Teatro alla Scala: La nomina del cappellàn, parte prima: Andare in scena

La politica degli allestimenti percorsa con convinzione dalla gestione Lissner sta provocando grande fermento tra il pubblico milanese, che, nelle ultime stagioni e sempre più spesso, ha disapprovato più o meno apertamente la parte visiva degli spettacoli, per una serie di ragioni diverse, che esamineremo in seguito. Anticipo, però,  le conclusioni. Il pubblico ambrosiano ha resistito, nonostante il tentativo di indottrinamento, alle ormai lise formule del teatro di regia di importazione, in molte delle sue varie declinazioni in cui ci è stato presentato un po’ perchè i registi, opportunisticamente reclamizzati come “di avanguardia” hanno dimostrato di vivere, invece, l’autunno intellettuale di carriere iniziate qualche decennio fa, un po’ perchè, quando le scelte sono cadute su nomi giovani, sono emerse in varia misura tutte le inadeguatezze, le velleità e la povertà intellettuale, anche sul piano del puro “mestiere”, che li caratterizza. Hanno retto bene le vecchie produzioni Scala e ne sono realizzate poche di nuove molto belle, che sono effettivamente piaciute, ma in generale la modernità propugnata da Lissner per adeguare il teatro agli standard esteri è stata rifiutata o, comunque, largamente criticata. Gli spettacoli giudicati negativamente sono stati in massima parte quelli prodotti autonomamente dalla Scala, ed in second’ordine quelli coprodotti, mentre su quelli importati e, naturalmente, quelli vecchi di proprietà del teatro non ci sono stati problemi.
La calata delle concezioni “gotiche”, come le chiamo io, dai teatri tedeschi, ma anche belgi e francesi, ha portato a Milano gli  esponenti più gettonati del cosiddetto “Regietheater” contemporaneo proprio nel momento in cui questa corrente appare esaurita, come dimostrano le violente contestazioni in terra tedesca, a cominciare dalla Bayerische Staatsoper sino all’Unter den Linden o alla Staatsoper Hamburg. Non so quanti tra il pubblico milanese sappiano che questo genere di teatro ha un’origine tedesca, è stato alimentato e si è fortemente istituzionalizzato all’interno dei programmi della Staatskultur che, nel dopoguerra, ha fatto del teatro uno strumento per la rigenerazione spirituale della nazione. Un teatro figlio della crisi e della critica culturale e sociale del dopoguerra, che sentiva la necessità di un nuovo inizio, l’esigenza di riflettere in modo fondamentale sui significati politici e culturali dell’arte lirica, concepita come “nazionale”, e,  quindi, contaminata, quando non complice del totalitarismo nazista. Era un’esigenza dai tratti anche sovversivi, ma fondamentalmente didattica come detto ( la cui origine è, poi, tutta illuminista ), la cui istituzionalizzazione si è concretizzata nel lavoro dei cosiddetti “drammaturghi”, messi a capo del lavoro artistico dei teatri lirici tedeschi.  In questa declinazione il regista deve proporre un “concetto” interpretativo sempre nuovo, per cui il drammaturgo gli fornisce delle suggestioni, “allargando l’orizzonte”, i riferimenti culturali, politici, storici, immaginari dell’opera. Parte costitutiva del lavoro del Dramaturg è anche lo scrivere analisi per il programma di sala e fare le cosiddette introduzioni che hanno luogo prima dell’inizio della rappresentazione nel foyer, in cui viene spiegato non tanto il contesto storico (e musicale) dell’opera in questione, ma soprattutto la visione personale del regista cui il pubblico assisterà.
In questa modalità produttiva molto strutturata si è generato, di fatto, uno spazio “critico” attorno all’opera, saturato e sovrastato da associazioni ed analisi di immagini, contesti ed idee, che precede, accompagna e sopravvive all’esecuzione effettiva dell’opera in sala; una sovrastruttura che ormai è diventata quell’unico orizzonte di cui emerge ed in cui risommerge l’esecuzione. In questo spazio onnipresente e stabile si neutralizza qualsiasi difetto materiale dell’esecuzione e viene spostato sistematicamente l’accento dal lato musicale verso un contenuto “interpretativo” che, non essendo a volte neanche chiaro sul palcoscenico, ha permanente bisogno di chiarimenti drammaturgici prima, durante e dopo lo spettacolo. La parte musicale và per forza di cose al traino della concezione imposta dal regista, mentre quella canora di fatto non conta. Ecco perché si contesta la regia, raramente la parte musicale, men che meno quella vocale: conta su tutto l’allestimento, oggetto di favore o contestazione, perchè la Gesamtkunstwek lirica è ormai sbilanciata su queste componenti.                                         La formula del Regietheater, più in generale, riunisce declinazioni specifiche e personali di varia provenienza e nazionalità, che non serve qui ricostruire: va solo tenuto presente che esso costituisce la radice prima dei moderni allestimenti, che vivono di spostamenti temporali, interpretazioni psicologiche, attualizzazioni, riletture politico-sociologiche ed al quale anche i nostri maggiori registi italiani, come Strehler o Ronconi, hanno contribuito. Questo teatro, a forza di sovrastrutturarsi indipendentemente dal testo, oggetto di rappresentazione,  ha finito per annientare la concezione dell’opera come recitar-cantando, ove ci si esprime in forza della voce, relegando la musica, il canto soprattutto, ad un ruolo marginale. Il fenomeno è iniziato proprio in Germania, calando su Svizzera, Fiandre, il festival di Salisburgo, la Francia etc, nazioni dove, sino a prima della guerra si cantava, “all’italiana” ( non credo di dovere qui ripetere cosa si intenda con questa formula sintetica che nulla ha a che fare con la nazionalità di esecutori e compositori ); paesi che, per primi, hanno perduto la loro tradizione di ascolto e di produzione di cantanti ( i due fenomeni vanno chiaramente di pari passo), al punto tale che, ove questo teatro si è imposto nelle sue formule più esasperate, l’opera come fenomeno musicale si trova ai più bassi livelli di esecuzione vocale del pianeta.
Le direzioni artistiche di teatri improntati ancora da un certo tipo di tradizione d’ascolto, come quelli italiani o iberici in cui prevale ancora nel pubblico l’idea del recitar cantando come componente principale dell’opera lirica e che hanno vissuto la “belcanto renaissance” quale ultima stagione della grande arte della vocalità, soffrono più acutamente di quelli gotici l’odierna drammatica crisi del canto e privi di strumenti per mascherarla, hanno sentito il bisogno d’importare questa impostazione anche nelle formule più spinte, ove l’impalcatura registica si è ormai completamente sganciata dal testo. A Milano si è tentato l’innesto, magari con formule mediate, italianizzanti, andando anche alla ricerca di qualche italiano “di passaporto” pensando, ingenuamente, che questo bastasse per un pubblico cresciuto al cospetto della lezione dei grandi registi della tradizione italiana. Ed il rimedio è stato peggiore del male, perché i prescelti si sono rivelati inadeguati ed estranei all’opera lirica, che ha una sua specificità, contaminatori, tecnicamente non all’altezza ed talora anche gratuitamente provocatori. Il meccanismo ha fatto acqua in modo clamoroso proprio laddove casca l’asino del canto, il cosiddetto “repertorio” e in Wagner.

