Norma in cd

Finalmente il CD.
Anticipo le conclusioni  della registrazione “di fresco data fuori” ossia che  nulla di nuovo dice e che Norma prosegue  ad onta dei procalmi della protagonista e dei suoi consorti il proprio cammino  secondo la vocalità e le idee interpretative, che la connotano da 180 anni e che, ad essere di larghe vedute, le differenze documentate e proposte pochi giorni or sono si possono  rilevare in dettagli di gusto.
La signora Bartoli vorrebbe accreditare l’autenticità della propria proposizione interpretativa sulla base di due erronei assunti ovvero che la Norma sia come l’Artaserse di Hasse e che le attuali esecuzioni di quel titolo e dei coevi ad opera dei baroccari siano esatte ed indiscutibili. False le premesse, falsa la conseguenza e non solo sul piano filosofico, ma su quello della pratica realizzazione che è quel che conta in teatro.
Condividiamo, per un istante, la tesi propagandata dalla neo-protagonista e fingiamo che Norma sia titolo del dramma classico ovvero dove il “genere” ed il “tipo” la fanno da padroni e scomponiamo il prodotto discografico secondo i generi.
Giuditta Pasta era famosa diseuse. Non richiamo –sarebbe l’ennesima volta- Stendhal sulla Pasta-Tancredi, ma che alla cantante di Saronno fossero graditissimi i grandi recitativi e le cosiddette “scene”, per rimanere alla produzione belliniana esemplificate sia in Sonnambula che in Beatrice di Tenda.
Era anche risaputo che queste situazioni musicali fossero i  luoghi dove l’esecutore, svincolato dal tempo era solito inserire elementi musicali di propria invenzione. Le due figure ornamentali (passaggi di notine) che Bellini  prevede alla scena “ei tornerà pentito” sono l’esempio di quello cui spesso i cantanti provvedevano in autonomia.

Con riferimento a questa tipologia di numeri
1) Nel  “sedizione voci”  definito largo maestoso ascoltiamo una voce da soubrette mal emessa nel medio e nel medio grave. La corona sul fa di”poTEre umano non suggerisce alcunche a cantante e direttore, sulla carta esperti di titoli dove l’esecutore è coautore. L’accento in generale è isterico “e infranta cada” e la voce sorda sotto il re basso “pili romani”. Nel tentativo di  eseguire messe di voce su note di lunga durata  come il sol di “e il SAcro vischio” emette suoni fissi e nessuna vera messa di voce. In generale  l’esecuzione è verista e realista. Ossia una esecuzione di ciò che Norma non è senza la voce delle cantanti di quel genere.
2) Scena VII recitativo ante il primo duetto con Adalgisa
Nell’esecuzione non tiene conto dell’indicazione “assai più moderato” previsto per la frase “diversi affatti strazian quest’alma” dove lo strazio è reso con sospiretti da amorosa da intermezzo napoletano come pure al “ah se obliar potessi”, al “non provato mai” il tono è querimonioso. Ad “immaginar nol puossi” Bellini prevede largo, che non è solo il tempo, ma anche l’accento che è ispirato alla miniatura. In ogni senso, vocale ed interpretativo.
3) atto secondo “Dormono entrambi”  definito scena come scena è definito l’ingresso di Norma al tempio di Irminsul dalle parole “ei tornerà”
Al primo numero, preceduto da una introduzione notturna, qui ridotta al tema  di una canzone stile Nilla Pizzi,  l’indicazione “sottovoce” da luogo ad una serie di suoni in bocca e fissi a partire dal re4-mi4 . I sospiretti dell’innamorata da settecento napoletano connotano la frase “viver non ponno qui supplizio in Roma”. Sembra di sentire, tanto per offrire un’idea di timbro ed accento la Sciutti come Carolina e la Seefried come Susanna. L’indicazione di “lento a piacere” sul “si solleva il crin” (il solito mi4) da luogo a suoni fissi, che diventano lagnosi e simili ad un miagolio  nel seguente “teneri figli”. Nessuna scansione per frasi come “di Pollion son figli” (anche se lo jato è accentuato) e “e non fi pena”. La lacerazione dell’animo sul sol4 di “ah no son miei figli” è risolta, appunto con un suono lacerante. Poi arriva Adalgisa. Bella coppia!
4) La situazione più varia drammaturgicamente e vocalmente è l’ingresso di Norma nel tempio di Irminsul perché la protagonista in una ventine di battute deve passare dall’illusione del riconquistato amore alla smania di vendetta.
I difetti vocali e di accento sono gli stessi aggravati dal fatto che, dapprima Norma è chiamata ad un passaggio di notine  su “amore”, che va dal do5 al re 4, e dovrebbe rendere l’idea dell’amore e qui abbiamo un acuto striminzito e toccato a pena; poi deve esplodere il furore “e qui di sangue” dove in mancanza di un centro congruo la Bartoli parla, per coronare l’opera urlando il do acuto e sgallinando le quartine seguenti. Non voglio parlare della Cigna in questa sede. Devo!
5) Tralascio una accurata disamina di tutti i recitativi, che costellano la parte, ma devo  segnalare l’effettaccio verista di “son vendicata adesso” alla tradizione in catene del nemico Pollione davanti ai Galli e tutto il recitativo, che precede il secondo duetto con Adalgisa dove la disperazione è connotata da accenti sguaiati ed esagitati complice la copiosa presenza di note fra il do4 ed il mi4, che la cantante non sa emettere, pur essendo la zona “sostanziosa” della voce del soprano centrale.

