Aspettando il cigno, cuciniamo con l’oca. Prima puntata: Lohengrin in francese… e l’oca ripiena

E siamo così giunti anche quest’anno alla vigilia dell’inaugurazione scaligera.
La stampa, per portarsi avanti con il “lavoro”, ha già iniziato a bruciare i rituali incensi, intrattenendo, anzi ammonendo i lettori circa la necessità di accostarsi al 7 dicembre con animo puro e candido e orecchio del pari inesperto, se possibile del tutto vergine, quasi che Lohengrin fosse un’opera nuova o uno di quei titoli caduti nell’oblio pochi mesi dopo la prima rappresentazione assoluta e riesumati, per intuibili ragioni, dal divo, invariabilmente discografico, di turno.

Insomma ci si dovrebbe accostare alla mensa del Piermarini digiuni di qualsiasi ascolto preliminare, quasi che nel tempio del c.d. massimo teatro ambrosiano si compisse un mistero non inferiore a quello eucaristico. In difetto di siffatte precauzioni, del resto, la sacra mensa rischierebbe di assomigliare al refettorio del collegio Pierpaolo Pierpaoli.
Quelli della Grisi (i soliti guastafeste, chioseranno alcuni)  non ci stanno e propongono, come già gli scorsi anni, il loro percorso di avvicinamento e preparazione alla première wagneriana.
Lohengrin è un titolo che ha sempre incontrato il favore dei grandi cantanti non meno che quello delle grandi bacchette, e la pratica di tradurre le opere straniere nell’idioma locale è rimasta in auge almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. Per queste ragioni, la discografia a 78 giri (la sola in grado di documentare un canto wagneriano distante dalle urla scomposte e dalle contrazioni di gola, che connotano buona parte delle documentazioni fonografiche successive alla seconda guerra mondiale) offre un buon numero di registrazioni in lingue diverse dal tedesco. Abbiamo quindi pensato di proporre una serie di versioni “tradotte” del Lohengrin e di abbinare a ciascuna un piatto della tradizione culinaria europea. Sul significato e la scelta dei menu proposti a corredo degli ascolti rimando all’introduzione dell’amico Donzelli, chef ufficiale del sito.
Questa prima puntata è dedicata a una selezione in lingua francese. Verrebbe quasi voglia di offrirli senz’altro commento, perché in pochi casi come in questo è sufficiente ascoltare per capire che cosa possa e debba essere il canto wagneriano, questa chimera del panorama lirico, che negli ascolti proposti rifulge in tutta la sua grandezza. Il segreto è sempre lo stesso: canto sul fiato, da cui derivano legato, capacità di cantare piano, smorzare e rinforzare a ogni altezza, squillo sugli acuti, pienezza timbrica ed esattezza di “giro” della voce nel registro centrale. Oltre che precisione e limpidezza di dizione, assolutamente fondamentali in un’opera di fatto dominata dal canto di conversazione. È vero che quasi tutti i cantanti proposti sono autentici colossi del canto francofono, e che alcuni di questi (Georges Thill e Fernand Ansseau su tutti) sono assistiti, oltre che dalla sapienza tecnica, anche da un timbro spontaneamente bello, quanto mai adatto a dar voce a personaggi di nobile stirpe, quando non semidivini (del resto l’opera spazia con imparzialità dal Dio cristiano al Pantheon germanico). È però ascoltando artisti oggi dimenticati come Louis Richard (baritono belga, membro della compagnia stabile presso la Monnaie di Bruxelles) che si coglie una qualità media della preparazione del cantante, in nulla paragonabile a quella che riscontriamo, o meglio NON riscontriamo, in capo ai blasonatissimi – e che quindi dovrebbero essere del pari bravissimi, anzi eccellenti e insuperabili – beniamini delle multinazionali del disco.

L’unico vero motivo di rammarico è dato dal fatto che per alcuni brani dell’opera (ad esempio il primo monologo di Lohengrin e l’aria del secondo atto di Elsa) non siano disponibile registrazioni in lingua francese, che permetterebbero di rendere un poco più completa questa autentica galleria di meraviglie sonore. Ma per fortuna altri idiomi, come vedremo nei prossimi giorni, sono stati più propizi ai ringraziamenti al cigno gentile e alle aurette invocate dall’erede di Brabante.