Quello che si è visto alla Scala ( e che si osserva in modo lampante nel caso di Gerard Mortier, che da sovrintendente all’avanguardia, dopo la sua dipartita da Salzburg, si è trasformato in una sorta di “peppa tencia” che, ancor prima dell’arrivo, genera l’innalzamento di steccati a difesa, come a New York, ed ora a Madrid, con polemiche forumistiche, gruppi facebook contro etc.., oppure nella Monaco di Baviera di Bachler, ove hanno ridicolmente tentato, senza esito, di imporre il divieto di contestare al pubblico, stanco della gratuità scenica impostagli ogni sera ) è stata la difficoltà di operare la trasformazione dell’opera in qualcosa che è ancora sostanzialmente estraneo ai teatri mediterranei. Se in Germania, come in tutto il suo indotto teatrale svizzero, fiammingo, salisburghese etc, questo modo di fare opera non riesce più a reggersi, come provano le sempre più frequenti reazioni del pubblico ( il caso del partner commerciale privilegiato della Scala, l’Unter den Linden del direttore musicale scaligero, è perfettamente calzante ), nei paesi come l’Italia o la Spagna la sua importazione, fondata ed organizzata tra l’altro in modo eclettico e spurio ma comunque altamente intellettualizzate, non è riuscita sino ad ora ad imporsi, né potrà essere la soluzione o l’Ersatz per direzioni artistiche mediterranee incapaci, desolate e desolanti, che tentano di galleggiare offrendo un prodotto estraneo al nostro modo di andare a teatro al fine di colmare il vuoto creato dall’attuale crisi di voci e bacchette.
Il punto è che questa intellettualizzazione è diventata fine a se stessa, si è cristallizzata come la maniera di essere avulsi dal testo, tanto che mentre gli spettatori non riescono a comprenderla( penso all’idea sottesa al Lohengrin di Guth, ad esempio ), gli stessi registi non esitano a riconoscere pubblicamente la misconoscenza delle opere che allestiscono. Esemplare quanto dichiarato in una recentissima conferenza berlinese da A. Freyer, creatore del recente Ring di Los Angeles, che ha candidamente ammesso di non conoscere affatto Wagner! Conclusione: il Regietheater applicato al Ring wagneriano iniziò con le esperienze di alto profilo intellettuale di Ronconi alla Scala e a Firenze ed Herz a Lipsia, approdando a quella storica di Chèreau e Boulez a Bayreuth per finire, attraverso vari gradi di concettualizzazione ma anche di anarchica infondatezza, nelle mani di grandi “firme” della scena che nemmeno conoscono il compositore ed i suoi significati.

