2.500.000. Il mito della primadonna verista: i primi dieci anni di TOSCA

darclee2.500.000 accessi al sito ! Altra festa musicale. Altro mito. Non già classico come quello di Orfeo con cui, non più tardi di quattro mesi fa, festeggiammo i 2.250.000 ingressi, ma moderno ed attuale. Quindi, per entrare in medias res delle polemiche di questi giorni, non già il regista, ma la primadonna. E per giunta una primadonna che più primadonna non esiste, ovvero la primadonna verista che in Floria Tosca, ancor più che in Francesca, Iris e Fedora, trova la più alta e completa espressione in quanto primadonna, che incarna una primadonna.
Eroina liberty di quelle che secondo l’iconografia coeva si aggrappava alle tende e si riversava, o veniva riversata, sul canapè. Con buona pace del teatro di regia date alla protagonista di Tosca tenda e canapè e avrete, appunto TOSCA. Poi, anzi prima bisogna dare all’eroina voce, tecnica, gusto e sensibilità.
Abbiamo scelto  le registrazioni dei primi dieci anni di Tosca, ovvero pur nei limiti della celebrazione, andare ad analizzare come sin dal primo decennio di circolazione venisse cantata ed interpretata la cantante di Puccini.
Partiamo con quello che non c’è ossia Hericlea Darclée,  la prima Tosca, ma anche la prima Wally e la prima Iris, che registrò le due arie di Tosca (ossia “Non la sospiri la nostra casetta” ed il più famoso “Vissi d’arte”) senza, però, autorizzarne la pubblicazione. Della voce della prima Tosca rimane, incisa ben oltre la sessantina, una canzoncina popolare rumena, che testimonia per quanto possibile la saldezza e la bellezza della voce nella zona centrale della voce. Osservo che la Darclée proveniva dalle fila dei soprani di impianto ottocentesco e che nel suo repertorio figuravano Maria di Rohan, Ugonotti, Africana. Poi la bellezza, l’eleganza e la capacità scenica ne fecero uno dei soprani del “nuovo repertorio”. Nei teatri italiani, sudamericani e  delle terre dell’Impero dei Romanov, fra il 1900 ed il1915 detenne il monopolio del ruolo.
Ebbe, però, in quei teatri una pericolosa, invasiva e prorompente concorrente Emma Carelli, che debuttò il ruolo nel 1900 a Buenos Aires.
La Carelli è documentata  nel Vissi d’arte e nella scena con Scarpia (Mario Sammarco). Tutti sappiamo che la  Carelli, a differenza di una Darclée, per quanto si dice, e di una Storchio o una Kruscenisky, per quanto si sente, inventò il gusto più crudamente verista dove la drammaturgia e l’espressione sconvolgeva il canto. Con il soprano napoletano vale il “prendere o lasciare”, non sono possibili vie di mezzo. Ascoltando i reperti della Carelli comprendiamo la novità interpretativa  di cui fu la portatrice dove il canto è sacrificato per il dire, un dire coniato sui modelli delle grandi attrici come la Duse, Maria Melato, Irma Gramatica. Poi alla bisogna ovvero in corrispondenza del momento drammatico la Carelli sapeva anche cantare e sfoggiava  una splendida smorzatura su “fiori agli altari” e si destreggia con abilità nella chiusa del “vissi d’arte”. Per la scena con Scarpia non si può che utilizzare l’ossimoro “sublime baraccona”.
I primi dieci anni di Tosca documentano anche esecuzioni vocali irreprensibili e sfumate come quella di Celestina Boninsegna (Tosca nel  1901 a Santiago e Lima e poi nel 1908 a Madrid, nel 1910 a Boston), ma per un soprano verdiano, oltre tutto di forte complessione fisica e scarsa avvenenza, Tosca doveva restare un episodio marginale in una grande carriera. Eppure, proprio perché sin dal primo decennio di vita, le tendenze interpretative di Tosca erano già tutte emerse, una Boninsegna rappresenta il modello  di Tosca di splendida e sontuosa voce (come poi la Tebaldi) e che utilizzava il “vissi d’arte” quale palestra per  sfoggiare splendore vocale e raffinatezza tecnica, come accade con la Arangi-Lombardi o la Cerquetti. Va ulteriormente precisato che Tosca, come successivamente Turandot, affascinò e richiamò fra le proprie interpreti soprani che per gusto e temperamento erano dedite al repertorio verdiano e romantico, come accadde per Ester Mazzoleni, che registrò con il proprio partner fisso (Giovanni Zenatello) i duetti dell’opera.
