Wagner Edition: Wesendonck-Lieder

WESENDONCKNell’aprile del 1857 Richard Wagner, esule in Svizzera per sfuggire ad una condanna a morte seguita alla sua partecipazione ai moti rivoluzionari di Dresda del ’49, si trasferì con la moglie Minna in una piccola casa non lontana da Zurigo, tra le colline dell’Enge: la modesta abitazione, immersa nella campagna, si trovava nei pressi del parco della Villa Wesendonck, della quale costituiva una discreta dépendance. Wagner conobbe i Wesendonck verso la fine del 1851: dopo l’esecuzione di una sinfonia di Beethoven, diretta dal compositore, Otto, ricco imprenditore che aveva accumulato un notevole patrimonio partecipando ad una grande industria tessile di New York, rimase colpito dalle capacità del concertatore e lo volle includere nel suo giro di conoscenze per accrescere il proprio prestigio sociale. Ma il musicista scapigliato e rivoluzionario affascinò anche l’annoiata consorte di Otto, Mathilde, evidentemente insoddisfatta della tranquilla agiatezza della sua vita borghese ed in cerca di elevarsi spiritualmente attraverso la realizzazione delle proprie velleità artistiche. Nacque una profonda simpatia tra i tre: ma mentre Otto si occupava di allargare la borsa per finanziare il ribelle compositore e pagare i debiti che gli levavano il sonno, gli altri due iniziarono una relazione che da mera coincidenza intellettuale si trasformò presto in un’infatuazione clandestina. Il rapporto mantenuto più o meno segreto per diversi anni – tra missive e biglietti scambiati di nascosto con la complicità del personale di servizio della villa – ebbe una svolta col trasferimento dei Wagner presso la casetta (ribattezzata “Asilo” da un tripudiante Richard) acquistata per loro dall’ignaro Otto che pur intuendo il vero oggetto delle conversazioni d’arte tra la consorte e il musicista, arrivò ad assegnargli una pensione trimestrale di 500 franchi svizzeri e a dispensare Mathilde dai propri “doveri” coniugali. Ovviamente questa relazione speciale cominciò presto ad infastidire la signora Wagner che, intercettata una missiva piuttosto compromettente, si lasciò andare a scenate di gelosia nei confronti di Mathilde, la quale, a sua volta, offesa dalle legittime rimostranze di quella che riteneva una stupida e ordinaria donnetta, si atteggiava a Musa vittima dello spirito gretto del tempo. La situazione divenne intollerabile e le suggestioni romantiche lasciarono il posto ad una ben più misera commedia degli equivoci. Intervenne, incredibilmente, lo stesso Otto che allontanò Minna, inviandola a curarsi in un centro termale, permettendo così alla consorte e a Richard di chiarire una situazione che non poteva continuare: la signora Wagner tornò per allontanarsi subito e tornare a Dresda, ma ormai Mathilde era disillusa e presto Richard abbandonò la pace dell’Asilo, vagabondando di città in città, in attesa della grazia (che arriverà due anni dopo) e sfuggendo dai creditori. Il breve periodo di quiete, tuttavia, segna una svolta importante nella formazione wagneriana che intreccia vita privata ed istanze artistiche: lì il compositore interrompe il lavoro sul ciclo nibelungico per abbandonarsi alle suggestioni di una passione negata e nascosta, più letteraria che reale. E se non si può affermare con certezza come l’amore – vero o presunto – di Richard per Mathilde abbia influenzato la composizione del Tristan und Isolde, o piuttosto quella storia di amore e morte avesse dato origine all’infatuazione per la signora Wesendonck nell’immaginario di un compositore che non riusciva a distinguere tra arte e vita, non vi è alcun dubbio che il ciclo di lieder al lei intitolato, sia frutto diretto del rapporto con la sua presunta musa. Mathilde si dilettava nello scrivere versi nel limite della sua cultura e del suo sentire da agiata signora: versi piuttosto modesti, composti da ingenue suggestioni romantiche e dall’illusione di esercitare una vera ispirazione su Wagner. Forse il desiderio di sfuggire alla banalità di un’esistenza privilegiata, da un marito sposato probabilmente per