L’aver abbracciato con facilità teorie avanguardiste sugli allestimenti, comportandoci come i più entusiasti e sprovveduti neofiti, preda dell’esterofilia, ha portato a Milano parecchi spettacoli criticati e contestati in vario modo e a vario livello, dalle brutture dell’Idomeno e della Tosca di Bondy, sino alla stanca lussuoso routine del Don Giovanni di Carsen, tutti caratterizzati da un‘evidente inflazione dell’immagine, ora scandalosa, ora pornografica, ora modernizzante, ora incappottata, talora anche bella, ma sempre e comunque inflazionata, perciò sempre meno efficace e di presa. Il senso di noia e di “inquinamento” visivo che questi spettacoli causano da qualche anno in qua sono il frutto dell’aver istituzionalizzato un’estetica del brutto e dell’andare in scena talora davvero senza senso del teatro e, soprattutto, senza un vero pensiero fondante.
I “grandi nomi” che volevamo li abbiamo avuti, ma è innegabile che questi abbiano mostrato, accanto alle tracce del loro passato professionale, la crisi dei loro percorsi, ormai esauriti, sterili e ripetitivi anche quando lo spettacolo in sé per sé ha funzionato ( penso al duo Chéreau-Peduzzi nel Tristan o all’Orfeo di Wilson, efficaci, ma noiosi e prevedibili nella ripetizione dei propri personali stilemi ). La loro fresca libertà espressiva  si è trasformata, dopo anni di lavoro intenso, in cliché, come accade spesso ai grandi artisti, pittori, letterati, ma anche divi del rock, che continuano a produrre ad alto ritmo, senza nulla di nuovo da dire.
Il regista alla moda o che aspiri a diventare tale è ormai perfettamente adeguato nella propria cifra “stilistica”, se così posso dire: mentre il pubblico rileva apertamente ogni sera che il continuo esercizio sulla genesi dei testi e la loro decostruzione, l’inserimento di visioni e reinvenzioni soggettive dimostra di avere fatto il suo tempo, consumato dal riciclo ossessivo delle stesse formule, che rimbalzano da anni per ogni dove, citate, mutuate, copiate, abusate anche dagli imitatori senza personalità ( la moda scaligera ora sono  le proiezioni..), peggio dei peggiori gadget che si trovano nei musei.

