Teatro alla Scala: “Siegfried” senza attenuanti.

Per un attimo ci avevo creduto.
Per un attimo avevo sperato che dopo il “Tristan”, Barenboim, avesse azzeccato la sua direzione più riuscita, dopo anni di mediocrità assortite, proprio con questo “Siegfried” che nella diretta radiofonica mi aveva fatto ben sperare, soprattutto alla luce di un suono orchestrale che sembrava molto migliore e maggiormente attento e curato rispetto a precedenti flaccide serate.
Ma quando mai!
L’ascolto dal vivo, alla seconda recita, dimostra impietosamente, quanto già si era compreso: dopo attenta analisi l’attuale Barenboim, soprattutto alla luce di quest’ultimo “Siegfried” scaligero,  dimostra di essere un direttore di incommensurabile modestia.
Barenboim, oltre ad essere l’ombra del direttore d’orchestra che fu negli anni ’80 e ’90 (almeno in Wagner) oggi non è nemmeno assimilabile alla stirpe  dei “battisolfa” soprattutto perché loro, pur nella loro routine, riuscivano a dominare l’orchestra,  ad imporre un tempo ed un volume quantomeno coerente tra il golfo mistico ed i cantanti, riuscivano, e stiamo parlando di basi tecniche, a riacchiappare i cantanti se andavano fuori tempo!
Ognuno fa quel che vuole nella buca e sul palcoscenico in piena anarchia e sciatteria di intenti.
E’ triste ed angosciante ascoltare il clarinetto stonare sistematicamente tutte le note; ancora più squallido è ascoltare il suono così vetroso, fisso, sgradevolissimo, calante dei corni, delle trombe, dei tromboni senza che Barenboim faccia nulla, NULLA, per correggerli o curare la qualità sonora, avvallando invece un orrore simile soprattutto nell’assurdo caos della “scena della forgiatura” dai tempi così sbrindellati da far annaspare  i cantanti in un profluvio soffocante di decibel, oppure tutta la scena del “mormorio della foresta” o della lotta con Fafner, in cui se non ci fossero gli archi ed i flauti a tamponare le stonature degli ottoni, non si creerebbe nemmeno l’atmosfera eterea cercata da Wagner.
Apice di tale risultato è il corno fuori scena che dovrebbe “doppiare” quello di Siegfried nel II atto: dopo due note ecco pronta l’immancabile stecca che fa fermare l’azione per una decina di secondi e riattaccare peggio di prima. Ripeto: che inaudita sciatteria.
Insomma, per il livello turistico in cui si è voluta trasformare la Scala, con signori giovani (pochi) e meno giovani (la maggior parte), che, generalizzando, non conoscono nemmeno la trama di ciò che guardano e ascoltano, Barenboim è, dunque, perfetto.
Per contrasto abbiamo invece legni, archi, questi ultimi con qualche lievissima sbavatura che nulla toglie alla bravura ed alla compattezza, e soprattutto fiati dal suono più intenso e preciso, che possiedono una musicalità ovunque attenta, un fraseggio finalmente poetico e sfumato che onora i momenti più distesi soprattutto del secondo e terzo atto.
Tra i più riusciti sicuramente il tesissimo duetto Alberich-Wotan in cui le note gravi echeggiano davvero notturne e minacciose; i monologhi di Siegfried sotto al tiglio che galleggiano malinconici e limpidi; la tempesta con la quale si apre il III atto carica di disperazione e tutto il duetto finale condotto verso un esaltante crescendo.
Piccola parentesi: non sapevo che agli orchestrali scaligeri, per contratto, fosse concesso un placido sonnellino sul posto, come novelle Brunnhildi in attesa del bacio dell’eroe,  quando non sono chiamati a suonare il loro strumento!
“Heil dir, Sonne! Heil dir, Licht!” cari signori! Scusate se vi disturbiamo, ma vi ricordo che siete sul luogo di lavoro.