interesse e da una società che non dava respiro a certe ispirazioni artistiche, convinse Mathilde a buttarsi nel gioco di passioni più desiderate che realmente vissute, soprattutto da parte del musicista per cui vale il sospetto di una certa mala fede. Mathilde infatti rappresentava per lui, oltre la certezza di un appoggio economico, l’idealità della passione rappresentata nei suoi poemi e nella sua musica. Wagner sfrutta Mathilde, ne sfrutta la fragilità e il disagio, convincendola e autoconvincendosi di provare sentimenti speculari a quelli cantati nel suo Tristan, quasi a trasfigurare nella vita vera i voli letterari delle proprie visioni estetiche. E così la vicenda si compone come la trama di un poema cavalleresco: l’artista ribelle, la donna idealizzata, l’amore nascosto e puro, il coniuge che la tiene prigioniera di un rapporto mal tollerato. Se però si aggiunge che quel marito paga anche i conti (della moglie e del suo amante) e i due si fanno beccare dalla legittima consorte come due ragazzini inesperti, il poema idealizzato diviene una brutta commedia borghese. In questa chiave vanno letti i cinque lieder su testo di Mathilde Wesendonck: un artificio mentale volto a ricoprire di suggestione romantica ed erotica una squallida vicenda di corna. Wagner li compone tra il novembre del 1857 e il maggio del 1858: Der Engel, Stehe still!, Im Treibhaus, Schmerzen, Träume vengono scritti per voce femminile e accompagnamento al pianoforte, nella più classica tradizione liederistica. Solo Träume venne poi trascritto per violino solista e orchestra da camera, per eseguirlo come serenata sotto le finestre della camera di Mathilde, approfittando dell’assenza del marito, in viaggio per affari. La versione per grande orchestra – quella oggi più diffusa – venne predisposta più tardi da Felix Mottl che, sovraccaricando i lieder di un denso tessuto sinfonico, ne compromette l’identità, trasformandoli in qualcosa di diverso e molto più ingombrante del delicato omaggio di un amante, se pure insincero. Nuove orchestrazioni furono predisposte in seguito, più rispettose dello spirito originale: l’italiano Vieri Tosatti (1972) e soprattutto Hans Werner Henze che nel 1976 predispose una splendida versione per orchestra da camera e contralto dove predomina un colore più scuro attraverso il timbro più basso e la ridotta scelta strumentale che vede la prevalenza dei fiati. Il ciclo, eseguito per la prima volta in pubblico il 30 luglio del 1862 a Magonza divenne un classico della voce di soprano, anche se non mancano esperimenti assai discutibili (e dai risultati inevitabilmente pessimi), affidati a voci maschili: da Melchior a Corelli (nell’immaginifico francese del tenore italiano per giunta), da Domingo a Bocelli, da Kollo a Kaufmann e persino a Paata Burchuladze. Dei cinque lieder i più interessanti sono Träume e Im Treibhaus, indicati come studi preparatori del Tristano: il primo racchiude il germe del duetto d’amore dell’Atto II con una piuttosto evidente enunciazione del tema iniziale dell’Inno alla Notte, mentre nel secondo si scorgono alcuni nuclei tematici poi sviluppati nel Preludio dell’Atto III. Ma il cromatismo tristaniano pervade l’intero ciclo (un riferimento all’Atto I è ravvisabile anche in Stehe still!). Con i “Cinque poemi per voce femminile con accompagnamento di pianoforte” iniziano quelle che Richard Strauss definirà le “divine partiture”: la strada per il Tristan è aperta e da lì al Ring e al Parsifal. Nel frattempo la passione per Mathilde si esaurisce – perché esaurita era la sua funzione ispiratrice – e i rapporti con i Wesendonck si raffreddano (salvo qualche generosa elargizione da parte di Otto che a questo punto non può che essere definito “fesso”). Anche il matrimonio con Minna si esurisce, pur senza mai arrivare al divorzio. Ma la “missione” di Wagner procede senza troppe preoccupazioni e sensi di colpa tra le suggestioni della “musica dell’avvenire”, incurante dei cocci lasciati per strada e delle vite spezzate nella sua esclusiva volontà di autorealizzazione artistica.