Queste sovrintendenze-direzioni artistiche à la pàge continuano, del resto, a pensare l’opera in termini meramente “evoluzionistici”, che porteranno alla manipolazione definitiva del teatro lirico in chiave visuale. In una recente  ( e parecchio delirante ) conferenza di cui vi abbiamo accennato ( Discorso Matabosch concorso Vinas ) proprio Matabosch, sovrintendente del Liceu di Barcelona, in netto calo di abbonati,  ha preconizzato un futuro dell’opera che pare un’allucinazione, dove la parte musicale sarà destinata a liofilizzarsi in un simbolo astratto, una sorta di icona musicale senza spazi per l’interpretazione musicale e vocale, intorno al quale verrebbe allestita la sarabanda registica. Se, poi, pensiamo al fatto che non si lavora più in teamworking, regista-direttore, muovendo da una concezione unitaria come avvenne nelle grandi prove del teatro degli anni ‘70, perché le grandi bacchette latitano e arrivano sempre all’ultimo, come ha denunciato Herheim nella conferenza berlinese di cui sopra, ecco che il futuro è già ben tratteggiato. Un‘opera dove non si canterà, perchè il cantante in quanto artista nemmeno esisterà e che non ammetterà nessuna qualità musicale futura, perché ormai impossibile a prodursi: un teatro, che non potrà diventare altro che il luogo dell’arbitrio di chi non ha più argomenti per andare in scena, ma potrà permettersi di distruggere il senso più profondo del lavoro dei compositori pur di continuare a lucrare sul passato musicale.

Un’oligarchia vecchia governa le grandi Maisons musicali europee ( tralasciamo volutamente quanto avviene nei teatri americani), composta dai Mortier, dai Pereira, dai Bachler, dai Matabosch, dei Catona etc: da un lato, questa continua inesorabile a puntare sugli aspetti visivi ignorando (comodamente) la nota inflazione dell’immagine nel mondo di oggi ( un pomeriggio a MIART o al Salone del Mobile rendono bene l’idea dell’analogia con le new productions scaligere recenti ), che non riesce più a sopportare il carico ideologico che le si vorrebbe attribuire, perchè le polemiche politiche, sociali, anticlericali ( quelle che erano sottese alle letture innovative dei Visconti o degli Strehler Ronconi, Chéreau,…) etc si sono orami esaurite; dall’altro non riconosce l’evidente perdita di quella capacità di lettura e comprensione colta  del testo, ed alludo all’intero complesso di valori storici ed estetici in gioco ( per il passato come per il presente ), che sono musicali, letterari, vocali, orchestrali, di uso e di tradizione esecutiva, da cui può ripartire un modo diverso e futuribile di allestire la lirica. E’ oggettivo che l’opera esprima un sistema di valori in cui oggi, come già nel dopoguerra, la società non si può più riconoscere; finita l’attualizzazione operata dal teatro di regia perchè superato il sistema di valori che l’ha ispirata, non mi pare che esistano molte alternative al ripartire dai significati originari insiti nel testo stesso, compresi quelli per noi inattuali o incomprensibili. E’ una questione di cultura storica, che possiamo registrare già nell’idea che questi signori hanno del “repertorio”, che  non va mai oltre le due tre  titoli più famosi di ogni famoso compositore. E’ un dato che la dice lunga su quanto davvero conoscano la produzione lirica, ridotta al Bignami operistico, e che spiega anche la monotonia, che percorre i loro cartelloni.
E’ ora di ammettere che la nostra modernità è vecchia di trent’anni almeno ( a rigore i primi cappotti della lirica, che conosco risalgono al Macbeth anni ‘30 prodotto a Berlino per Siegrid Onegin ed Heinrich Schlusnus, ma si può andare ancora più indietro…tanto per datare la modernità con cui siamo alle prese e che non si è più rinnovata dagli anni ’80 ) e trova ormai applicazioni indiscriminate tout court, che non aggiungono niente, anzi, collaborano attivamente all’inflazione della lirica esercitando un potere troppo forte ed ingiustificato sui cantanti. L’interpretazione del regista, come quella del musicista, è doverosa e dovuta ma, perdute la congruenza e coerenza col testo, risulta solo distruttiva e/o manipolatrice: oggi, purtroppo, siamo quasi sempre in presenza del liso o dell’arbitrario.