carelli as toscaRifuggirono, invece, l’esasperazione del personaggio quei soprani veristi come la Storchio o la Ferrani (ed anche la Pandolfini, che cantò molto raramente Tosca) che prediligevano l’aspetto intimistico ed interiore, le pascoliane “piccole cose”, assolutamente estranee all’estroversione di Floria, che è prima di tutto una primadonna che in scena ripropone sé stessa, con alto rischio di parodia e involontario comico.
Non tutte le interpreti di Tosca del primo decennio si attennero al crudo verismo di una Carelli o di una  Bellincioni. Basta ascoltare l’esecuzione d’altra grandissima primadonna, per la quale l’aggettivo verista è molto riduttivo, Salomea Kruscenisky, il cui repertorio ricorda quello della Darclée, per rendersi conto come ,limitatamente al Vissi d’arte, si possano coniugare interpretazione e canto di altissima scuola, anche se non si tratta di una delle più spettacolari registrazioni del soprano ucraino.
Come la Darclée, la Krusceniscky fu Tosca nei maggiori teatri italiani, sudamericani e russi, dove una delle prime interpreti e la prima ad approdare in sala d’incisione fu Medea Mei-Figner, fiorentina di nascita, italiana di scuola, russa di elezione per amore del “bel” Nicola Figner che, emulo di Mario de Candia, lasciò la divisa per le tavole del palcoscenico. Analoga linea interpretava e vocale per Emmy Destinn, la quale sfoggia, ad onta di una poco gradevole fissità di suono alla chiusa dell’aria, il più elegante e dolente attacco di “Vissi d’arte”, credo in grazia di un mezzo straordinario solo parzialmente captato dalle registrazioni.
Dopo le prime rappresentazioni italiane (Roma gennaio 1900, Milano febbraio, Napoli marzo) Tosca approdò negli Stati Uniti ed al suo massimo teatro, dove nel primo decennio fu l’opera di Milka Ternina ed Emma Eames. Come nel caso di Hericlea Darclée non ci sono documenti ( a parte inudibili estratti del  finale terzo dei cilindri Mapleson) fonografici della Ternina, soprano drammatico di copiosa frequentazione wagneriana, mentre abbondano (Maplseon compresi della scena della tortura) per Emma Eames. Entrambe sono modelli per Tosche future. Milka Ternina  inaugura il rapporto, intenso,  fra Puccini ed i soprani wagneriani, che nel primo decennio di registrazioni trova un’esemplare esecuzione dell’arioso “non la sospiri” in Olive Fremstad, che risolve con esemplare  facilità la salita al si bem di “voci delle cose”. Ennesima riprova, smentita solo dalle recenti incensate Brunilde o Isotta, che la cantante wagneriana non può differire da quella verdiana o pucciniana, se vuole essere una cantante.
emmy destinnPiù problematico il caso Eames dai cui dischi si deve concludere che l’unico motivo del lungo rapporto con la cantante pucciniana, dovesse essere l’avvenenza. Carente il controllo della voce soprattutto nella fascia medio alta, che rende impossibile smorzature e chiaroscuri, noiosa, quindi, l’interprete. Incomprensibile il mito della Eames che non solo l’excursus storico, ma anche una Tosca di identiche qualità (Kiri Te Kanawa) impone di inserire nella nostra celebrazione. E’ paradossale, ma è assai più completa e pertinente l’esecuzione del Vissi d’arte di Lina Cavalieri, anche lei approdata a Tosca (come pura a Fedora e Thais)  per virtù differenti dalla voce, ma varia, intima e sfumata. Una grande dinnanzi alla Eames.
Ho accennato che talvolta il “vissi d’arte” è stato diletto per mettere in evidenza le doti canore e tecniche di cantante che non hanno, in scena, affrontato Tosca. E’ quindi doveroso offrire il glaciale, suonato Vissi d’arte della Melba e quello (autobiografico verrebbe da dire) di Regina Pacini Alvear, che da parte sua dimostra come l’egregio e completo supporto tecnico consenta anche ad un soprano leggero di spiegare un centro gradevole e sonoro. E poi anche la prima delle due Tosca da concerto ci insegna come Joan Sutherland, quando suonò come nessuna altra il Vissi d’arte, lo fece, come tutta la propria carriera, richiamando insigni e divistici precedenti.