Gli ascolti

Versione originale per pianoforte:

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Orchestrazione di Felix Mottl:

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Orchestrazione di Hans Werner Henze:

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 Orchestrazione di Vieri Tosatti:

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35 pensieri su “Wagner Edition: Wesendonck-Lieder

  1. Francamente non vedo questa gran levatura morale o culturale in un marito consapevolmente “becco” (o quasi “becco” giacché non si ha certezza se il tradimento sia stato consumato anche carnalmente) che invece di piazzare un bel calcio nel deretano a moglie infedele e amico parassita, continua ad elargire denari e tollerare o favorire le scappatelle pseudo artistiche della consorte. Così come reputo ennesima dimostrazione della personale grettezza dell’uomo Wagner l’aver approfittato delle debolezze di una donna insoddisfatta e, contemporaneamente, del portafoglio del marito (del resto non si fece mai scrupoli in questo senso: di lì a poco sarebbe divenuto la sanguisuga personale del povero Ludwig). Per fortuna la genialità del musicista riscatta una biografia squallida e meschina…

  2. io credo che con tutti i cornuti che non si rendono conto di esserlo ma lo sono, un cornuto consapevole di esserlo e continua a navigare in una vita, che non é mai un fiume tranquillo, merita grande rispetto più che solidarietà…

    • Quindi fammi capire Alberto: secondo te è meglio un “cornuto” consapevole che non fa nulla (ma anzi continua a farsi turlupinare dalla moglie e sfruttare dal suo amante parassita) di un “cornuto” inconsapevole che, appunto non sapendo nulla, non ha modo di reagire?

  3. Non c’è dubbio che il discorso personale va distinto da quello artistico, però effettivamente se c’è un pezzo che porta incise per così dire nel corpo le tracce della biografia, beh quello sono i Wesendonck. E non mi riferisco qui al solito e sempre un po’ equivoco discorso dell'”ispirazione emotiva” ma a un dato molto più concreto: si tratta dell’unica grande composizione wagneriana su testo non proprio, e il punto è che il testo è quanto di più diametralmente opposto all’ideale poetico wagneriano si possa immaginare. è chiaro che se l’autrice non gli fosse stata personalmente legata Wagner non avrebbe mai scelto un testo simile. Al di là delle immagini e delle atmosfere che effettivamente riflettono spunti wagneriani (non solo il Tristano ma anche il Lohengrin) è proprio la forma poetica a tradire l’irriducibile distanza dell’autrice: a parte il secondo brano, si tratta sempre di regolarissime quartine di ottonari rimati, cioè l’opposto di metrica libera e diversificata che Wagner andò vieppiù perseguendo nel corso degli anni. L’ottonario è invece il metro “pari” per eccellenza: Wagner non lo scelse mai nel resto della sua esigua produzione liederistica e come poeta lo usò rarissimamente nella produzione drammatica (nel coro delle filatrici dell’Olandese a mo’ di “filastrocca” e nel coro degli Knaben del Parsifal per dare il senso dell’ “innocenza”). L’intonazione wagneriana dei testi della Wesendock e interessantissima proprio per la frizione fra forma musicale e forma poetica: nessun altro compositore di Lieder aveva mai scardinato con tanta violenza le unità del testo poetico, dissimulando con la musica le ripartizioni dei versi e addirittura delle strofe. L’estetica di Schubert e Schumann era stata agli antipodi di questa concezione, e in realtà nemmeno Wolf e Strauss avrebbero poi seguito Wagner per questa via.

  4. Le miserie personali dei grandi uomini non hanno nessun interesse e non ha senso occuparsene. Le storie di corna poi…Se ci se ne occupa, si testimonia soltanto il proprio squallore personale. Le persone qualunque si identificano con la loro biografia, mentre ciò che dicono i grandi artisti è storia e inconscio collettivo. Perché parlare, anche per un attimo, di ciò che li accomuna alla massa, corna e compagnia bella? Tristano non è illuminato affatto dal racconto della storia con Matilde Wesendonk. E neppure i Lieder su testo di quest’ultima, se non per un fatto esclusivamente materiale.
    Marco Ninci

    • Invece la biografia di un artista è fondamentale per sfuggire all’agiografia del santino, o alla fesseria dell’artista puro e oltreumano, quasi fosse un alieno… Ogni artista è anche un uomo, con pregi e miserie. Wagner incluso…

    • Sono perfettamente d’accordo. Come diceva con accento scandinavo Ingrid Thulin – nel ruolo della figlia di Indra – in un’edizione del Sogno di Strindberg andata in scena al Sistina: “Che pena le uòmene…!”
      Ciao.

