Macbeth (di nuovo) a Bologna: cui prodest?

MacbethWilsonTorna a meno di tre anni dalla prima il Macbeth verdiano nell’allestimento firmato, anzi griffato Bob Wilson. Un allestimento che, al netto della fisiologica curiosità che è destinata a suscitare la creazione (per così dire) di un rinomato regista prestato al teatro d’opera, era stato ben lungi dal cogliere unanimi consensi e, ben più importante, produrre vendite al botteghino, tali da giustificare una ripresa. A maggior ragione se si considera che la medesima è stata curata non dal demiurgo Wilson, bensì da Gianni Marras, responsabile dell’ufficio di regia del Teatro felsineo, e che la distribuzione in buca e sul palcoscenico è, per tre quinti, la stessa già udita nel 2013. Non suscita pertanto meraviglia che, in occasione della prima di martedì 6 ottobre e della pomeridiana di domenica 11, il teatro fosse tutt’altro che esaurito, persino nei posti di balconata, quelli tradizionalmente più richiesti e ridotti per l’occasione, in ragione dei riflettori posizionati nella parte centrale del quinto ordine di palchi, a meno di quaranta. Al netto di alcuni quadri di pregevole effetto (la prima epifania delle streghe, la morte di Banco, l’apoteosi conclusiva), l’effetto resta quello di un concerto in costumi minimal-giapponesi, adattabile a mille partiture diverse e che, a dispetto dell’oscurità perenne o quasi, non coglie neppure per sbaglio il clima fosco dell’opera. Se la regia non disturba la fruizione della musica (ma sarebbe interessante conoscere l’opinione degli interpreti, spesso costretti a movimenti meccanici ed espressioni facciali da clownerie), non altrettanto può dirsi della direzione di Roberto Abbado, che sembra conoscere solo due modalità: fracasso o andatura letargica. Di entrambi si hanno ottimi esempi fin dal preludio, rispettivamente con il tema che evoca il mondo delle streghe e con quello del sonnambulismo. I pezzi d’assieme, che siano il duettino Macbeth-Banco all’introduzione, i duetti dei satanici sposi, i cori o i finali d’atto risultano elefantiaci e poco coesi, a dispetto dei diffusi e caricaturali clangori (“Schiudi, inferno”, il brindisi, la chiusa del secondo atto e l’attacco del terzo, o ancora l’ingresso delle truppe di Malcom, che evoca gli spettacoli dei fratelli Colla), con evidenti “sbandate” anche in brani celeberrimi e, presumibilmente, rodatissimi come l’introduzione del terzo atto (in cui parte del coro ha, in entrambe le recite considerate, mancato clamorosamente la prima entrata). Quanto ai tempi lenti, o meglio slentati, generalmente adottati nei cantabili, sono sempre ministrati maldestramente, con un’orchestra che fa ben poco per evitare di coprire le voci di cantanti che non possiedono l’ampiezza, e sovente neppure la tenuta di fiato, necessaria alle rispettive parti. Dei solisti il migliore è senz’altro Riccardo Zanellato, che complice la relativa brevità del ruolo riesce a essere composto e non vociferante, anche se la cavata del basso verdiano gli permane estranea (il che si coglie soprattutto nel citato duettino, in cui Banco dovrebbe fungere da pedale). Come Macduff Lorenzo Decaro continua a sfoggiare voce brada e diffusi singhiozzi in zona medio-alta, la stessa in cui Dario Solari quale Macbeth risulta sistematicamente nasale e regolarmente stonato, senza contare gli “scivoloni” nel parlato (scena del pugnale, primo duetto con la moglie, finale secondo, gran scena delle apparizioni e persino l’aria del quarto atto), molto più copiosi e fastidiosi di quanto non fossero nel 2013. Ma tutto questo è nulla, o almeno rischia di sembrarlo, davanti a una Lady Macbeth compitata con esausta vocina da soprano leggero, da Lauretta figliuola dello Schicchi o al massimo da Manon di Massenet, in difetto d’appoggio e quindi afona in basso, squittente in alto, stridula e a corto di fiato in tutta la gamma. Se la sera della prima la natura (o quel che ne resta dopo un decennio abbondante di ruoli estranei alla natura di lirico puro della signora) ha permesso ad Amarilli Nizza di arrivare (arrabattandosi fin dal recitativo, e non solo nella fortunosa salita al do di “retrocede”) in fondo alla sortita, stentando poi al duetto del regicidio, maldestramente tubando i suoni all’aria del secondo atto (per urlare alla chiusa), cempennando il brindisi e il sonnambulismo e gridacchiando nei concertati, alla pomeridiana la benzina era finita prima ancora che la recita avesse inizio. Ne è risultato un pomeriggio di sussurri e grida, in cui le seconde non erano certo più funeste dei primi, che anzi favorivano la deriva del ruolo nel parlato, deriva già promossa a suo tempo dalla prima interprete di questa disgraziata produzione, Jennifer Larmore. Al di là dello scontato successo finale (giusto tributo della piccola borghesia emiliana al proprio gusto per il bello e il sublime – o presunti tali), è il silenzio, costeggiato di zittii, che ha accolto il sonnambulismo di questa Lady Adina la vera sigla dell’interpretazione e, più in generale, di questo inutile, insensato e inconsistente riallestimento.