 

 

Gli ascolti

Puccini – Tosca

 

Atto I

Non la sospiri la nostra casetta – Olive Fremstad (1913)

 

Atto II

Quanto? Il prezzo! – Emma Carelli e Mario Sammarco (1903)

Vissi d’arte

Medea Mei-Figner (1901)

Amelia Pinto (1902)

Salomea Kruscenisky (1902)

Emma Carelli (1903)

Gemma Bellincioni (1905)

Emma Eames (1905)

Regina Pacini (1906)

Nellie Melba (1907)

eugenia burzioElise Elizza (1907)

Celestina Boninsegna (1910)

Lina Cavalieri (1910)

Olive Fremstad (1911)

Emmy Destinn (1914)


Atto III

O dolci mani mansuete e pure – Eugenia Burzio e Giuseppe Acerbi (1916)

Amaro sol per te m’era il morire…Trionfal di nuova speme – Ester Mazzoleni e Giovanni Zenatello (1911), Eugenia Burzio e Giuseppe Acerbi (1916)

 

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45 pensieri su “2.500.000. Il mito della primadonna verista: i primi dieci anni di TOSCA

  1. ciao la destinn è una cantante difficile da capire se piaceva a direttori italiani il difetto forse non era così evidente o i direttori se la dovevano prendere perché era la diva . Allora come adesso. Pensa anche alla farrar prima suora angelica quando la muzio venne confinata a fare tabarro. Il timbro era però molto bello, questo le va riconosciuto. Rimane una cantante poco accetta al nostro gusto. Aveva anche un buon trillo cometutte le cantanti di scuola austro ungarica. Riconosco che certe idee della burzio sono inarrivabili vedi attacco di pace mio dio. Ciao e ben venuto

  2. Grazie, ho creduto non fossero necessarie presentazioni. Dunque, i cantanti di scuola tedesca sarebbero quindi quasi tutti difficili da capire, almeno per me, anche perché risultano sovente duri, e gli acuti fissi sono assolutamente insopportabili. Mi dispiace non apprezzare in fondo la Destinn, conosco tutte le sue incisioni isolate, sia la Caemen che il Faust,incisi con Jorn. Nella Carmen è più tollerabile questa fissità, si capisce che è una personalità notevole. Ma complessivamente preferisco mille volte l’emissione di scuola italiana e spagnola, c’è una differenza grande tra lo squillo della Mazzoleni e la fissità della Destinn. Questo è un problema che affligge anche molti tenori e baritoni di scuola tedesca di primo ‘900.

  3. Sia Urlus che Jadlowker sono baritenori che hanno acuti fissi. Jadlowker dal La naturale in su ha un’emissione fissa, e anche il falsettone risulta fisso(vedere l’aria del Faust incisa in tono, in cui emette un Do acuto in falsettone alla francese,ma fisso). Urlus, altro grande baritenore, voce di bellissimo colore, grande morbidezza al centro, dal La bemolle acuto prevale la risonanza di testa nella sua emissione, quindi il risultato – a mio giudizio –
    è uno squilibrio tra centro e acuti. L’aria della Juive di Urlus è emblematica in questo senso. È un peccato ascoltare tanta morbidezza d’emissione e acuti essenzialmente stretti. Tauber, grande tenore austriaco di lingua tedesca, arrivava di petto a un Sol. Il La bemolle è già faticoso in Tauber. Certo, è stato un grande tenore come gli altri due, grandissimo stilista, cantante raffinato. Ma, in fin dei conti, preferisco Slezak, che reputo il più completo tenore di lingua tedesca di prima metà del ‘900. A parte la sua stupenda morbidezza unita allo squillo nell’acuto, questo illustre tenore aveva una grande abilità nel registro di testa. Vedere le incisioni di Slezak del Tell, Lakmè, Faust etc