Altro topos del dramma sono i brani spianati o languidamente fiorettati (a differenza di quelli che prevedono agilità di forza).
Il modello è la preghiera Casta Diva eseguita in fa, che tenuto conto del diapason adottato occhieggia anziché alla versione in sol  quella in mi delle sorelle Garcia…la prima ammirata da Bellini.
Sdolcinato e melenso l’accento. Non la sacerdotessa che prega a nome di tutte il popolo, ma le orazioni della sera di una bimba, la salita ai la naturali, che poi dovrebbero anche essere ribattuti piuttosto fortunosa. Nella seconda strofa  vengono introdotte varianti. Giusto il concetto, ma sono poco felici musicalmente e nel finale la Bartoli tenta di riproporre una variante di tradizione (risalente alla stessa Pasta, forse, registrata nei dischi del primo ‘900) solo che evita la salita al si nat previsto.
Per comprendere come si debbano gestire le varianti in un’aria strofica invitiamo all’ascolto della sortita di Lucrezia Borgia della Sutherland, alla Casta Diva di Adelina Patti e all’esecuzione dell’ ”ah non credea mirarti” di molte prime donne del primo ventennio del secolo XX.
2) Duetto atto secondo Deh con te li prendi “ e “mira o Norma”.
La prima sezione del lungo duetto tripartito presenta, attesa la situazione scenica,  fiorettature non autentiche agilità di forza nelle più tipiche forme post rossiniane duine, terzine e quartine. La scrittura di Norma, come si conviene ai passi di questo genere sta in zona centrale e fra il si3 ed il fa4 il suono è grattato e aperto, difficile la distribuzione del fiato, che intacca il legato. Nessuna novità musicale: il solito rallentando da spartito su “abbandonati”, le quartine non certo di forza  sgallinate ed il do delle battute di conducimento toccato e, comunque, strillato.
Terza sezione “mira o Norma” staccato con un tempo piuttosto veloce rispetto a tutti gli altri andanti dell’esecuzione con un attacco periclitante del la acuto del primo “presso a morte” ed una assoluta piattezza esecutiva né un colore né una scelta dinamica, che possa configurare il quid novi, di cui la protagonista si erge a faro e mentore. Le più agguerrite belcantiste amavano scambiarsi le linee vocali. E’ solo un esempio, un suggerimento. La storia lo attribuisce alle Marchisio , lo hanno pratico di frequente Cuberli e Dupuy ed anche Ricciarelli-Horne. Documentato il tutto.
3) Duetto Norma- Pollione. Premetto: l’incontro fra gli ex amanti, che si riconciliano sul rogo meriterebbe una trattazione autonoma, quale punto più basso di tutta l’esecuzione. E’ staccato ad un tempo piuttosto veloce per ovvi motivi di scarsa ampiezza di fiato dei due esecutori. L’attacco sul do grave  è gutturale e gonfiato, manca in tutta la frase ogni ampiezza e il fiato è sistematicamente corto. I limiti naturali e tecnici portano ad una interpretazione isterica del personaggio soprattutto in frasi come “il mio furore passa il tuo”  e peggio  ancora altre come “e la vita il ti PERdono” complice la tessitura, che comincia a salire. “Vedi vedi a che son giunta” è un guazzabuglio di mezzi (mezzucci) espressivi del più esemplare Verismo.
4) “Qual cor tradisti” tempo stentato, accento melenso più volte appare l’indicazione “risoluta” sistematicamente ignorata.  Nel genere Carolina o Susanna (aiutata dall’amplificazione) azzecca il si bem di “qual cor”. Tralasciamo che cosa accada alla frase “io son la rea” che è un sol acuto striminzito. Censurabile per un paggio Oscar di provincia.
5) “Deh non volerli vittime”
La scrittura vocale copre circa un’ottava e mette la Bartoli al riparo dagli scivoloni in cui è incorsa per tutta  l’opera, ma l’attacco di “Pensa che son” e “abbi di loro” (due normalissimi  mi4, nota che sarebbe di pieno passaggio per chi lo sappia eseguire e per la Bartoli è l’inizio del falsetto) sono fissi e di dubbia intonazione,  l’accento melenso e la trenodia trasformata in una lagna anche perché più che di legato si può parlare di suoni strascicati. Sorprende che l’accento sia lo stesso della Casta diva, come se analoghe fossero  le situazioni drammaturgiche. Sfugge a tutti gli esecutori che nel finale siamo dinnanzi ad una pagina di genere “grandioso” ove si compie la tragedia. D’altra parte l’esecuzione è secondo  i più deleteri canoni baroccari  senza un vero crescendo, come indicato in spartito, sostituito da  repentini scatti e salti dal piano (pianino sarebbe più corretto dire) al clangore, che poco possiede del fortissimo.