    • E cos’altro è Ninci la storia della musica se non il gossip sulle vite dei compositori? Su una cosa hai ragione, ai fini della comprensione della musica che ci hanno lasciato queste informazioni lasciano il tempo che trovano. Forse crediamo che conoscere queste vicende private di Wagner possa essere di qualche aiuto ad un ipotetico esecutore che debba capire come “interpretare” in modo corretto questi Lieder? O ad un ascoltatore per apprezzarli meglio? Oppure, che so, sapere che Bach era un fervente luterano serve per eseguire meglio l’arte della fuga? Sapere che aveva venti figli mi aiuta a leggere correttamente il clavicembalo ben temperato?

    • A me personalmente il gossip sui compositiroi etc. etc. etc. interessa poco. Certo ha un’utilità antiagiografica che condivido. Ma più che aiutarmi a leggere una loro composizione, me ne tolgono la poesia. Detto ciò sono convinto invece che l’opera viva di vita propria, distinta e autonoma da quella del loro creatore.

  5. Caro Mancini, se pensi che la storia della musica sia un chiacchiericcio sulla vita dei compositori, allora ti conviene non occuparti più di musica. Lasciamo perdere, veramente. Il luteranesimo serve eccome per capire Bach; ma perché serve la storia, non la vicenda biografica, come i suoi venti figli del musicista. Caro Duprez, semper idem; ciò che l’artista scrive fa parte della storia; non ha nulla a che vedere con la sua biografia. Sei al metodo biografico di Sainte-Beuve, che già Proust dichiarò fallimentare cento anni fa. E in cento anni sono successe molte ulteriori cose.
    Marco Ninci

  6. Vedi, Pasquale, Duprez pensa che l’esame della biografia di un artista sia necessario per riportare l’artista dal cielo, nel quale molti pensano che abiti, sulla terra. Ma ciò di cui non si accorge è che la terra in cui lo riporta non ha nessun valore, dal momento che è quella che lo accomuna a tutti coloro che passano in questo mondo. Che interesse può avere vedere la sfilza di splendori e miserie (a dire la verità, più miserie che splendori, come per tutti, si trattasse pure di Madre Teresa di Calcutta o di Salvo D’Acquisto) che costellano di sé la vita di ogni essere umano, artista, scienziato, operaio, serial killer (magari anche lui può aver avuto i suoi momenti di splendore), disoccupato? Invece l’opera di un artista non abita in cielo e non ha nessun bisogno di essere portata sulla terra, perché nel mondo c’è e, per fortuna, non ha nessuna voglia e nessuna possibilità di uscirne. Ma il suo mondo non è quello della biografia spicciola, con le sue occasioni quotidiane che, lontane, si situano a distanza siderale dalla parola vera di un artista. Lo è invece il mondo del divenire storico, della sua base materiale, dei suoi miti, della sue psicologie; ecco il suo autentico terreno di elezione. Così un non credente può esprimere in maniera insuperabilmente commovente la fede in un mondo nel quale le sofferenze umane troveranno un definitivo riscatto; lo ha fatto Giuseppe Verdi in “Tu che le vanità”, uno dei massimi vertici dell’operismo di tutti i tempi. Lo ha fatto quel grandissimo musicista, uno di quelli a me più cari, che è stato Hugo Wolf. Di lui non si conoscono amori; forse solo quell’amore venale che lo ha portato, lui come Nietzsche, alla follia e alla morte. Biografia, solo biografia. Eppure (e mi verrebbe da dire, anche se sarebbe azzardato, “proprio per questo”) nessuno ha cantato come lui l’amore e intuito in maniera così stupefacente le diverse sfumature che costituiscono l’amore dell’uomo e l’amore della donna. Il secondo ancora più del primo. Difficile pensare che simili finezze le abbia imparate in qualche bordello viennese. Da quali profondità dell’inconscio collettivo avrà tratto questi straordinari ritratti dell’Ewig-Weibliche, dell'”Eterno femminino” goethiano? Nessuno può saperlo. Quello che è certo è che abbiamo davanti una testimonianza infinitamente preziosa della psicologia amorosa “fin de siècle”. Questo è ciò che conta.
    Marco Ninci