    • a me avrai capito piacciono tutti compreso jorn, di cui non abbiamo parlato . Ritengo tutti i duetti jadlowker hempel capolavori anche se sento le fissità . Concordo con te sulla qualità timbrica di leo slezak. L’aria della dame blanche è perfetta, ma anche quella di jadlowker del fra diavolo! ciao

  4. La Boninsegna è fenomenale. L’intonazione, gente, l’intonazione rasenta la perfezione. E di stonature in quest’aria se ne sentono a iosa nelle altre cantanti. Suono puro, bellissimo soprattutto in alto dove riesce ad essere anche leggera e sfumata. Un grande esempio.

  5. Ciao a tutti.
    Ma la trovate veramente cosi’ fastidiosa
    la chiusura dell’aria da parte della Destinn?
    E’ secondo me un bellissimo “Vissi d’arte”.
    Non e’ bello come quello inciso l’anno precedente,
    ma modulato , con voce splendida, di rara
    uguaglianza, molto nobile, detto benissimo.
    E se in brano eseguito cosi’, trovo un acuto
    un poco fisso, be’ io soprassiedo.
    Secondo solo, tra quelli postati, a quello della Celestina.
    Boninsegna, canta meglio di tutte, ed e’ l’unica a poter
    confrontarsi con le grandi incisioni del brano a venire.
    Non conoscevo l’incisione di Krusheninsky, che
    comunque non mi piace.
    E trovo sempre una meraviglia il finale dell’opera
    con Mazzoleni e Zenatello.
    Ben vengano inoltre le preghiere di Tosca eseguite
    dai leggeri, se cantate ed interpretate come dalla
    grande Pacini. Ciao

    • Volevo dirlo io, Miguel… a me pare un Vissi d’arte eccellente, con anche un’ottima pronuncia, e francamente non ci sento la fissità che invece vizia altre incisioni della Destinn. Quanto alla Boninsegna, non so se il suo Vissi d’arte sia il migliore, solo che ogni volta che ascolto quella cantante rimango impressionato dalla bellezza dell’emissione, della voce…

  6. La Boninsegna è stata per decenni uno dei soprani di primo ‘900 più ricercati tra i collezionisti di dischi. In effetti è tra le prime voci di soprano a risultare pastosa in disco, omogenea e stupendamente emessa. Ha scarsa personalità però, manca di autentico abbandono e di accento tragico,e raramente m’ha esaltato un suo disco. Canta molto bene, è vero, ma la Burzio e la Mazzoleni sono un’altra cosa. La Burzio, nonostante apra a dismisura i centro/gravi al modo dei soprani veristi dell’epoca, ha una voce stupenda, è interprete animatissima e il velluto della voce traspare benissimo dalle rudomentali incisioni. La Mazzoleni è una grande stilista, non vanta un velluto stupendo come la Burzio ma ha uno squillo quasi maggiore. Sentirla cantare il grande repertorio romantico, da Bellini a Verdi ( c’è uno straordinario “Arrigo, a questo core” dai Vespri), è grande esperienza e grandissima lezione di canto e di stile .

  7. Per Giulia :
    Ecco, brava! Hai usato il giusto aggettivo, “facile”
    canta e fa sembrare tutto “facile”. Sta di fatto che,
    se tiri via un “sospir di difetto” su due “i”, il brano e’
    vocalmente inattaccabile.

    Per Mancini :
    Ciao caro,
    Intendevo “meglio cantato” riferito al primo decennio,
    ovviamente.