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12 pensieri su “Macbeth (di nuovo) a Bologna: cui prodest?

  1. Visto questo Macbeth e devo dire che la regia non mi disturba, il problema e´ che con questo tipo di regia puo´ adattarsi a cantanti di grande carisma e presenza, tanto per fare un nome la Gencer, con i cantanti di oggi che non sanno seguire nemmeno lo spartito, il carisma e´ proprio assente. Peccato perche´ rimane l´ opera di Verdi che piu´ amo.

  2. La Scotto non era l’interprete ideale per cantare quest’opera, ma è comunque una voce solida al confronto con le seguenti apparecchiate per far comprendere anche ai sordi la differenza tra voci liriche e voci da market.
    Non voglio tediare nessuno, ma Lady Macbeth della Verrett del 1977-1978 non le udremo più perchè è finita una era, e al massimo si potrà avere delle mini-vociette magari molto affascinanti nel viso e nel corpo, ma espressione di una nullità. A parte la Elisabeth Retberg la storia della lirica ci ha offerto voci possenti ed epressive, non fighette sia femminili che maschili, e sopratutto adatte ai ruoli che interpretavano, ora non più
    l’interesse si è spostato su altre cose. Ciò che più mi colpì alla Scala, nella ripresa dell’Anna Bolena con la Caballè, furono le scene e la coreografia così sempliciotte da indurmi a chiedermi cosa aveva di favoloso quest’opera: la voce della Callas, faceva letteralmente sparire ogni altro orpello, tranne la direzione orchestrale

  3. Meravigliosa, assolutamente meravigliosa, strepitosamente meravigliosa la [o]scena del sonnambulismo con la scenografia del boschetto di pini sulla neve che fa tanto bianco Natale, vero stupefacente esempio del migliore teatro di regia alla tedesca. E che dire della poltrona da barbiere sollevata in aria, che tanto ricorda (è una citazione voluta o meno?) una celebre scena del film “il nipote picchiatello” con Jerry Lewis?
    E le voci! ah, che voci!
    Ma alla bella Amarilli nessuno ha detto che la sua era una graziosa voce lirica, ma proprio lirica, se non lirico-leggera? E che, quindi, mica doveva cantare Lady ed Abigaille…. che cantare queste “particine” fa male alla voce! A meno di non chiamarti Gencer o Scotto.
    La Freni, vocalmente, mi pare, più robusta della Nizza, Lady ed Abigaille le ha solo guardate da lontano con il binocolo, senza mai avvicinarle. Preferiva cantare bene Mimì e lo ha fatto per circa 30-40 anni senza soluzione di continuità.
    Ed, infatti, la Freni ha avuto una carriera di più o meno 50 anni….
    In ogni caso, per rifarci le orecchie
    https://www.youtube.com/watch?v=6SJHEZlpMrM
    e anche gli occhi
    https://www.youtube.com/watch?v=7JGjolkhaIg

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