      • No Albertoemme…Duprez ne ha semplicemente piene le palle del tue punzecchiature, e non perché mi infastidiscono, ma perché mi costringono ad occuparmi di quel che scrivi. A parte che io cito raramente Cerquetti, Stignani, Protti (???) e Mc Neill, semplicemente perché non ne ho occasione, mi chiedo perché tu, invece, continui a frequentare questi spazi. Non porti neppure dissenso o idee contrario…ma solo un cicalare di astruserie che c’entrano con la musica come la pizza ai funghi (appunto). Io non muoio dalla voglia di rispondere a Ninci o a te o a nessuno, e neppure intendo vendere o impegnare i gioielli di famiglia (a chi poi?), per trovare una presunta ispirazione… Ma che ti credi?
        Quanto a Ninci: non ti sfiora il dubbio di non essere qui in un’aula universitaria? Non ti viene il sospetto che la scelta di arricchire la presentazione di brani con qualche dettaglio biografico e aneddoti possa essere una scelta per non appesantire il lettore? Vuoi fare il serioso a tutti i costi? Bene: allora non credi che i Wesendonck-lieder siano legati a doppio filo con la biografia wagneriana e con il suo rapporto con Mathilde? E ancora, non pensi che sia interessante porre il dubbio sul fatto che quel rapporto fosse d’ispirazione ai lieder e a Tristan o piuttosto il contrario?

  7. Se si nega a Wagner la sua biografia non si capirà un NULLA delle sue opere, dei suoi poemi, dei suoi trattati e della su musica.
    Le due cose si compenetrano più di quanto pensiate, miei cari!
    Ninci fa come Cosima: nega gli orrori umani del marito per divinizzarlo e idolatrarlo. E dire che tra Cosima e Mathilde ci fu anche un bel carteggio…
    Il vitello d’oro vergine e immacolato che non esiste.
    Ingenuità intellettuale somma e omissione disinformativa culturale per rendere la materia gelida e informe.

  8. Baci anche da me, Marianne. Ma da cosa si possa dedurre che io, dicendo che dalla biografia di Wagner non è possibile trarre indicazioni per comprendere la sua opera, voglia idolotrare Wagner è per me misteriosissimo. Non c’entra proprio nulla. Io dico soltanto che le convinzioni dell’autore, la sua ideologia, la sua interpretazione dell’epoca valgono solo in quanto sono espresse nell’opera. Tutto il resto, soprattutto ciò che lui stesso artista ha detto di sé, è nel migliore dei casi indifferente e nel peggiore fuorviante. La biografia è uno strumento utile in sé, ma sull’opera non dice nulla. Questo è tanto più vero in quanto dall’opera si possono trarre indicazioni che spesso sono in assoluto contrasto con quanto l’autore diceva di sé. E se è così per ciò che è detto, figuriamoci quale può essere la mancanza di rapporto con i fatti della vita. Questo per altro non l’ho detto io, che non ho nessuna importanza; l’ha detto Proust nel “Contre Sainte-Beuve”, facendo definitiva giustizia di ogni metodo critico fondato sulla biografia.
    Ciao
    Marco Ninci

  9. Si può dare anche questa definizione della grande opera d’arte: quella che è meno legata alla biografia di chi l’ha composta. Wagner è un esempio chiarissimo di questo fenomeno. La Tetralogia, con la sua riflessione sulla nascita del capitalismo è, secondo me (ma non certo solo secondo me; si tratta di una notazione banale), l’equivalente musicale del “Capitale” di Marx. Questo avviene appunto nella Tetralogia, quando le velleità rivoluzionarie di Wagner erano da tempo scomparse; quindi attraverso l’opera, non attraverso la biografia, perché nulla di simile era apparso al tempo di Dresda, quando Wagner si era incamminato sulla strada della rivoluzione sociale. I tempi della biografia e dell’opera non coincidono affatto. Perché le biografie oppongono gli uomini, ma le opere parlano fra di loro, tutte concorrendo all’interpretazione dell’epoca. Heidegger e René Char, il primo con simpatie naziste e il secondo protagonista della resistenza, si oopponevano, ma si parlavano su un piano più alto; lo ricorda con commozione Kundera, sempre giustamente restio a indagare sui crimini dei grandi uomini, un’attività che gratifica col termine sprezzante di “criminografia”. Berlioz detestava la persona di Cherubini. Ma era capace, a differenza di tanti mediocri, di parlare da artista; e allora, a quel livello supremo, l’opera di Cherubini gli appariva per quello che era, il raggfiungimento di un grandissimo.
    Marco Ninci

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