dell’opera, teso a sviluppare meglio il perdono del marito tradito. Il ruolo della moglie, personalità sbiadita in Stiffelio, venne rielaborata in forme forse più convenzionali, ma maggiormente efficaci sul piano drammaturgico. In ossequio alle formule tradizionali, le venne composta una scena di preghiera alla sortita, con l’enunciazione dei temi chiave del personaggio, in luogo del settimino introduttivo presente in Stiffelio, quindi aggiunta una cabaletta dopo l’aria del secondo atto, quindi alcune modifiche di natura strettamente drammaturgica, come la scena della lettera di confessione prima del duetto con Egberto o certi passaggi del duetto del III atto con Aroldo, che ne fecero un personaggio più reattivo e forte drammaturgicamente e vocalmente. Rispetto alla scrittura di Lina, la nuovo protagonista femminile, Mina, riformulò il suo rodato soprano drammatico di agilità, secondo i modelli precedenti, e di fatto, l’ultimo soprano verdiano con passi virtuosistici.  Sostanzialmente invariato il passaggio del ruolo baritonale di Stankar in Egberto e ridotto quello di Jorg in Briano, a favore di passi corali, come nella scena introduttiva dell’opera.
Un compromesso operato su un‘opera non ben riuscita non poteva dare luogo ad un capolavoro, e così fu, come la storia delle rappresentazioni del titolo dimostra. L’età moderna lo ha riproposto in alcune occasioni, solo eccezionalmente con un’alta qualità esecutiva, in scia agli studi filologici novecenteschi, mentre il XIX secolo lo accantonò rapidamente come già altri lavori della giovinezza e dell’età di mezzo di Verdi. Aroldo consente, però, di leggere il modo di Verdi di giudicare se stesso ed il proprio lavoro. Il Ballo in Maschera era alle porte, la trilogia popolare ed i Vespri ultimati, il Boccanegra prima versione ultimato: Verdi giudicò lo Stiffelio recuperabile soltanto facendolo riaderire ad una maniera precedente, ormai per lui conclusa dato quello che di lì a poco avrebbe prodotto. La prassi antica della rielaborazione era ancora valida alla metà del secolo, impresari e pubblico la ammettevano come normale attività di un compositore intorno alla propria opera che, per quanto rielaborata, acquisiva comunque i crismi della novità e dell’originalità. Solo all’interno delle regole dello “stile” di un opera si potevano ritrovare i procedimenti  per la riorganizzazione del nuovo testo migliorato e di qui le modalità operative del compositore. L’ispirazione tratta da soggetti più sicuri, consacrati dalla letteratura e dall’esperienza teatrale che da Rossini progrediva sino all’età dio Verdi, in questo caso il “Bethroyed” di Walter Scott ai cui testi tante volte i librettisti d’opera avevano attinto per via dei suoi mix sicuri e rodati elementi romantici, nonché il ricorso alle rodate ma sicure formule di numeri chiusi solistici a cabaletta, scene corali e descrittivismo romantico sono la prova del mestiere consumato del compositore che però, sul piano delle idee musicali, non aveva la straordinaria capacità di un Rossini di trarre da una capolavoro un capolavoro ancora più grande ad ogni rimaneggiamento. Del resto era la ricerca stessa di Verdi verso una nuova forma di teatro drammatico, il lavoro incessante operato sull’evoluzione della “parola scenica” ponevan o a Verdi problematiche teatrali sconosciute ai musicisti che si erano mossi all’interno della matura del belcanto maturo o tardo.

 

Giuseppe Verdi

Aroldo

Aroldo – Gino Penno
Briano – Ugo Novelli
Mina – Antonietta Stella
Egberto – Aldo Porti
Godvino – Gustavo Gallo
Enrico – Valiano Natali
Elena – Nada Paolo

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino

Direttore d’orchestra: Tullio Serafin

Firenze, Teatro Comunale, 3 Giugno 1953.

http://www.todoperaweb.com.ar/musica/opera/verdi-aroldo-id-3920.html

Maria Callas

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Carlo Bergonzi

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6 pensieri su “Verdi Edission: Aroldo

  1. Premesso che, secondo me, le vicende del Verdi “francese” non sono limitate all’esigenza di aderire a certe regole convenzionali (che sicuramente ci sono, nell’imposizione degli episodi danzanti, soprattutto), quanto, piuttosto, alla possibilità di perseguire nuove e più complesse modalità espressive – ricordiamo lo stato di forzata arretratezza che ancora inchiodava l’opera italiana al melodramma del primo ‘800 e ad una dimensione artigianale, laddove in Francia interpreti, pubblico e interventi censori avevano assai minore influenza sul lavoro del compositore – credo che Aroldo segni proprio il “capolinea” di una certa idea di opera. Verdi – come dice giustamente Giulia – ricorre alla pratica del “remake” e vi ricorre esattamente come avrebbe fatto Rossini o Donizetti (in modo assai diverso, cioè, da come avrebbe fatto con quel Don Carlo reso un capolavoro proprio dalla revisione che l’ha liberato dagli orpelli del grand-opéra, grazie soprattutto alla raggiunta maturità musicale del compositore). Con esiti fallimentari. La base di partenza non era buona: il malriuscito tentativo di realizzare un dramma borghese incentrato sul canto di conversazione (che Verdi padroneggerà solo in Falstaff). Non piacque e se ne diede la colpa al carattere innovativo, così Verdi cercò di rimediare proponendo al pubblico un polpettone storico d’altri tempi. Evidentemente si sbagliava: Stiffelio è un lavoro maldestro e irrisolto che cadde non perché “rivoluzionario” o “provocatorio”, ma perché musicalmente e drammaticamente debole. Ovviamente le cose non migliorano con la trasformazione in Aroldo, dove quella che è una banale vicenda di corna (e di scemenza maritale), viene peggiorata e resa ancor più incredibile (e involontariamente comica) con una posticcia ambientazione all’epoca delle crociate che non può non richiamare alla mente certi film di serie B della commedia all’italiana (in stile “Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda” o “Alle dame del castello piace fare solo quello”). Con l’aggravante – e qui sta l’equivoco in cui è incorso Verdi – di riciclare formule abusate e vecchie che, ormai, non avevano alcuna presa sul pubblico: tanto che l’opera non ebbe il successo sperato. Le sfortune di Aroldo dimostrano come certe convenzioni e certe ambientazione non avevano più senso: il pubblico italiano era sì costretto ad una maggiore arretratezza musicale (per vari motivi storici e politici), ma non era composto da babbei….vedersi propinare nel 1857 un lavoro che pare uscito dalla penna del peggior Pacini o Mercadante, era davvero troppo!

    • Traviata è un’opera a numeri chiusi, con arie e cabalette, pezzi concertati e strette. Il canto di conversazione è ben altro e tutt’altra cosa…oggettivamente. Certo ce n’è qualche minuto nelle scene di festa (come all’inizio di Rigoletto). Ma nulla di più. Il canto di conversazione si imporrà in Italia solo con Puccini, Verdi lo padroneggia solo in tarda età, Bellini, Donizetti e men che meno Rossini, neppure sanno cos’è (ed è ovvio che sia così, appartenendo al altra generazione).

  2. Bergonzi è splendido, per carità, e questa è probabilmente la migliore tra le poche incisioni esistenti di questo brano, però qui è veramente troppo divertente la “essce” parmense… qui evidentissima. Per il resto, bravo commendatore!

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