Norma è ovviamente chiamata ad eseguire agilità di forza secondo la tradizione rossiniana i passi più significativi sono la cabaletta “Ah bello a me ritorna”, l’apostrofe “no non tremare o perfido”, che apre il terzetto finale, la stretta del secondo duetto con Adalgisa “Si fin dall’ore”, che ricalca i gradi duetti rossiniani e la sezione conclusiva dello scontro con Pollione “già mi pasco”, senza dimenticare un’altra apostrofe del duetto i famosi “Romani a cento a cento”
1) “Ah bello a me ritorna”
La sacerdotessa è un’isterica che grida nelle battute che dall’aria conducono all’allegro. Altro che fine dell’estasi mistica. Miagola una variante personale di “ma punirlo il cor non sa”. La cabaletta è staccata a tempo di marcetta e le agilità tutte sono accennate secondo la scontata conseguenza di chi non utilizzi nel canto il sostegno del fiato e della respirazione professionale. I guai più evidenti sono le quartine iniziali cempennate anche perché cadono nella zona più logora della voce, al passo “e vita nel tuo seno” esegue la versione semplificata, risparmiandosi la vocalizzazione di nove quartine, eseguita anche e bene da Eugenia Burzio, il do 5 di cielo (toccato vocalizzando una più comoda a) sembra appiccicato dalla banca degli acuti, dove ha il deposito titoli non solo Domingo. Orchestra men che bandistica e variazioni scolastiche nelle prime misure; all’arrivo delle quartine della prima ripresa interna di “a me ritorna” la cantante semplifica , esegue una parte soltanto delle nove quartine di “ e vita nel tuo seno” per poi ammannire l’ennesima semplificazione e piazzare due volate (volatine visto volume e mordente) che fanno a pugni con armonia e solfeggio. Arrivata alla coda, in mancanza di provvidenziali “oppure” esegue quartine molto approssimative e nella ripetizione della coda abbiamo l’apoteosi dell’agilità farfugliata di chi non sa cantare. Meraviglia –si fa per dire- questo esito perché da anni ci fanno credere che la protagonista sia l’erede di Farinelli o di Carestini per i quali sono stati scritti passi acrobatici dinanzi i quali la cabaletta di Norma è uno “scaldavoce”.
Insomma uno scempio e mi dilungo con due notazioni. La prima Girolamo Crescentini, famoso castrato e maestro di Isaballa Colbran, nei propri solfeggi indica quantità di quartine vocalizzate quale esercizio per la voce e d’altra parte le più accreditate virtuose delle generazioni post Callas proprio nell’esecuzione della vocalizzazione per quartine hanno dato il brivido all’auditorio. La seconda offro quale ascolto la Casta diva e seguente cabaletta di Frida Hempel, che eseguiva anche ruoli lirico spinti come Marescialla al vecchio Met. L’incisione è un ludus della prima donna dedicato a Jenny Lind, ma è impietoso lo stesso perchè anche nel divertimento circense la cantante tedesca lascia integri i principi del canto ed il senso del personaggio.