    Per Cortecci :
    Capisco quello che vuoi dire, ma generalmente,
    sul CDG si bada molto al metodo, lo saprai.
    Ed e’ per questo che alcuni di noi preferiscono
    la Celestina, perche’ nel primo decennio, vocalmente,
    del “Vissi d’arte”, ha reso la miglior prova.
    Poi, certo, dopo 4 anni ci sarebbe stata l’incisione della
    Farneti, dopo altri 4 quella della Caracciolo dopo altri 10
    quella della Giannina etc etc etc e allora anche la
    Boninsegna…verra’ a patti

  8. Che cosa intendo per aprire? Beh, intendo semplicemente un suono non coperto, poco o per nulla immascherato, più vicino agli effetti della voce parlata. È risaputo che la Burzio si buttasse in terra 9 volte su dieci per lacerarsi nelle interprtazioni,dai dischi questo gusto , conune poi al 98% dei soprani del periodo 1900/1930,si evince bene con le aperture di suono nel registro grave. Non ho ascoltato adesso questo brano che hai postato ma conosco benissimo tutti i suoi dischi . Soprano difficile da definire, è un misto di gusto verista e tecnica d’emissione romantica. Gusto verista nel registro grave aperto e talvolta sguaiato, tecnica d’emissione romantica nel registro acuto con messe di voci purissime, legato unito allo squillo e alla morbidezza d’emissione L’attacco del “Pace mio Dio” è emblematico in questo senso. L’aria dal Ballo in Maschera anche. L’aria di Santuzza è emblematica nell’altro senso, in cui la contaminazione verista prevale su tutta la linea vocale del brano, con i gravi e i primi centri aperti. Nonostante ciò, ripeto, la Burzio l’apprezzo molto di più della Boninsega: la sento animata, passionale, dolente, fervida, emotiva. L’altra è molto più meccanica. Se vogliamo dirla tutta poi, ascoltando Casta Diva della Boninsegna del 1904, si percepiscono i gravi sempre piu aperti rispetto alla gamma centrale e acuta. Ma questa contaminazione del gusto verista di fine ‘800 credo non risparmiasse nessun soprano. La
    Caracciolo non la prendo in considerazione. La Farneti invece desta grandissimo interesse, forse più nelle incisioni del 1932 che in quelle del 1910. Anche lei nata in epoca verista, a mio giudizio ripropone il tipo vocale della Mazzoleni: tecnica d’emissione e gusto romantici. Ha debuttato nel 1899 e s’è ritirata nel 1917 se non sbaglio, le incisoni del 1932 sono stupefacenti per la morbidezza,lo squillo e la purezza della voce,se si considera poi che era sui 55..

    • E allora come intendi “coperto”? Non credo si possa coprire al centro ed in basso come si “coprono” gli acuti per rinforzare la risonanza degli acuti.
      Anche la Boninsegna mi pare abbia semplicemente dei gravi molto franchi. Credo che il problema è piuttosto la nostra lontananza da quella sonorità.
      Come si fa a mantenere la voce tutta uguale per risonanza e facilità se per esempio scendendo dalla voce “mista”, quindi dal centro della voce femminile, non si allegerisce e chiarisce il suono per passare sottilmente ai gravi?
      Poi, ovviamente c’è una differenza fra i gravi della Stignani e quelli della Burzio, ma non mi sembra i gravi della Burzio e della BOninsegna siano meno “immascherati”. Hanno una posizione altissima.
      Sono divenuto un po allergico al vocabolario dell’immascheramento, perché alla fine la maschera non vuol dire niente. O riesci a dare la massima brillantezza alla voce o no. E’ proprio cercando la maschera che si è finito per avere voci del tutto nasali…

  9. Il problema, Cortecci,
    e’ che nelle incisioni a carriera terminata
    la Farneti non incise “Vissi d’arte”.
    Non posso sapere come l’avrebbe eseguito,
    nei Columbia 32, (anche se e’ facile immaginarlo),
    ma nel Fonotipia 14 e’ semplicemente perfetta.
    Poiche’ alla caratura della Boninsegna, unisce
    un maggior pathos, anche se lo strumento
    non e’ cosi’ privilegiato come quello della
    Celestina. Peccato non prendere in considerazione
    Caracciolo pero’, gran “Vissi d’arte”, il suo,
    secondo me, ovvio.

