“Invano, Alvaro…Le minacce e i fieri accenti”. Ottava puntata: Flaviano Labò e Bruno Prevedi

Flaviano_LabòPotremmo chiamarla la disfida del Po, visto che i suoi ideali contendenti sono nati, a un anno di distanza, a pochi chilometri dalle rive del fiume, che separa e unisce Lombardia ed Emilia. Sono le medesime terre che hanno dato i natali a quello che è stato senza dubbio il più paradigmatico Alvaro italiano del secondo dopoguerra, solo di poco più anziano di Flaviano Labò (1927-1991) e Bruno Prevedi (1928-1988). Entrambi tenori lirici, affrontarono sistematicamente il repertorio lirico spinto, alternando ai più onerosi titoli, verdiani (Forza del destino, Trovatore, Aida, Ballo in maschera, Don Carlo) e non solo (Gioconda, Turandot), quelli del melodramma classico e romantico, da Lucia di Lammermoor (Labò) a Norma, Medea e Vestale (Prevedi), senza trascurare, ovviamente, Bohème, Tosca, Rigoletto e Traviata. Titoli, questi ultimi, che allestiti ogni anno o quasi nei teatri, dai massimi (e all’apoca non ancora feudo esclusivo delle multinazionali del disco) a quelli della profonda provincia, erano fonte di introiti sicuri, oltre che meritati trionfi, per i cantanti che li avessero in repertorio.

Entrambi i tenori colgono del mentito padre Raffaele lo spirito del penitente come quello dell’aristocratico guerriero, che l’apparizione del mancato cognato richiama fatalmente alla luce. È però nei passi in recitativo e, più ancora, sulle grandi frasi cantabili come “No, non fu disonorata” e la successiva “Sulla terra l’ho adorata” che Prevedi e, soprattutto, Labò esprimono appieno la natura prettamente lirica delle rispettive voci, esibendo un legato solido e una posizione della voce costantemente “avanti” in zona medio alta. Labò si dimostra anche in grado di sostenere (avvalendosi di riprese di fiato sempre rispettose della scansione musicale delle frasi) un tempo ben più largo e solenne di quello seguito da Prevedi, e anche le forcelle previste dall’autore sono rispettate con maggiore puntualità dal tenore piacentino. La salita al si bemolle acuto (“e s’ella m’ama”) è risolta senza difficoltà da Labò, con minore disinvoltura (ma siamo sempre nell’ambito, oggi pressoché estinto, dei suoni timbrati) da Prevedi, che peraltro scende meglio del collega a “io mi prostro al vostro piè”, frase che in altri tempi sarebbe stata oggetto di un più che opportuno trasporto (pratica benissimo illustrata, fra l’altro, dall’incisione di Augusto Scampini, oggetto della prima puntata della nostra conventuale rassegna).

Alla rinnovata provocazione di don Carlo, il meticcio hidalgo replica nei due casi con la puntatura di tradizione al si bemolle acuto, irrinunciabile prerogativa tenorile che strappa al pubblico di Labò, nell’esecuzione del 1961 al teatro Magnani di Fidenza, un sacrosanto applauso a scena aperta, tanto da spiazzare lo stesso Cappuccilli, “costretto” (si fa per dire!) a tenere il fa bemolle acuto di “Finalmente!”, garantendo in tal modo la continuità drammatica della scena. “No, l’inferno non trionfi” sconta presso entrambi i tenori qualche lieve caduta di gusto, con occasionale ricorso al parlato, verosimilmente nel tentativo di rendere in maniera più efficace lo smarrimento dell’ormai ex penitente, mentre la chiusa, che richiede in pari misura veemenza e squillo, viene risolta con grande sicurezza da Prevedi e addirittura con spavalderia da Labò, che specie nella registrazione sopra richiamata sembra compiacersi di gareggiare con il baritono quanto a tenuta di fiati e insolente facilità del settore acuto della voce. bruno-prevediPeraltro in Cappuccilli, come del resto nel generosissimo Cesare Bardelli, non si riscontra analoga disinvoltura nella gestione non già di un singolo suono acuto, ma di una frase come “Una suora mi lasciasti”, in cui occorre passare dal registro medio a quello superiore e, quindi, di nuovo tornare al centro della voce. Punto in cui per contro rifulge la solidità e il gusto convenientemente aulico e altezzoso di Cornell Macneil.

Grandi le voci, più grande ancora, e più importante, la solida preparazione professionale, che consente a Prevedi come a Labò di risolvere agilmente le insidie di una pagina, e di una parte, che richiede un tenore versato tanto nel canto eroico quanto nella scansione drammatica. Sono, quelli dei cantanti nati presso le rive del Po, fra gli ultimi exploit in questa corda degni di essere menzionati, e costantemente ricordati a chi, ad anni di distanza e nei medesimi luoghi, si spella le mani (peraltro già piagate da non meno entusiastici consensi) per esecuzioni che sono agli antipodi, non già di queste, ma del buon gusto, dell’intelligenza e della memoria storica.

 

Gli ascolti

Verdi – La Forza del Destino

Atto IV

Invano Alvaro…Le minacce, i fieri accenti

1958 – Flaviano Labò, Cornell MacNeil

1961 – Flaviano Labò, Piero Cappuccilli

1963 – Bruno Prevedi, Cesare Bardelli

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