2) “No non tremare” Lasciamo perdere il suono bistrato e la dizione artefatta di “tremi tu e per ci tu tremi”, che meravigliano perché siamo nella zona sol3-re4, che sarebbe quella più propizia per la voce di mezzosoprano acuto. Dal confronto qualsivoglia soprano, bollato per verista, emerge come STILISTA. La tragedia per l’esecutrice e gli ascoltatori  risiede nel fatto che la metafore del furore, al pari di quella dell’amore (di cui alla cabaletta) si esprima con l’artifizio del canto vocalizzato, ovvero delle solite quartine, tutte eseguite senza appoggio quindi cempennate o sgallinate, oltre tutto in una zona della voce che coincide (escluso il do 5 scoperto) con quelle del genere “grand agitato”  o “tragico” del soprano Colbran, soprano centrale o mezzo acutissimo per definizione. Sempre per delineare la cultura filologica di protagonista e direttore il punto coronato sul sol acuto di “pei figli TUOI” è risolto tenendo la nota. In tanta edizione si pretenderebbe una parca improvvisazione o quanto meno una messa di voce. Per note dle valore (minima) di quel sol era la regola.
Attesa la qualità dei passi di agilità il confronto con Gina Cigna è irrinunciabile.
3) “Si fin dall’ore estreme”
E’ il brano di sapore più acrobatico e rossiniano. E’ staccato come tutti gli allegri a mo’ marcetta da opera semiseria. Moda baroccara e idea di fondo che questi pasi non abbiamo una valenza drammaturgica, ma solo esornativa, solo che per realizzare questa –discutibile- idea si deve disporre di ben altri calibri tecnico-vocali. Affidato a quelle che comunemente si definiscono vocette, staccato a quel tempo (privo persino il da capo dei tradizionali rallentando, che sono la sopravvivenza codificata di una libertà di cui gli esecutori godevano) abbiamo una specie di scherzetto vocale da servette da intermezzo napoletano. Se poi aggiungiamo che alla ripetizione  le due quartine puntate di “sul mio COR” vengono eseguite legate in realtà aspirate (imitazione molto realistica del gargarismo) abbiamo uno dei momenti più infelici dell’esecuzione. L’esecuzione letterale dei mi fa in coda (sono sempre note dal valore di  una minima) desta stupore. Non credo che dopo un brano di complessa acrobazia  l’autore volesse questo, ritengo, per contro che le code fossero lasciate alla libertà degli esecutori.
3)  Più mosso rispetto all’allegro moderato per l’apostrofe   “i Romani a cento a cento”. Le solite quartine cempennate, nella solita zona della voce che dovrebbe essere quella sonora e potente del soprano centrale ed invece è sorda e vuota. La realizzazione del “con furore” su “Adalgisa fia punita” è esilerante come lo sono tanto artefatti risultano i suoni al di sotto del do centrale. E  siccome l’apostrofe si conclude con una  serie di quartine  anche queste nella solita zona della voce sono la negazione dell’agilità. E dell’agilità di forza in particolare perché lo slancio ed il mordente sono solo l’accento isterico di una voce infantile.
Chi volesse immaginare la caricatura di  un soprano verista che senza la congrua voce esegua Norma deve ascoltare la frase “preghi alfine” e quanto segue. Non un suono professionale, dizione e fonazione artefatte  ed affettate per simulare un furore assai prossimo all’isteria.
Nel più animato non si può no rilevare la solita esecuzione da principiante del canto d’agilità e la difficoltà ad attaccare il la acuto di “Infelice”. Ancora una notazione filologica ovvero l’esecuzione del da capo impone l’inserimento di varianti nelle ripetizioni e non già l’esagitato martellare sulle parole “già mi pasco”