  10. Senti Giulia Grisi, il problema lo vedo molto più semplice. Ascoltato la Burzio (non so quante decine di volte), sento un registro grave sovente aperto e slabbrato. Man mano che la voce sale, s’immaschera sempre di più, ottenendo morbidezza e risonanza, capacità di legare e , insomma, tutto il corredo che occorre per cantare bene. Non mi pare paradossale. Quello che ho cercato di dire è che la Burzio non è che slabbrasse il suono nel grave per insipienza tecnica, ma proprio per l’imperversante gusto verista che aveva deformato l’emissione dei soprani e mezzosoprani dal 1893 in poi,e cioè, dopo la nascita di Cavalleria. Quindi, il limite di stile e di gusto, si ripercuote negativamente sull’emissione. E non è esente nemmeno la lodata Boninsegna, che tende ad aprire un pò nel basso perdendo rotondità. Nemmeno la Mazzoleni, grandissima stilista, è completamente esente da questa contaminazione verista. Anzi, ti dirò: occorrerà attendere l’Arangi Lombardi, anch’essa venuta fuori in epoca di “verismo sopranile” se me lo concedete, per avere un’idea esaustiva di ciò che volesse dire compiutamente suono immascheratissimo in tutta la gamma. Almeno, io la vedo così. Con questo limite , la Burzio, ascoltata oggi, è tuttora grandissima personalità. Per tutti i motivi che ho detto nell’intervento precedente. È vero, la Farneti incise il Vissi nel 1917 e non nel ’32, ma mi riferivo a tutte le incisioni in blocco di quell’epoca. La freschezza e la brillantezza della sua voce mi colpiscono profondamente, se penso che era sui 55, con quegli acuti! Un caso molto simile alla Farneti, a es ,è quello della Poli Randaccio. Altro soprano eccezionale. Ha inciso pochi dischi, acustici e elettrici, ma tutti estremamente elettrizzanti. Famosissimo il duetto dal Trovatore con Inghilleri, inciso nel ’28. Ecco cos’è un autentico soprano di forza, ma morbido nell’emissione, con squillo trascendentale. Ma non solo questo duetto, anche le incisioni acustiche della Poli Randaccio sono estremamente interessanti. Sentire modulare e legare una voce di tale risonanza, anche all’epoca , credo fosse esperienza rara.

    • mi pare che queste tue osservazioni circa stile e tecnica dei gravi delle veriste noi le abbiamo scritte varie volte in varie occasioni. Trovo la boninsegna piu contenuta e piu vicina a noi come gusto. Punto.

  11. è vero che tal volta i gravi della arangi lombardi non siano ben coperti. Evidente nel confronto con la stignani nel duetto di gioconda come non lo sono quelli della ponsell il primo passagg gira meglio in molti soprani di area austro ungarica o tedesca. E tanto per essere monotono in giannina russ.

  12. Le questioni dell’aperto/coperto, della maschera, del registro di petto, del verismo contrapposto al belcanto, sono state sempre affrontate in modo poco elastico, rigido, a compartimenti stagni, e quindi equivocate. Addirittura Gianluigi Cortecci qui sopra scrive che la Cavalleria Rusticana nel ’93 avrebbe segnato una rivoluzione copernicana nell’emissione di tutti i soprani e mezzosoprani (e, fosse anche vero, perché solo le donne e non anche tenori baritoni bassi? boh…). L’unica verità in tutto ciò è che oggi sentire i gravi di petto nelle donne ci fa storcere il naso, per cui allo scopo di “contenere lo scandalo”, la critica ha fantasticato che i soprani del primo Novecento fossero tutti corrotti dal gusto verista, che aveva sovvertito le regole del belcanto. Questa giustificazione funziona solo perché non abbiamo documentazione fonografica dei soprani delle generazioni precedenti, ma stando a quando raccontano certe cronache, probabilmente le leggendarie eroine belcantiste con la voce ne facevano… di tutti i colori. Riguardo al dualismo aperto/coperto, la scuola italiana documentata sin dai manuali più antichi ha sempre prediletto l’educazione della voce sulla vocale A, chiara e aperta. La stessa scuola prescrive da sempre l’uso del registro di petto nelle corde gravi (e medie nell’uomo) e il falsetto/testa in quelle acute (e medie nelle donne), opportunamente saldati. Il concetto di “maschera”, che addirittura in un trattato di Lamperti è indicato come difetto di emissione, ha origine con la foniatria ottocentesca, e attiene comunque all’imposto, alla posizione alta, alla voce che corre, non ai registri, e neanche all’aperto/coperto. Invece è stato via via confuso con il registro di “testa”, e questo ha dato luogo al tabù della voce di petto, come se nel registro di testa (che non è altro che corda molto tesa e assottigliata) la voce fosse sempre “in maschera”, e invece nel registro di petto (che non è altro che corda piena, spessa), la voce fosse “bassa” , svaccata, ingolata (dal che si dovrebbe dedurre che la voce maschile, che per tre quarti di gamma è di petto, sia svaccata, il che è un’assurdità). La conseguenza di ciò è che oggi abbiamo soprani e mezzosoprani che per non fare i gravi nel registro di petto, scendono ingolando, intubando ed incavernando il registro medio, con pronuncia ostrogota e suono stimbrato che non passa l’orchestra. Infine, a proposito del “parlato”, a dire che “si canta come si parla” non era un qualche cane verista ma era Tito Schipa.