Lance Ryan interpreta perfettamente un Siegfried nato dal Siegmund di Simon O’Neill e dalla Sieglinde di Waltraud Meier: l’uno bolso e legnoso, l’altra in decadenza.
La proiezione della voce non maschera la piccolezza di uno strumento rozzo e poggiato solo su corde vocali che la natura, ma non la latitante preparazione tecnica, ha reso robuste solo per “reggere” i primi due atti di Siegfried; perché al terzo la voce, ormai provatissima, abbandona il cantante che cerca di fare quello che può  per “sopravvivere”, ma non cantare, il monologo prima del risveglio della Valkiria ed il micidiale duetto finale.
Eroico? Nemmeno per idea. Il timbro è praticamente assimilabile a Mime al pari di predecessori quali Manfred Jung, Wolfgang Schmidt, John Treleaven, Christian Franz, di cui eredita anche i difetti: musicalità zoppa, apertura delle vocali tese allo spasimo, fissità e ballamenti assortiti al centro, registro acuto spinto, falsettante, indietro, vociferazione al posto di vero canto.
Durante la forgiatura di Nothung si rifugia dietro alla scenografia per bere acqua… mi fermo qui.
Insomma il suo unico pregio è resistere due atti… e Storey è dietro l’angolo pronto per il “Crepuscolo”.
Il Mime interpretato da Peter Bronder possiede una voce più proiettata rispetto a quella del suo figlioccio; ma è fastidiosa l’emissione sempre diversa con la quale accenta ogni parola, rendendo il suo canto perennemente frastagliato, vuoti i suoi acuti, appena appena toccati o indietro, traballante il registro centrale e caricaturale, tanto da trasformarlo nella solita macchietta ciangottante, il fraseggio ben poco approfondito.
Vitalij Kowalijow era piatto, grigio e monotono nella “Walkure”: Terje Stensvold, il Wanderer, che sembra davvero la versione anziana del suo del suo predecessore, si adatta ed eredita tale monocromia, tale accento noioso.
Va bene: non ha un’ età più fresca e la tecnica non maschera affatto una voce dal timbro impastato, parecchio affaticato, che risuona solo al centro mentre in alto ed in basso tende a forzare, mandare la voce indietro o a sparire inghiottito dall’orchestra; ma non ha nemmeno un fraseggio così idiomatico da renderlo credibile, per quanto si sforzi con il solo registro centrale di trasmettere una certa autorevolezza.
Il terzo atto poi è praticamente giocato in difesa, tutto accennato e allo sbaraglio per quanto attiene l’intonazione.
Insulso il Fafner formato “lucertolina” di Alexander Tsymbalyuk; dura, gorgogliante l’Erda di Anna Larsson che canta sembrando raffreddata; l’uccellino di Rinnat Moriah, come scrissi, giustifica l’apertura della stagione della caccia.
Pesante pietra di paragone per tutto il cast è certamente l’Alberich davvero notevole del baritono Johannes Martin Kraenzle.
L’emissione non è elegantissima, e gli acuti vibrano leggermente pur mantenendo l’intonazione, ma è solida, così la voce è timbrata, sonora e penetrante nei registri; ed è un piacere, e lo dico davvero, ascoltare finalmente un Alberich che non bercia, non parla, non inventa note, non urla, non vocifera rozzamente, non bestemmia per cercare un fraseggio che non esiste: Kraenzle canta tutto, interpreta il beffardo e disperato cinismo di Alberich senza strafare, fidandosi di Wagner e delle sue possibilità vocali, esprime la brama febbrile scavando nella chiarissima dizione. Gli perdono qualche rantolo “espressivo” che potrebbe evitare, ma mi associo al meritato successo personale che ha ottenuto.
Nina Stemme, Brunnhilde, trionfa anche stavolta. Ho già scritto i suoi pregi ed i suoi difetti nella precedente recensione di “Sorella Radio” che anche dal vivo confermo: aggiungo solo che il tremulo passaggio di registro sulle note Fa-Sol non è risolto e che il registro grave è spinto e gonfiato, come la voce che si assesta tra gola e bocca; eppure l’accento è giusto ed è molto buona la scelta di trasformare Brunnhilde in una Sieglinde (ruolo ben più adatto a lei) turbata, insicura, ma profondamente materna, lirica, dolcissima. Il registro acuto, da sempre problematico, stavolta pare leggermente più sicuro, così i La, i Si ed i Do suonano piccoli e ghermiti, come c’è da aspettarsi da una voce del genere, ma almeno ci sono.