E adesso gli altri.
Non meritano, pur versando in par condicio scelerum la puntuale disamina riservata alla protagonista. Sono anch’essi al di sotto del decoro professionale.
Prendiamo il Pollione di John Osborn, che passa da ruoli di tenore contraltino a quelli di tenore baritonale come se possedesse gusto e tecnica di Lauri Volpi o di Slezak e sentiamo un condottiero romano dal timbro mediocre in natura, incapace di accento largo e fiero, caratteristiche del primo esecutore, incapace non solo di salire agli acuti estremi, ma di gestire l’intera gamma della voce dal do 3 in su, in pratica una quinta (se si esclude il do5 scoperto della variante della sortita) emettendo suoni falsettanti e sfibrati come accade in tutto il duetto con Adalgisa dove un qualunque Paolino del Matrimonio segreto avrebbe più cavata, ampiezza e virilità, spappolando le agilità del duetto con Norma e coprendosi di ridicolo nella cabaletta oltre tutto appesantita da variazioni di pessimo gusto e per nulla consone alle caratteristiche vocali del primo interprete, che Donzelli medesimo in una lettera indirizzata a Bellini descriveva. A prescindere dal primo interprete il punto è l’accento da Nemorino ossia da mezzo carattere perché anche a sposare la tesi (discutibile con riferimento a Pollione) che quei tenori non avessero i mezzi di Corelli o del Monaco la domanda che sorge è  quale fosse volume, peso vocale, espansione  scansione di recitativi e cantabili ed  accento dei tenori contraltini o più ancora quelli di mezzo carattere, se questo dovrebbe quello del tenore drammatico .
La domanda vale identica per Adalgisa, scelta ricaduta su una soubrette ormai esausta per giustificare la differenza timbrica con una Norma infante e per giunta giustificata dal fatto che la prima Adalgisa (Giulia Grisi) fosse il soprano dei Puritani, cadendo nella petizione di principio che i Puritani siano opera da soubrette. Basterebbe guardare la tessitura dei Puritani o dell’Elena Falier per rendersi conto che la Grisi che di lì a poco fu Semiramide e Norma fosse quanto meno, per usare le terminologie moderne, un lirico spinto e versata (forse più della Pasta al canto acrobatico). Qui abbiamo una cantante che canta una terza sotto la propria scrittura naturale e che per conseguenza emette suoni opachi e sordi sia nella sortita che nel duetto con Pollione, che annaspa al lungo racconto “dolci qual arpa armonica”, di fatto più aria di Adalgisa con pertichini che vero duetto e che quando arrivano gli acuti li bercia o li emette flautati (vedi il do della sezione seconda del duetto del primo atto  o quello del secondo atto)   e della passata giovinezza vocale non resta traccia nell’esecuzione dei passi di agilità che se non è scolastica e, quanto meno impacciata, colpa anche la zona in cui gravita la scrittura della giovane ministra.