    • Perché il gusto verista ha contaminato essenzialmente le voci femminili e ha solo sfiorato le voci maschili? Non è difficile dedurlo, abbiamo sufficiente documentazione discografica d’inizio secolo per poterlo confutare. Prendiamo cantanti di cartello. I primi Tenori che affrontarono il repertorio verista ad aver lasciato incisioni, tipo De Lucia, Marconi, Tamagno, Sognoretti, Vinas, Giraud etc, non hanno il problema del registro grave aperto o slabbrato, o che si lacerino nelle interpretazioni. Al contrario, specie nel caso di De Lucia, che era uno dei prediletti di Mascagni, e che tra il 1891 e il 1906 cantò repertorio verista e drammatico,le incisioni di questo repertorio lo ritraggono eccezionalmente contenuto vocalemente e interpretativamente. Le prime interpreti veriste che hanno lasciato testimonianze discografiche, a cominciare dalla Bellincioni, hanno il problema dell’apertura di suono nel registro grave. Non è una mia invenzione, è la realtà dei fatti; e c’è poco da stupirsi. Non capisco però l’associazione con Schipa al termine dell’intervento di Mancini. Certo, aveva la facilità di chi parla, cantando. Un conto dire questo, un altro dire “si canta come si parla”. E poi queste citazioni di grandi cantanti, le prenderei con le pinze. Detto da lui che era un fenomeno, facile…

      • Era un fenomeno perché non “faceva” la voce, perché cantava come parlava. Credi davvero di saperne più tu di Schipa? Tutti i tenori da te citati, e potrei aggiungere un baritono comunemente considerato agli antipodi dello stile verista, ossia Battistini, avevano centri (e a volte anche gli acuti) aperti, talora anche fastidiosamente. Io non nego che i soprani un tempo aprissero i suoni, nego che questo sia un “problema” o una “contaminazione”, e nego che prima del verismo non si facesse.

        • “L’unica verità in tutto ciò è che oggi sentire i gravi di petto nelle donne ci fa storcere il naso, per cui allo scopo di “contenere lo scandalo”, la critica ha fantasticato che i soprani del primo Novecento fossero tutti corrotti dal gusto verista, che aveva sovvertito le regole del belcanto”. Oggi fa storcere il naso ascoltare suoni aperti nel registro grave. Questo concetto l’aveva già espresso Celletti 60 anni fa su Musica e Dischi. non proprio oggi. E non credo proprio esprimesse ciò per arginare lo scandalo delle sguaiataggini dei soprani veristi.