 

Il cigno è un palmipede. I suoi parenti più prossimi sono l’anatra e l’oca. Siccome ci hanno raccontato che non vedremo il cigno, consoliamoci con il parentado.

Oca ripiena

Chi volesse credere che la cucina sia un’attività che richiede un intelletto superiore e capacità organizzative e forza lavoro da grande industria deve leggere la ricetta dell’oca ripiena di Paul Bocuse. Un lavoro immane, una sorta di Tetralogia culinaria per il dispendio di energie.

L’oca ripiena per le festività natalizie è molto diffusa non solo in Francia, ma anche nelle terre lombarde dove l’eredità della tradizione austro-ungarica e prima ancora della cucina rinascimentale rende frequente l’utilizzo di frutta sia fresca che secca per confezionare il ripieno dell’oca. La carne d’oca si sa è piuttosto grassa e le frutta servono a rendere il piatto assai meno indigesto

 

Un’oca intera accuratamente spiumata, fiammeggiata e nettata di tutte le interiore (compreso il prezioso fegato, anche se nelle nostre terre non si usa il cosiddetto fegato grasso), rimosse ovviamente testa, collo e zampe.

Due mele ranette peso almeno mezzo chilo una volta sbucciate e private del torso.

300 gr di marroni già arrostiti

200 gr di prugne secche ammollate (magari in sostanza  alcoolica )

200 gr di uvetta secca (almeno 100 di quella di Corinto che è piccolissima, ma molto dolce) ammollata.

Per entrambe almeno due ore di ammollo

Una noce di burro

Optional un cucchiaio di zucchero o di miele

La buccia di un limone o di una arancia accuratamente grattugiata

 

Una volta predisposta l’oca e dopo essersi assicurati che sia ben pulita ed asciugata all’interno  in una capace padella far sciogliere il burro, aggiungere le mele alzare la fiamma ed aggiungere uvette e prugne. Il calore ed il burro le faranno gonfiare improvvisamente aggiungere da ultimo i marroni e volendo sfumare con la sostanza alcoolica in cui ammollate prugne ed uvette. Aggiungere la scorza grattugiata dell’agrume.

Lasciar raffreddare il tutto e riempire dal retro l’oca.

Cucire con ago e filo le aperture anteriori e posteriori dell’animale.

Porre in una capace pentola con possibilità di coprire, aggiungere  una sostanza grassa (burro o il grasso dell’oca stessa accuratamente tritato) e far rosolare  l’oca.

Cottura a fuovco lentissimo continuando ad irrorare con il grasso che l’oca lentamente emette la carne stessa, in particolare il petto, che facilmente risulta stopposo ed asciutto.

Anche qui utilizzare solo una piccola parte del condimento che l’oca rilascia dopo averlo deglassato con marsala o cognac.

 

Accompagnamento canonico altre mele ed altre castagne cucinate nel grasso dell’oca, oppure patate arrostite sempre nel grasso dell’oca.

Domenico Donzelli

 

Gli ascolti

Wagner – Lohengrin

Atto I

Dank, König, dir, dass du zu richten kamstLouis Richard (1931)

Einsam in trüben TagenFélia Litvinne (1905), Germaine Lubin (1929), Ninon Vallin (1930)

Atto II

Erhebe dich, Genossin meiner SchmachMartial Singher e Marjorie Lawrence (1933)

Elsa! Wer ruft?Marjorie Lawrence e Yvonne Brothier (1933)

Atto III

Das süsse Lied verhalltGeorges Thill e Germaine Martinelli (1936)

Atmest du nichtCharles Rousselière (1904), Fernand Ansseau (1924)

Höchstes VertraunFernand Ansseau (1924)

In fernem LandAugustarello Affre (1909), Paul Franz (1921), Georges Thill (1930)

Mein lieber SchwanPaul Franz (1921), Georges Thill (1930)