Il meno dei mali nella produzione potrebbe essere Michele Pertusi dal colore chiaro, dagli acuti indietro ed ovattati e dai gravi di scarsa consistenza, ma canto, in una parte di gravità sacerdotale, mai.
Ma Pollione ed Adalgisa sono poi, con i loro limiti vocali ed interpretativi l’immagine della scelta di offrire adeguato contorno alla diva e che non sveli le velleità dell’operazione.
Il punto dove la velleità si esprime al massimo grado è la direzione e concertazione di Antonini. Anzi la sola direzione perché di concertazione non vale la pena di parlare. Per i titoli melodrammatici sino a Norma il concertatore dovrebbe garantire e gestire il rispetto, ovvero il recupero, della prassi esecutiva, ovvero suggerire accenti, varianti, appoggiature e quant’altro  costituisse all’epoca il pratico sapere del cantante. Come abbiamo  esaminato con riferimento  ai singoli numeri tale attività manca del tutto.
Rimane la direzione. Il suono è quello, per utilizzare un’espressione efficace,  quello delle corde da bucato e dei pifferi, cari ai baroccari come sa fra il 1720 ed il 1830 nulla mutato nella tecnica di costruzione e di suono degli strumenti. Perché la qualità del suono è pari a quella di un Artabano di Legrenzi. Tralascio per il momento la polemica perché a breve sarà esaminata da altro e più preparato autore osservo che da nessuna parte è scritto che il suono debba essere arido, fisso e fischiante. Circa l’esecuzione mi domando come un’esecuzione che si picca di essere rispettosa della poetica del tempo  (ossia dei generi) non possa rendere mai il senso del grandioso e del tragico, che permea tutta l’opera. Cominciamo con una sinfonia dove le sonorità sono due o clangore (accordi iniziali e ogni qual volta intervengano le percussioni) oppure il mezzo piano affidato agli archi, senza mai cavata, senza mai un vero crescendo, una minima dinamica.
Ingresso dei Galli nella area sacra, coro “guerra guerra” (dove la Bartoli canta la seconda strofe, che se non sbaglio è ritenuta apocrifa) ridotte a meccaniche marcette, che potrebbero accompagnare al  Teatro Gerolamo le marionette o gli eserciti di The Mummy, introduzione del secondo atto, che evoca le canzoni del genere confidenziale ed il preludio dell’ingresso di Norma al tempio di Irminsul arido e secco, quando dovrebbe essere ( a rispecchio dell’animo della protagonista) l’unico isolato momento di elegia. Uno dei generi più cari ad autore e protagonista.
Non ho dubbi che chi eserciti professionalmente la critica fra un mesetto, quando stenderà la recensione a questa produzione, spenderà parole e paragoni, che riserverei ad una edizione di Norma 1913 con Russ, Nedhadova, Slezak, Mardones. Ma è noto: si dice  che noi aduliamo il passato. Credo semplicemente che nella vita, come negli hobbies ne teniamo conto e non ne prescindiamo.