Inconcludente, superficiale, insignificante, come sempre, l’allestimento di Guy Cassiers, che conferma di non essere un regista, ma un elettricita di luci e proiezioni buone per tutti gli usi.
Lo scavo dei personaggi si assesta su quattro gesti: cammina lentamente o velocemente, fermati, stenditi, agita tutto quello che hai in mano.
Nothung non viene nemmeno forgiata, ma presa bell’e pronta da una mensola…
Non c’è null’altro, se non scene insignificanti come la grotta di Mime, affine ad una discarica di spade, con il riciclo della rocca delle Valkirie in salsa “cubista”, vista nella giornata precedente, e qui trasformata in uno scomodo sgabuzzino di grate, gradini e gabbiette; la foresta di Fafner ridotta a negozio di tende con perline per la casa al mare e dotata di inutili ballerini che giocano prima alla “Bella lavanderina”, strizzando a destra e a manca un enorme lenzuolo che vorrebbe concettualmente rappresentare il dragone, e poi con le copie di Nothung disegnando il “cinque di spade” in varie fogge intorno a Siegfried: patetico.
Superflua la deambulante “fida ninfa” che sostituisce l’uccellino: perchè non affidarla direttamente alla cantante invece di prendere l’ennesimo mimo?
Imbarazzante poi la roccia dove sogna la povera Brunnhilde, la quale dovrebbe rappresentare una candela “sciolta”, ma che in realtà sembra qualcosa di molto, molto meno poetico…
I costumi sono coerenti allo stile della discarica del primo atto, tranne quelli di Erda e Brunnhilde travestite da Gothic-Girls.

Al termine una manciata di applausi per tutti, molto calore per la Stemme, e qualche contestazione nei riguardi di Bronder e dei ballerini.
Teatro pieno e con qualche posto vuoto in platea e sui palchi: durante il III atto un po’ più evidenti.
Wagner non abita in Scala, e “Lohengrin”, caro Barenboim, è dietro l’angolo…

 

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18 pensieri su “Teatro alla Scala: “Siegfried” senza attenuanti.

  1. strano che all’ascolto per radio o per tv l’orchestra ha suonato abbastanza bene,e anche il direttore ha fatto una buona figura,e poi dal vivo è tutto diverso,probabilmente quella sera della recensione di Marianne l’orchestra ha suonato male,d’altronte non è possibile Marianne, sbagliarsi cosi in tanti quella sera per radio o per tv..la scenografia per televisione penso che era piu valorizzata dal gioco di luce,come il fuoco che avvolge la rupe..
    magari dal vivo era una scemenza

  2. c’ero anch’io…il successo é stato superiore a quello descritto dalla Signora Brandt. La Stemme é stata brava, temo che era dai tempi della Nilsson che alla Scala non si sentiva una Brunilde decente. Proprio perché lei é più una Sieglinde la sua prova va ricordata. Ryan migliore dell’ultimo Siegfried scaligero (cioé Schmidt) e tenuto conto della sua prestazione in Carmen temevo peggio. Invece era migliore che nel Siegfried di Firenze. Effettivamente Bronder (anche perché dotato di una voce troppo simile a quella di Siegfried come faceva notare la Signora Brandt ha un po’ annoiato). I bassi compreso Alberich erano buona routine. La Larsson mi é piaciuta. Barenboim é stato vigoroso. Della regia non ho capito un tubo anche questa volta…scenografia modesta tanto.

  3. Ora…siete diventati proprio troppo buoni…Nina Stemme TRIONFA???!?!?!?!?!? Era dai tempi della Nilsson?!?!?!?!?!?
    1) Nina Stemme non ha il tonnellaggio vocale e le doti naturali per affrontare Brunilde…Figuriamoci poi tutte le eroine pucciniane che ha interpretato…Andrebbe sì e no bene per Elsa…
    2) Nina Stemme è un coacervato di lacune tecniche che esemplificano la condizione del “cantante” attuale (potrei fare un discorso simile per la Netrebko): ingolare il centrale per scurirlo e renderlo più papabile sul disco. Tanto nelle registrazioni un timbro brunito anche con voce da zanzara risuona come un oceano di voce. Fra le numerose conseguenze: gli acuti (nei rari casi in cui non vengono steccati/strillati) sono inudibili e spoggiati.

    • Cara Kirsten, aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaamen!
      sacrosanta verità su una mezza cantante MAI esistita, che si è malamente riciclata in wagner dopo i disastri verdiani. manca l’abc per essere una professionista corretta. l’abc!

