Due giorni a Pesaro.

adriatic-arenaIn un’edizione del festival pesarese caratterizzata dal massiccio impiego di giovani interpreti, i divi, ovvero i cantanti di fama già consolidata e frequentazione non occasionale del repertorio rossiniano, sono stati confinati ai concerti proposti in fascia pomeridiana, fra pagine di musica sacra, cantate di soggetto epico e mitologico e recital vocali.
Il divo rossiniano per eccellenza, Juan Diego Florez, inizialmente annunciato nella Donna del lago (titolo poi rimandato all’edizione 2016, in sostituzione del pianificato Ricciardo e Zoraide, che nel frattempo era già stato “voltato” in Matilde di Shabran), ha preso parte alla Messa di Gloria, proponendo nella seconda parte del concerto la cantata “Il pianto d’Armonia sulla morte d’Orfeo”. Rispetto all’Otello scaligero abbiamo trovato il tenore peruviano di volume un poco più consistente al centro ma egualmente incerto fin dai primi acuti, raggiunti tramite sistematici portamenti, sempre in difetto di squillo e incapace di fluidità nella prevista ornamentazione, risolta peraltro a prezzo di vistosi contorcimenti. Va comunque dato atto al cantante di avere affrontato, nella Messa, pagine davvero ardue senza esibire l’approssimazione non professionale dimostrata da altri colleghi nei ben più facili ruoli tenorili dei titoli radiotrasmessi quest’anno, e di essersi sforzato di accentare con vigore (la cantata era, per contro, caratterizzata da accenti più adatti a una parte di mezzo carattere che non all’epicedio dedicato a un semidio). Corretti e composti il mezzosoprano Viktoria Yarovaya, a onta di qualche agilità aspirata, e l’altro tenore Dempsey Rivera, dal peso specifico del tutto analogo a quello del “primo uomo”, mentre Mirco Palazzi si conferma basso solo di nome, con suoni rigorosamente “grattati” in basso al “Quoniam” e una tenuta d’intonazione non sempre impeccabile. Per Jessica Pratt la Messa, che sottopone il soprano a un cimento in ogni senso limitato, funge da eccellente “scaldavoce”, e nonostante una dolce e sfumata esecuzione del “Laudamus te” e un “Domine Deus” con belle messe di voce sul si bemolle acuto, il clou della performance è costituito dalla cantata “La morte di Didone”. Composta nei primi anni Dieci per Ester Mombelli, prima Lisinga nel Demetrio e Polibio, e caratterizzata da una scrittura che strettamente si apparenta alle grandi scene tragiche del tardo Settecento, tra la scuola napoletana e i drammi seri di Haydn e Mozart, la pagina permette al soprano australiano di mettere in evidenza le proprie doti migliori, in particolare la capacità di accentare con vigore e imperiosità nella zona alta del pentagramma, capacità esaltata da abbondanti e opportuni raggiusti (praticati, non sempre in misura sufficiente e adeguata, da tutti i soprani assoluti che si sono accostati a questa musica), particolarmente nella seconda parte della cantata. Anche il registro grave e quello centrale risultano, rispetto a prove recenti, più sicuri e sonori, soprattutto quando la Pratt vi giunge partendo dalla zona acuta della voce, in maniera analoga a quanto avveniva nel Demetrio affrontato a Napoli un paio di stagioni fa, a conferma di un’affinità non fortuita o sporadica con questo tipo di scrittura. Il gioco dei colori vocali è, al solito, molto limitato, per non dire assente, ma la bruciante scansione del testo (con trascurabili errori di pronuncia, quali “prechipiti Cartaggio” negli ultimi versi di recitativo), lo slancio, assolutamente elettrizzante, nel registro acuto e la precisione della coloratura di forza, sostenuta dai tempi piuttosto stringati adottati dal direttore Donato Renzetti (che nella Messa non brilla invece per precisione e vigore, complici un’orchestra e soprattutto un coro non sempre attenti alle rispettive entrate), fanno di questa pagina il momento più significativo del concerto e una delle migliori esecuzioni udite a Pesaro negli ultimi anni.
Seconda manifestazione di divismo in salsa pesarese, il concerto di Olga Peretyatko vede un programma composto da pagine d’opera e romanze russe, completato dall’Improvviso del Viaggio a Reims e dalla cavatina di Semiramide. A fronte di un’ora scarsa di durata complessiva (comprensiva di una pausa di dieci minuti, onde consentire il cambio d’abito, e di interventi parlati da parte del soprano, che introduce i brani meno conosciuti o presunti tali), i bis sono abbondanti e generosi, proponendo il più consueto repertorio del soprano di coloratura, dal Barbiere di Siviglia (per quanto antifilologico – strano che nessun commentatore l’abbia notato…) al Turco in Italia, passando per brani salottieri quali “Villanelle” di Dell’Acqua e “L’usignolo” di Alabiev, fino al valzer della Juliette di Gounod. A tanta generosità non corrisponde purtroppo una comparabile qualità dell’esecuzione. Come per Florez, le osservazioni sono le medesime già proposte per l’Otello milanese: un centro artificiosamente ispessito (alla ricerca di un volume e di un colore scuro, che dovrebbe, da vulgata, connotarsi come tipico di un soprano lirico) produce acuti vetrosi e di malcerta intonazione (“L’usignolo”), faticosa esecuzione della parca coloratura prevista (aria della Fanciulla di neve, in cui si rimpiange l’onesto mestiere di una Elena Rizzieri), assenza di autentica dinamica e di un legato di scuola, il che rende impossibile il rispetto della sognante malinconia di brani come “Vocalise” (e il meccanico accompagnamento ministrato da Giulio Zappa al pianoforte non può certo compensare le carenze della solista). Quando dal lirismo russo si passa alla grandeur rossiniana, i limiti della virtuosa emergono in maniera se possibile ancora più evidente, soprattutto a fronte di variazioni tanto modeste quando maldestramente eseguite (con tanto di “papera” alle parole “Del maestoso / regal suo viso” alle strofe di Corinna). Del resto, dopo avere udito il maestro Mariotti (marito della signora Peretyatko) sentenziare che variazioni e aggiunte dimostrerebbero una sfiducia da parte dell’esecutore nei confronti delle intrinseche qualità della musica rossiniana, non possiamo in coscienza meravigliarci del parco apparato di ornamentazioni e cadenze sfoggiato tanto nella Semiramide quanto nei bis, memori (solo nei difetti, purtroppo) delle più censurate esecuzioni di Graziella Sciutti ed Eugenia Ratti. Viene quasi da pensare che siffatta “sobrietà” sia, più che altro, un doloroso tributo pagato all’incapacità dell’esecutrice (nonché di chi la consiglia e sostiene) di comprendere il carattere della musica rossiniana, oltre che di onorarne la richieste. Riflessioni per certo maligne e preconcette, per taluni dispensatori d’incensi. Gli stessi, guarda un po’, che solo pochi anni fa scrivevano della signora Peretyatko (non ancora in Mariotti) cose non dissimili da quelle sopra esposte, e oggi inneggiano invece alla sua incontestabile statura di interprete rossiniana. Potenza d’Imeneo?

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3 pensieri su “Due giorni a Pesaro.

  1. Non conoscevo la cantata, sentire la Pratt così in forma mi ha messo di ottimo umore e mi ha fatto scoprire questa pagina splendida! Che la Jessica continui così che è spanne sopra agli altri! Anche qui, come nel Barbiere su siti dove incensano tutto e tutti ho notato delle critiche… sa molto di vendetta perché piace anche ai più esigenti, si commentano da sé.

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