 

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21 pensieri su “Aspettando il cigno, cuciniamo con l’oca. Prima puntata: Lohengrin in francese… e l’oca ripiena

  1. Grazie dello splendido articolo e dell’interessantissima ricetta; in cucina me la cavo sopratutto coi dolci, ma la terrò sicuramente in considerazione. Mi riserverò, anzi, questi ascolti meravigliosi (ho un po’ “spizzicato” qua e la, perchè non resistevo alla tentazione di un Wagner finalmente BELLO anche per un appassionato, ma non fanaticissimo), per il momento della cucina, potranno sicuramente aiutarmi e rilassarmi.
    E così inizia una nuova Odissea (a fine tragico, probabilmente) verso il 7 Dicembre…non vedremo cigni, non ascolteremo Wagner…ma questa, si sa, è l’opera di oggi. Per così chiamarla, “opera da intuire” 😉

  2. Tra i ricordi più belli della mia ormai remota gioventù, un LOHENGRIN in italiano (se la memoria non falla doveva essere il 1974…) al Teatro Verdi di Trieste, diretto dal compianto M° Patané.
    Nel cast Giacomini, Maria Chiara, Bianca Berini, Silvano Carroli, Mario Rinaudo e quale Araldo il giovane Antonio Salvadori.
    Non era nemmeno una inaugurazione, ma uno spettacolo così come altri nel corso della stagione lirica.
    Devo decidermi a masterizzare le vecchie cassette audio, sperando che ne scaturisca ancora qualcosa.
    E’ pur vero che ormai non ha importanza in che lingua si canta ma come si canta, però io sono ancora illuso che potremmo con voci latine, non dico SOLO italiane, ricavarne una bella versione nella nostra traduzione ritmica che, sarà anche la nostalgia, a me è sempre parsa assai bella e romantica.
    Di certo che, andando ora alla Scala, di Till & C. ce ne dobbiamo scordare. Prevale la “tecnica del polpaccio”, non “del capezzolo” come in altri casi, e ad un Lohengrin de’ languori (che in questo allestimento, secondo me, ha un suo perchè e che affascinerà i tre sessi) si contraporrà un’Elsa degli spiriti, grazie alla regia di cui, però, non voglio anticipare nulla. Scrivo solo due aggettivi “pretestuosa” ed “intellettualoide”. Per certo, piacerà a tutta la critica che conta. Uno due tre quattro cinque … :-)

      • Caro Fleta, confesso tra l’altro di avere un debole, tutto ispanico, per il tuo “omonimo” di cui ieri sul mio profilo di feisbuc ho caricato le registrazioni di Lohengrin del 1926, dove è semplicemente divino.
        Immagino che gli amici “Grisini” continueranno nell’esemplificare anche con gli spagnoli e gli italiani (il sublime Pertile lo metterei tra i primi).
        Certo, la macchina del tempo non l’abbiamo e dovremo fare di necessità virtù (assai poco virtuosa) ascoltando Kaufmann che, onestamente, nel terzo atto e dal vivo, complice una direzione che gli serve la parte sul classico vassoio d’argento tenendo l’orchestra al di sotto dell’udibile e per un’aderenza straordinaria e fisicamente insostituibile al pensiero del regista, io che l’ho sempre avuto in uggia l’ho per una volta ammirato.
        Con ciò non voglio tirarmi addosso tutti gli anatemi possibili ed immaginabili, ma certo è un LOHENGRIN, questo in arrivo, che per merito soprattutto di Barenboim e della bella prova dell’orchestra e del coro, è meglio di quanto si sente abitualmente ai nostri dì.
        Viceversa sono stufo di dover sforzarmi a capire cerebralità che secondo me non sono chiare nemmeno agli autori stessi dello spettacolo: basta leggere le “note di regia” e quelle del “drammaturgo” pubblicate sulla pagina web del Teatro per avere un anticipo della confusione che hanno in testa e che trasmettono puntualmente al pubblico.
        Il quale, entrando nella normalità che non siamo “noi” e di cui io cerco sempre di tener presente le umane esigenze, si troverà nella maggioranza di fronte a un’opera che non conosce o non ricorda, che troverà lunghissima (il secondo atto si avvicina all’ora e mezza), cantata in tedesco, con una trama apparentemente semplice ma che si rifà a degli antefatti che sfuggono ai più e dove dovrebbe riconoscerne musicalmente i temi conduttori. Tutto ciò dovrebbe essere “allieviato” e aiutato da una lettura registica che non ci infligga i consueti ed abusati rimandi froidian-junghiani, che ci eviti il pianoforte in scena con la piccola Elsa degli spiriti che prende lezioni dalla Rotermayer Ortruda, il popolo del brabantino nei panni dei rivoltosi di Dresda del 1948, Enrico l’uccellatore come il Generale Custer, il sesso selvaggio tra Telramondo e Ortruda ovviamente mal simulato, e quel lungo eccetera di tic e titic e titac di cui ormai il teatro di regia alla teutonica a fatto uso ed abuso riuscendo più ripetitivo ed indigesto di una intera testa d’aglio, visto che parliamo di ricette di cucina.
        Piacerà, ohh se piacerà. Il cretino sono io y a mucha honra, come dicono gli spagnoli.
        Scusate lo sfogo e buona giornata.