          • Ma caro Cortecci,
            Se i suoni di petto, visto che sto benedetto registro esiste, sono emessi bene, nessuno ha da dire proprio nulla. Hai sentito la Sig. Obukhova che t’ha postato la Giuditta, no?
            E che imparino ad emetterle anche le altre, se son capaci, queste note. E per contro, non e’ detto che un suono emesso in modo plateale debba per forza essere aperto, slabbrato, inficiato, chiamalo come vuoi, e’ semplicemente emesso in modo plateale. Esattamente come la nota di petto emessa bene, che dev’essere? Un rutto forse? No, e’ una nota emessa di petto. Celletti non aborriva il metodo, ma il gusto, quel gusto che rovino’ generazioni di cantori, i quali porelli, mancando di solide basi tecniche, non sapendo distribuire il fiato, contando sulla momentanea pienezza e freschezza dei mezzi, pensavano di essere dei grandi artisti semplicemente perche’ “ci davano dentro” piu’degli altri…ed avevano a modello dei grandi artisti, che invece erano si in grado di ben cantare , pur con un gusto che oggi non e’ piu’ il nostro, e non lo era gia’ piu’ sessant’anni fa. Esattamente come qualcuno oggi vede nell’abilita’ o pseudoabilita’ scenica, magari unita ad una bella presenza, la grandezza del baritono o del soprano di turno…Al di la’,
            ci sono poi situazioni sceniche, repertori particolari,
            che le note di petto insomma, le richiedono anche, le note pero’, non le digestioni.
            Voglio proprio vedere l’anno prossimo quella poveretta che verra’ a Milano a cantare la Lubasha della “Fidanzata dello tsar”, se non sa emettere qualche suono sonoro sotto il rigo, di petto o no che sia, cosa ci fara’ sentire….
            Felice che ti piaccia tanto la Tina Poli Randaccio. Piace anche a me.

      • BATTISTINI aveva centri aperti anche fastidiosamente? Io ascolto semplicemente una voce molto chiara, ma penetrante e risonante. Non ascolto minimamente centri aperti,talvolta pure fastidiosamente. E BATTISTINI lo conosco bene. Comunque , va bene tutto.

    • Bene, secondo Mancini, è invenzione della critica il fatto delle aperture e sguaiataggini dei soprani di primo ‘900. Dunque , mi spiega qualcuno perché, ascoltando Giannina Arangi Lombardi o – in misura minore però- Rosa Ponselle,non percepisco un suono nel centro e nei gravi aperto?

  13. quando vi mettete a discutere d cantanti del mefio evo si crea un sovraccarico sugli smartphone d prima generaxione come il mio. Qui in montagna ce’ un tecnico che puo’ al massimo riparare le Rex o i De Longhi per cui andateci piano

  14. Premetto che come cantano oggi i cantanti, non m’interessa. Il mio rapporto col teatro lirico si basa sul disco e sulla storia della vocalità attraverso le incisioni. Mi fermo alla Rossini renaissance degli anni ’80, con Blake e Merritt. Quello accaduto dopo e che accade oggi, non mi riguarda. Detto questo, capisco che c’è una certa tolleranza quì, verso i suoni aperti dei soprani citati sopra. Non si nega che codesti suoni siano aperti e talvolta slabbrati, si nega che ciò costituisca un problema. Per me lo è, eccome. Ho chiesto perché, contrariamente alla maggior parte dei soprani venuti furi in epoca verista,l’Arangi Lombardi e la Ponselle non aprano nel centro-grave. Mi è stato detto che in parte lo fanno anche loro! Questo, io non lo sento proprio. Ammesso e non concesso Che poi la Retbergher, cantante fredda e distaccata, scenda perfettamente e meglio dell’Arangi Lombardi, mi rende felice. Ma non potrei ascoltarla che per pochi istanti, tanto è l’effetto soporifero che ha su di me. Quindi, capisco sia perfettamente inutile continuare la discussione.

  15. Trovo piuttosto negativa l’emissione della Arangi lombardi nel centro-grave, molto costruita, innaturale, priva di libertà e schiettezza. Dà la sensazione di essere molto impacciata in quella zona della voce. Ma il problema non mi pare affatto stia nell’emissione aperta, tutt’altro. La sento vuota, senza base, debole, anche indietro e con uno sgradevole birignao tendente al nasale, c’è un che di impastato, pronuncia molto distorta, come se si preoccupasse proprio di non aprire e volesse portare nei gravi il registro medio, senza passare di petto. Questa è l’impressione che mi dà. Non ci sento le plateali aperture di suono, lo schietto registro di petto ad esempio di una Burzio, che giudico comunque più giuste tecnicamente. Tutt’altro, la sento molto “costretta”. Parlo solo del centro-grave ovviamente.

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