Uffici stampa e battage pubblicitari, servendosi di qualche critico come amplificatore, altrettanto miope ed invecchiato, che agita la bandiera della modernità, sorreggono il cammino di queste sovrintendenze-direzioni artistiche al punto che nessuno rimarca apertamente:  a) il problema degli  sperperi evidenti ( i due Don Giovanni consecutivi della gestione Lissner sono la punta di diamante di un sistema di new productions che non sto ad analizzare ma che solo quest’anno  annovera un Macbeth da macero, un Olandese Volante orrendo disponibile ancora il vecchio allestimento di Muti; un Nabucco, firmato Abbado junior, di seconda mano pagato per nuovo; il nuovo Ballo in maschera con una produzione preesistente efficace usata una sola volta; un Oberto troppo raro per essere ripreso…etc); b) il problema della mancanza di controllo e discernimento, in fase di pianificazione delle nuove produzioni, tra ciò che è di valore e ciò che è arbitrario e scadente, ciò che è nuovo e ciò che è routinario; c) la mancanza di statura intellettuale delle direzioni artistiche nel proporre operazioni, per forza di cose rarissime, ove ci sia davvero un obbiettivo artistico ed intellettuale da perseguire in teamworking , scegliendo regista e bacchetta ad hoc e per le quali valga impegnare fortemente le economie del teatro.
Sin tanto che gli allestimenti vivevano di forza propria e tutto era ancora da inventare la loro azione taumaturgica sui limiti musicali ha avuto l’effetto desiderato: si potrebbe scrivere la storia del teatro alla Scala in tal senso, e sarebbe la storia delle imprese positive, di alto profilo, cui il pubblico di Milano era abituato. Oggi che anche il visual vive una crisi pari a quella musicale, questo finisce per agire in modo negativo, come abbiamo visto in questi tempi recenti.
In fase di scelta dei futuri cappéllan scaligeri, nelle figure distinte del Sovrintendente e Direttore Artistico, occorre una presa d’atto del fatto che quella di questi signori sovrintendenti e direttori artistici di gran nome è da anni fanno una comoda e ben remunerata routìne, che ogni tanto, però, inciampa in spettacoli che superano il limite di guardia, perchè oltre ad essersi impigriti, dato che ad un’alternativa non vogliono e non possono pensare, hanno anche perduto pure la capacità di selezionare e rimandare al mittente l’indecente. Tosca di Bondy docet.

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12 pensieri su “Teatro alla Scala: La nomina del cappellàn, parte prima: Andare in scena

  1. Cara Giulia, ottimo escursus, che coglie i punti dolenti dell’attuale stato della lirica.
    Se permetti, aggiungerei solo che questa situazione, con i dovuti distinguo specifici del singolo settore, si è estesa in modo evidente anche ad altro.
    E’ il mortale mix di ignoranza generale e specifica, e di arroganza manifesta, che ormai guida anche gli atti pubblici, quale una rappresentazione dovrebbe essere, (così almeno la si è considerata finora).
    L’ appunto che Duprez riporta qui sopra ne è un esempio perfetto.
    Siamo purtroppo alla manzoniana “…penuria dei tempi…”.

    • Ah beh, certo che siam messi bene.
      Forse, trovare un Direttore Artistico particolarmente portato verso veri valori musicali, che, in accordo con il proprio Sovraintendente, con coraggio, senza affidarsi ai soli nomi di cartello, proponga qualche stagione dove la presenza registica non sia richiesta, potrebbe giovare;
      Il fatto e’ che l’Opera e’ anche altro, non solo musica e canto. Non penso che il pubblico accetterebbe.
      E poi, sinceramente, stressati o meno che siano gli artisti, e’ la scuola che a loro manca.
      Mancano i Maestri di canto.
      Dovresti sentire cosa dicono i titolari delle Cattedre nei Conservatori, Giuditta cara.
      Che poi i prescelti per le produzioni non lo siano esattamente per le loro doti vocali od interpretative, purtroppo l’avevamo capito da tempo.
      Ciao Giuditta.

      Giulia, l’articolo e’ veramente interessante, brava.

      • Certo che è la scuola che manca e questo rende ancora più grave lo stress che comunque è innegabile.
        Da un lato sono contento che anche gli agenti abbiano iniziato a fare dei coming-out, però Hilbert dà la colpa ai registi: I registi danno la colpa ai direttori d’orchestra che non provano. I cantanti danno colpa a tutti. Tutti danno colpa a tutti tranne a loro stessi. Nessuno vuole cambiare qualcosa alla propria coscienza e tecnica del mestiere.

          • Non c’è da meravigliarsi.
            E’ notorio che i fallimenti, a differenza dei successi, non hanno mai una paternità precisa.
            Comunque, data la complessità del problema, qui “i padri” son persino troppi, e purtroppo, al di là di lamentazioni e giaculatorie, non credo che gliene freghi più di tanto : finchè riempiono i teatri e fan quattrini….

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