        • L’orchestra non era affatto inudibile al centro della seconda galleria, da dove ho assistito al terzo atto. Ha sfoggiato un suono insieme lieve e e pieno perché timbratissima.

          Mi sembrava di ricordare che Jonas ti fosse piaciuto anche nella Carmen.

          U

          • possiamo attendere la prima ?……per principio oltre che per ordine di post. Avrete tutto lo spazio e il tempo, in modo che anche chi la sentirà da casa possa partecipare. Manca poco!!

          • errai! Era un “soffio” come la voce del tenore 😉
            E sì, nel finale di quella registicamente sciagurata CARMEN, gli sfoghi di Kaufmann avevavno unaloro ragione d’essere a differenza dei risibili falsetti precedentemente uditi in TRAVIATA (per la precisione nel “PArigi o cara”) ed in TOSCA, nell’addio alla vita.
            Così è se vi pare, e se non vi pare… pazienza! 😀

  3. Per Ulisse.
    Ulisse caro, non ho parlato di sussurri, ho detto rispondendo a Robusto, che probabilmente i critici che contano parleranno molto dello spettacolo. A te invece dico che Thill e’ un grande Lohengrin, o meglio, io lo trovo un grande Lohengrin.
    Si, lo trovo meglio di Kaufmann. Non e’ un peccato grave.

  4. Non mi riferivo a quanto hai scritto tu, MIguel Fleta. “Wagner sussurrato” è un’arguta e calzante espressione usata da Sonvecchiomarobusto qui o altrove, se ho capito di chi si tratta.

    Dico solo che l’accento con il quale Thill canta “In Fernem Land” in questa registrazione ha davvero, a mio modesto avviso, una scarsa pregnanza drammaturgica, qualsiasi cosa io possa voler intendere con questa espressione!

    U

        • senti ulisse, bisogna questa storia del callimacheo e dell’omerico tu la spieghi meglio. Nell’arte è compresa l’architettura assai spesso alle prese con questioni pratiche tipo il compimento di un programma distributivo oppure i gabinetti, che col callimacheo o omero poco stanno. Idem in scultura , qlnque tecnica tu usi. O nella pittura mural etc…..in sintesi, descrivi per favore la questione in termini di rapporto voce /interpretazione, o meglio, canto/ espressione, in modo che parliamo tutti nel merito intendendoci bene sulle parole.

    • Ecco, ciò io non sono in grado di capirlo, ma potrebbe rispondere all’idea registica per cui il protagonista non perviene dal lontano Montesalvato, bensì si autogenera apparendo in posizione fetale in mezzo al “popolo” in fermento (il ’48 a Dresda? Anticipazione marxista del proletariato in un’epoca pre industriale? Boh!) che si accalca nel primo atto sulla scena. Di più non dico… e taccio accogliendo ils uggerimento della Divina Grisi :-)

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