 

Gli ascolti

Bellini – Norma

Atto I

Casta Diva…Ah! bello a me ritorna – Marcella Sembrich (1907), Frieda Hempel (1921)

 

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36 pensieri su “Norma in cd

  1. è stata una delle esperienze più difficili come ascoltatore…. te lo posso assicurare. passata con un po’ di cerquetti, callas e quel bel vecchiume che abbiamo pubblicato i giorni antecedenti

  2. Anch’io sono riuscita ad ascoltare solo qualcosa, ho sempre problemi con la voce della Bartoli, non la reggo proprio, ma in questo caso è proprio una schifezza e basta (scusate se ho scritto basta). Resto dell’idea che questi impostori avrebbero più dignità se si limitassero a un non disdicevole “prendi i soldi e scappa”, e invece no, non solo devono monetizzare, ma devono anche imporre una visione distorta spacciata per una riscoperta dell’autenticità… Dietro questa operazione non c’è solo il calcolato cinismo di una presa per i fondelli colossale, ma anche l’ottusa esaltazione fondata su poche idee tutte molto confuse e infimi mezzi di nulla qualità. Non so quale delle due cose mi faccia più paura e tristezza.
    Cmq, bel post, almeno.

  3. Buono per la colonna sonora del solito sequel di Fantasia:

    Norma: Daisy Duck (Paperina)
    Adalgisa: Minnie Mouse
    Pollione: Donald Duck (Paperino)
    Oroveso: Pietro Gambadilegno
    Clotilde: Clarabella
    Flavio: Goofy (Pippo)
    Due Fanciulli: Qui & Quo

  4. Posso dire la mia? La Norma della Bartoli non mi interessa, né ascoltarla, né discuterla. Penso, anzi , che sia un po’ come per Berlusconi: se gli si desse meno spazio e meno diritto di cronaca……

    • Caro Billy, capisco perfettamente la tua posizione. Nemmeno a me interessa questa incisione; ho ascolato bartolame a sufficienza per poter scegliere serenamente di risparmiarmi questo. Però credo che il supplizio al quale Donzelli si è sottoposto sia utile perché la soluzione del silenzio stampa purtroppo non funziona; anzi lascia libero spazio ai giudici (G) che, non potendo negare il limiti tecnici di un cantante li trasformano in un nuovo e finalmente contemporaneo modo di fare teatro. E anche se quella di Donzelli e di tutti noi che siamo intervenuti nel corso del tempo su queste pagine dovesse rimanere una voce poco ascoltata, comunque è un’importante voce di dissenso dalla vulgata ufficiale; una sacca di resistenza che va tutelata e promossa. Altrimenti i giudici (G) e compagnia – gente che non sa distinguere una mezza voce da un falsetto; un suono appoggiato da un colpo di tosse – l’avranno sempre vinta. Poi Cecilia faccia quello che vuole; ma non cerchi di vendere i suoi personali spassi come verità interpretative…

        • Egregia Lily, pur concordando con Billy sul livello di interesse di questo esperimento bartoliano, fatto di autenticità da sedute spiritiche e di una dose abbondante di “fumèra”, come si dice a Milano, mi aggrego a te – se permetti – e ovviamente a lontanodalmondo : questa roba non può e non deve passare inosservata e filare liscia fra incensature e osanna come se stessimo assistendo a una “vera” (ma chi lo puo’ dire veramente ???!!!) operazione filologica e, per giunta, a scopo teatrale.
          Voci sfiatate e inadatte, un orchestra che spara o langue ai limiti dell’abbiocco.
          Personalmente mi era già bastata e avanzata la sua Sonnambula pseudo-malibran (almeno così sostenevano lei e i suoi accoliti).
          Ma con tutti titoli in circolazione, proprio Norma ????!!!!
          Ha venduto milioni di Cd e dischi fino a oggi…..ma la piantasse finalmente, faccia altro o si ritiri, e se qualcuno non è d’accordo, francamente me ne infischio.

          • Proprio così, carissimo. E come se non bastasse la sfacciatella tira in ballo anche la Magnani.

            La Pasta non l’abbiamo sentita ma la Magnani l’abbiamo vista: questa reginetta dei grulli sta alla Magnani come Valeria Marini sta a Bette Davis.

      • io credo fermamente che al pubblico spetti l’ultima parola e non si deve avere vergogna o timore a manifestarla secondo tradizione ossia dovendo andare dall’otorino tanto si è gridato brava oppure per i fischi e le riprovazioni. Il teatro d’opera non è e non può essere politically correct è il MELODRAMMA, quel mondo astratto, folle, fascinoso che riteneva ipostasi dell’eroe un povero ex semianalfabeta contadinello privato ben sappiamo di che e trasformato nella macchina per cantare. Un monstrum, l’essenza del melodramma.

    • Caro Billy, il tuo discorso rischia di essere snob, e il riferimento a Berlusconi evidenzia questo rischio. Perchè non si sta parlando di un prodotto artistico (così come lì non si parla di un discorso politico), ma di manipolazione e di mistificazione perpretate grazie a un potere che intende imporre una visione, la propria, dalla quale si traggono dei vantaggi. Di fronte a una manipolazione del genere non si può e non si deve mai smettere di dire da che parte si sta. Un caro saluto intanto

      • Uhhh….come sono d’accordo!!!!
        Peraltro, questa Norma ce l’ho ed ho anche provato ad ascoltarla, solo provato…. :) :) Comunque, comprendo assolutamente Billy che credo tediato dal malcanto e dalla protervia della signora più che snob!
        Mi associo ai cari saluti a tutti.

