En attendant l’Africaine VII: Miguel Fleta.

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Basta l’attacco (un sol bemolle acuto, nota sempre a rischio perché collocata sul passaggio superiore della voce maschile) e Fleta ha già, come si dice (o si diceva) in gergo, fatto serata: un suono dolce, morbido, pienamente virile, senza le inflessioni eunucoidi che altri tenori, anche grandi e grandissimi, accusano in questa pagina quando tentano, spesso riuscendovi, di cantare piano e sfumato. L’arte di Fleta è tale che non solo riesce a onorare le copiose indicazioni dinamiche ed espressive previste dall’autore (spesso aggiungendone “di tasca propria” – su tutte le mezzavoce al primo enunciato di “o nuovo mondo”), ma sa (in particolare nella prima sezione del brano) dissimulare le riprese di fiato, al punto da renderle virtualmente inavvertibili. E’ una visione idealizzata e quasi semidivina del personaggio, che accomuna l’esploratore portoghese all’altro trasfigurato eroe di cui Fleta ha lasciato memorabile testimonianza: Lohengrin.

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