Requiem per il Maggio

Ieri il Corriere della Sera celebrava con un doppio paginone l’ormai imminente inizio del Maggio Musicale fiorentino. Fra le righe abbiamo rilevato anche un po’ di “venenum in cauda” da parte della  firma del Corriere, che si occupa di Scala, allorquando, riassunta la storia della manifestazione, conclude che gli attuali messaggi culturali non solo si sarebbero attenuati, ma sarebbero stati rimpiazzati da una sorta di lussuosa routine.

E allora forse l’intervento del Corriere della Grisi per il morente Maggio Musicale è un po’ inutile o dal sapore “sparare sulla croce rossa”  e me lo sono chiesto –confesso- prima di scrivere.

Che il Maggio abbia rappresentato qualche cosa di nuovo nei suoi primi venticinque anni nessuno deve osare discuterlo. Quando si disponeva di un direttore della cultura di Gui, che aveva, però, l’umiltà o la furbizia, a differenza del suo più duraturo successore, di chiamare (anche per le stagioni invernali) le maggiori o più esperte bacchette del periodo vuoi per l’opera che per la sinfonica,  quando si era in grado di offrire SOLI IN ITALIA spazi ad artisti (mi limito al canto) come  la Ponselle, la  Onegin, Kipnis, quando si fu primi a proporre un titolo come Orfeo ed Euridice di Haydn od a chiamare direttori come Krips, Mitropoulos, Kleiber padre ogni censura o critica è fuori luogo. Aggiungo che non si debba discutere come certi titoli venissero offerti, fosse il Monteverdi strumentato da Zandonai o da Benvenuti,  o il Rossini del 1952 (dove, però, vennero proposti per i 160 anni dalla nascita dell’autore ben sei titoli del medesimo fra cui Tancredi, Tell ed Armida ovvero sostenendo  in un mese un onere artistico ignoto al ROF), perché era lo specchio dei tempi, diffuso e comune.  E, aggiungo, cara grazia che quei titoli si proponessero e soprattutto  che qualcuno avesse queste idee e la forza di portarle avanti.  Chiediamoci, invece, come una odierna  proposizione potrebbe assumere lo stesso senso e rilevanza, perché oggi in genere si sforna un preteso prodotto artistico uguale in tutto il mondo come si riscaldassero pietanze surgelate che, poi, si rivelano prodotti adulterati, meritevoli del ritiro dal commercio e dell’intervento dei nuclei antisofisticazione alimentare. Vedi, e qui torniamo al nostro presente, la (più volte rinnovata) proposta di un titolo novecentesco tanto raro da conoscere, nella stagione presente, allestimenti anche nei cosiddetti teatri di tradizione, che non dispongono – loro – dei fondi destinati a una manifestazione festivaliera.

Come si può aver da ridire che la Stuarda del 1967, quella che portò in Italia una bellissima e piuttosto brava Verrett e diede l’aura di  profetessa donizettiana alla Gencer, non fosse integrale e non vi fosse il rispetto e  l’osservanza della travagliata vicenda   rappresentativa del titolo medesimo, e le critiche potrebbero valere per il  primo Don Carlos del Maggio (1950), che allestiva dopo oltre mezzo secolo la versione in cinque atti, seppure in italiano e, pertanto, priva dei balli.  Letto l’encomiastico paginone  del Corriere, cui seguiranno rassegne stampa, dirette o differite radiofoniche non possiamo che rafforzarci nella convinzione, che ha dettato il titolo di questa piccola riflessione. Perché una Maria Stuarda affidata ad un soprano, che l’ha proposta in tutti i teatri italiani, un don Carlos prima pensato in un fastoso allestimento ronconiano e, poi, ridotto alla forma di concerto  dicono non della crisi economica in cui si  dibatte il teatro, specchio dell’Italia, ma di altra, più antica e grave quella delle idee, che agita il teatro italiano e che è lo specchio della qualità costante ed uniforme dei soggetti pagati e preposti alla gestione del danaro pubblico, al “fare cultura” e della loro – anch’essa costante ed uniforme- mancanza di realismo e buon senso.

La combinazione di fallosa preparazione e carenza di realismo e buon senso è infallibile viatico per l’insuccesso in ogni campo della vita, non solo culturale.

Facciamo un elementare raffronto nel 1934 alla stagione di primavera (che sostituiva il Maggio, allora biennale, donde l’errore delle ottanta candeline per i pretesi 80 anni del festival fiorentino) si diede un titolo, allora ultra popolare ed ultra rappresentato come Forza del destino (oggi sarebbe una “riesumazione”), ma… lo si affidò ad un soprano (Elisabeth Rethberg) ed un tenore (Giovanni Martinelli), stabili presso il Met e, per contro, di rare presenze sui palcoscenici italiani, entrambi ingaggiati da Tullio Serafin, che  a New York più volte li aveva diretti, e non solo, il protagonista  maschile venne messo a confronto diretto con Aureliano Pertile, che era anche suo cugino e soprattutto  il tenore verdiano per eccellenza sulle scene italiane. Questo era e rimane un modello di fare spettacolo, cultura ed anche cassetta o almeno tutto esaurito, elemento del quale da tempo ci siamo dimenticati e che è anch’esso un termometro della vivacità e vitalità del teatro.

Quando le prenotazioni per questa prossima Stuarda o don Carlos e mi taccio circa il Farnace, che fra i cento titoli operistici  vivaldiani ormai conta trent’anni di allestimenti e del quale non sembra sia stato neppure ricostruito lo spartito, saranno inesorabilmente tali da far comprendere che due recite, in luogo delle programmate cinque, fossero sufficienti perchè l’evento non è tale ad onta dei paginoni dei quotidiani, il teorema carente preparazione e mancanza di realistico buon senso saranno una volta di più dimostrati. A nostre spese, a spese della musica perché bastava poco per trovare altri titoli, altri interpreti.

 

Gli ascolti

Caccini

AmarilliSigrid Onegin (1920)

Massenet

Serenade du passantSigrid Onegin (1925)

Arditi

Leggiero invisibile (Bolero)Sigrid Onegin (1928)

 

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Un pensiero su “Requiem per il Maggio

  1. Una sola risposta. Questo post è scritto in maniera bestiale, con la zappa. Io penso che bisognerebbe avere un po’ più di rispetto per chi legge; in altre parole, occorrerebbe impegnarsi un po’ di più. Quando si scrive così, non si ha il minimo diritto di indignarsi per lo scarso rispetto che certi cantanti dimostrano per la grammatica e la sintassi della propria arte. E la cosa mi offende ancora di più, visto che qui si parla della mia città. Caro Donzelli, hai fatto il liceo classico e sei laureato; insomma, un po’ di decenza! Hai tutti i mezzi per rispettare chi è interessanto a leggerti. Non credi?
    Marco Ninci

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