  5. Non sono riuscito a trovare da nessuna parte un’esposizione ragionata dei motivi che hanno spinto ad una realizzazione così idiota del capolavoro di Bellini (e forse di tutta l’opera italiana), tuttavia ragionandoci ho notato che l’operazione commerciale si difende forse con una sottile astuzia: l’opera è proposta infatti in un “autentico stile preromantico”, non con l'”autentico stile che le pertiene” (con tutto che, anche quello che la Bartoli propone come autentico stile preromantico, non lo è…)

  6. sì ma al di là del fatto che sia cantata “male” (non parliamo del tenore!!!) io insisto: dove e come viene teorizzata questa esigenza di tornare ad uno stile pre-romantico, quando l’opera è del ’30? sarebbe come cantare rock Le nozze di Figaro o in modo monteverdiano la Tosca, ma voglio sapere chi e come se ne è presa la responsabilità

  7. Fabrizio ha ragione e io mi permetto di aggiungere qualcosa .
    Non voglio entrare nella questione della responsabilità, direi cose da querela.
    Mi interessa la questione stilistica, perchè sembra che questa gente si sia persa per strada lo Sturm und Drang, che precede Norma di circa 50/60 anni, Goethe regnante, che apre il pre e poi il primo romanticismo tedesco e che è strettamente collegato col secondo romanticismo, quello che avvolge gran parte della lirica ottocentesca, pur con i debiti distinguo.
    In Norma l’eredità “titanica” dello Sturm si sente forte, e in più siamo nel pieno dello sviluppo del secondo romanticismo, cui Norma appartiene di diritto anagraficamente e stilisticamente.
    Ma vogliamo far credere ai gonzi che sia opera preromantica, magari neoclassica ???!!!
    Il mio parere, e me ne assumo la responsabilità, è che siano o degli ignoranti patentati o dei venditori di fumo, che trovano oggi facile diffusione data la generale superficialità delle conoscenze in materia.
    Alla fine ne esce una Norma retrodatata stilisticamente e musicalmente – la balla degli strumenti ! – e per giunta cantata da una che è in perenne debito di fiato, spacciando interruzioni e pause al limite del fuori partitura e dovute alle sue deficienze vocali, per recupero filologico !
    Ammazza che ..azzari !
    Questi signori, che si definiscono musicisti, tornino a scuola – il liceo, intendiamoci, perchè le lacune, per gente che dice di far musica, sono quasi elementari – e la smettano di prenderci in giro.
    Se volevano solo quattrini, non era necessario mettere in piedi tutto questo baillamme, tanto la Cecilia la osannano anche quando e da fischiare senza pietà…., ma almeno ci saremmo riparmiati la nebbia delle loro frottole pre-romantiche
    Buon sonno a chi gli crede e li segue.

    • Secondo me si tratta di una donnina senza voce, ma piena di ambizioni e sostenuta dai media, che è capace, con le sue indagini pseudo-filologche, di andare anche contro l’evidenza storica (vedi l’assurdo del Pollione-Donzelli leggerino e contraltino) pur di poter satisfare la sua ambizione.

  8. si potrebbe concordare sul fatto che un’esecuzione e una cantante del genere possano essere ignorati del tutto, però ritengo opportuno esprimere il parere dal momento che l’articolo-recensione è stato pubblicato e che la casa di distribuzione è la stessa che ha avuto in catalogo la Norma di Joan Sutherland che, discutibile quanto si vuole, ha rispettato profondamente una tradizione interpretativa, fornendo spunti in più rispetto a quelle esistenti, ma non sostituendosi ad esse con una concezione arbitraria e senza fondamenti filologici nel vero senso del termine. Insomma, in parole povere qui non è un concerto dal vivo alla Scala, ma è un caso di mistificazione culturale autorizzata che va con forza segnalato

    • Sicuramente Bellini non ha mai pensato a una direzione dove orchestra e coro, quando cantano Norma e Adalgisa, sono così indietro rispetto alle voci, eccetto qualche accordo in primo piano, da far pensare ai dieci strumentisti e sette coristi che da lontano cercavano di farsi sentire nelle registrazioni di cent’ anni fa.

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