    • 😀
      La Stemme alla seconda recita a cui ho assistito è stata la più applaudita del cast, questo è il suo trionfo.
      Le lacune tecniche le ho sempre descritte sia nella recensione di “Walkure” sia in questo “Siegfried” 😉 Ho solo sottolineato che il suo accento, nonostante le evidenti lacune, personalmente l’ho trovato adatto.
      Anche per me, come scrissi allora, Brunnhilde resta un ruolo che non avrebbe dovuto cantare, restando magari in zona Sieglinde-Elisabeth.
      MAI l’ho paragonata alla Nilsson, e MAI lo farei: questo è un pensiero di Albertoemme, non il mio 😉

        • Ok…;) allora per fortuna non vi siete troppo abituati ai recenti disastri wagneriani tanto da perdere lucidità 😉
          Comunque tra un disastro ed un altro ma ben venga la Theorin…che è assolutamente priva di ogni capacità di controllo vocale…una strillona pura e semplice…ma almeno mi sembra meno artificiosa e più udibile della Stemme…certo non parliamo di una cantante ma fra un urlo udibile e un ingolamento pretenzioso preferisco il primo :)

          • Dopo avere assistito a una Valchiria a Monaco (in luglio) e a un Sigfrido (ieri) con la Theorin nei panni di Brunilde mi chiedo: di che droghe fai uso, Kistenthebest, per scrivere amenità come quella che la Theorin sarebbe più udibile della Stemme, dato oggettivamente falso?

            Ulisse

  4. Ero alla recita di domenica e non penso cose diverse da Marianne. Forse Barenboim non mi è sembrato tanto male, benché alcuni scollamenti tra buca e palco si siano sentiti. A volte i tempi mi sono sembrati eccessivamente lenti, mentre ho trovato molto bella ed intensa l’orchestra alla la fine del terzo atto. Sul fatto di “riacchiappare i cantanti se andavano fuori tempo” sarei più clemente con il direttore poiché recuperare il tenore, così amusicale da ceffare il tempo anche nel battere sul’incudine, sarebbero stati tentativi sprecati…Anche stavolta, mi sono fatta redarguire dai vicini per averlo buato…. La Stemme mi ha sorpreso positivamente, pur non reggendo il confronto con nessuna delle grandi di un tempo per tecnica o per voce. Dopo aver ascoltato i suoi Wesendonk Lieder del Festival di Salisburgo di questa’anno, dove mostrava una voce scura ed ingolata non pensavo sarebbe riuscita a cantare Brunnhilde, ed invece, ha saputo schiarire la voce, alzare la posizione del canto, alleggerirla e dare intensità e vita ad un personaggio toccante per trepidazione e slanci amorosi. Con la Stemme, Alberich ha svettato sugli altri, tutti disastrosi la Larsson in testa !. Lo spettacolo è stato brutto, forse meno di Valchiria, ma brutto . Non so a che si riferisce Marianne parlando del “poco poetico” della roccia di Brunnhilde, a me è parsa trafugata dal cimitero monumentale :)

  5. Per comprendere al meglio il direttore Baremboim, basta ascoltare la sua registrazione effettuata, anni or sono, del Matrimonio Segreto, ora ristampato da una sottomarca della Naxos.
    Mai un opera gioiosa fu resa al peggio. Non mi meraviglio più di nulla. Baremboim non lo ascolto neanche aggratis!

    • Credo abbia recensito il “Siegfried” diretto da Clemens Kraus, o Knabbertsbusch o Solti ascoltato in sottofondo allo spettacolo della Fura dels Baus, e poi lo ha fatto passare per quello apparecchiato da Barenboim.
      Che lei veda e senta cose che voi umani… è palese, ma da sempre 😀

  6. Ho seguito il terzo atto da un posto di seconda galleria molto laterale (a sinistra). La Theorin è risultata quasi sempre inudibile, fortunatamente perché quando ha spinto per fare sentire gli acuti mi è sembrata emettere suoni a casaccio. Francamente, Nina Stemme non avrà una voce perfetta, ma non le si può certo rimproverare una carenza di senso e cura della parola scenica che non è mai, dico mai, affettata o ‘pretenziosa’ che dir si voglia. Inscì aveghen!

    U

    • conosco theorin solo dagli audio. A me pare uma gridona orribile. Però dicevano avesse grande voce…..bene, nemmeno quella. Si, meglio la stemme…..non si fa prendere la mano dalle urla inconsulte…..mah…

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