Cena delle beffe: obbligo di fedeltà. Assoluta.

giordano1Ieri sera nell’intervallo della rappresentazione e radiotrasmissione di Cene delle Beffe, che prima o poi quelli della Grisi andranno a vedere, una delle più zelanti ed assidue voci del consenso preconfezionato che diviene, quando c’è di mezzo la Scala o altri cosiddette poteri forti, untuosa accondiscendenza e, per utilizzare Manzoni “servo encomio” con la più autentica sicumera ha sentenziato che non si potrebbe oggi tollerare un allestimento del titolo di Giordano fedele ai dettami del libretto, in primis l’ambientazione nella Firenze medicea. Così il nostro, che per essere chiari risponde al nome di Elvio Giudici si è fatto un merito presso il teatro e presso il regista, che non ha quella cultura per ambientare in quella Firenze il titolo e più in generale in quella operazione di progressivo e massivo rincoglionimento delle persone, che l’indispensabile strumento per far digerire tutto a tutti e magari pure con applausi. Non accade, purtroppo, nella sola opera o nel solo campo della cultura, ma anche in settori di ben maggior importanza e rilevanza per la sopravvivenza del nostro mondo.
Invito questa persona e chi lo legge, credendogli, a dare una scorsa non solo al libretto di Cena delle Beffe, ma a quello di Francesca da Rimini e magari anche di Tosca o del Trittico. Primo per ricordare loro, magari con l’ausilio della Garzantina della letteratura italiana o di Wikipedia, che quei testi sono il parto delle maggiori voci della cultura letteraria e teatrale italiana, magari facendo un po’ di revisione sul fatto che nell’immediato dopoguerra, ad opera di qualcuno (loro maestro di disonestà culturale, ma almeno assai più notiziato ed informato) quegli autori vennero bollati per fascisti. Per la cronaca i maestri erano più informati ed informati perché allenati alla scuola cosiddetta fascista.
Francesca_bertini,_1915,_assunta_spinaChe cosa si impara da quel libretti? prima di tutto il magma lutulento (grazie Quintiliano, aggiungo!) di una lingua italiana sovrabbondante, che mette alla frusta il vocabolario della Crusca, esalta l’apax legomenon, sfoggia ed ammalia (o schifa, secondo gusti ed orientamento) con un autentico prezioso e ricercato repertorio di figure retoriche, a partire dall’iperbole. E poi? e poi che quelli sono, prima ancora che libretti, precise e minuziose descrizioni di scenografie anch’esse monumentali ed esagerate perché i letti debbono sembrare carri funebri napoletani e gli arredi monumenti ai caduti e più ancora note di regia addirittura pignole ed esagerate e sovrabbondanti. Pensiamo alla macabra e pignola descrizione dell’uscita di Tosca al secondo atto, alla preparazione di Adriana per l’incontro scontro con la Principessa, la vestizione di Gianni Schicchi che subentra nel letto e pure nel patrimonio a Buoso, la cripta di Fiora o la camera di Ginevra che è la descrizione di quei luoghi dove si vendeva il piacere e dove solo certe donne potevano esserci secondo la pruderie del periodo. Tutto questo che fanno di Cena delle Beffe un esempio italico di “arte totale” o per essere più fini e colti di Gesamtkunstwerk, sempre in salsa primo Novecento ed italica (quasi fascista per l’anno della prima) non sopporta per la propria unitarietà radicale ed intima spostamenti o rifacimenti moderni. Spiace dirlo, ma il realismo (e tanto per affondare il coltello nella piaga pure il Romanticismo) in musica è la negazione dell’astrattezza e della possibilità di astrarre la realizzazione pratica dei propri titoli. Belli, brutti, capolavori o marchette tutti, nessuno escluso, questi titoli impongo per quella tensione ad un’arte unica una assoluta fedeltà di realizzazione e chi se lo dimentica “peste lo colga”…

35 pensieri su “Cena delle beffe: obbligo di fedeltà. Assoluta.

  1. Carissimo, non so forse hai ragione…
    io però posso testimoniare che l’allestimento di Martone è bellissimo e curatissimo in ogni particolare, certo non rispetta alla lettera l’intreccio (a mio avviso terribilmente kitsch)del testo di Benelli ma costruisce uno spettaciolo godibilissimo, vero set cinematrografico al quale la brutta partitura di Giordano fa da colonna sonora. Del resto meglio così, meglio concentrarsi sulle bellisime scenografie della Palli e “dimenticarsi” di quanto urlino e stonino i cantanti (la direzione di Rizzi, però, non mi sembra male)

  2. Non sono affatto d’accordo: fedeltà assoluta a cosa? A qualcosa di falso datato e infedele? Rendiamoci conto che se musica e teatro non parlano al nostro tempo diventano pezzi impolverati da museo (degli orrori in questo caso). Shakespeare dovrebbe essere rappresentato come alla corte elisabettiana? E i grandi registi come Visconti e Strehler erano ciarlatani? Ma perché poi si vuole fedeltà assoluta al libretto e si rifiuta come peste ogni discorso sulla prassi esecutiva dell’epoca? Per me ci vuole assoluta libertà ma capacità di realizzarla. Martone è un gran regista e non credo abbisogni di patenti di cultura: avrà letto il libretto e GIUSTAMENTE resosi conto del livello infimo e risibile della pseudo ricostruzione storica, è passato oltre. Francamente vedere in scena la brutta copia del brutto film di Blasetti sarebbe non solo ridicolo, ma anche triste.

    • Come da un po’ di tempo a questa parte sono d’accordo con Duprez.
      Pretendere fedeltà assoluta alla linea mi pare già un atteggiamento sbagliato a priori, soprattutto per questa opera di cui ho ascoltato il finale per radio… costernato e convinto ancora una volta a stare lontano dal verismo!
      Fateci sapere però cosa pensate quando andrete a vederla!

    • Se tutto deve parlare il ns tempo allora perché tante foie filologiche?…perché studiare con tanto rigore maniacale vecchi spartiti con l idea di eseguirlo come.nel passato?…..forse duprez il principio non è quello che tu esponi ma è questione più complessa, che attiene al complesso di valori e contenuti che un interprete è obbligato a conoscete, rimediare e trasmettere con un senso che non prende forma nella manichea diatriba antico vs moderno

      • Certamente il problema è complesso. Sbaglia Giudici col suo giudizio tranciante sulla presunta impossibilità di una messinscena rinascimentale. Ma sbaglia anche chi quella messinscena la pretende perché sarebbe in correlazione con testo e musica: in realtà sia il linguaggio musicale sia quello letterario non hanno nulla a che fare con la Firenze medicea. Il kitsch di Benelli è figlio del liberty di fine secolo e di un dannunzianesimo mal compreso, persino il plot narrativo è assolutamente privo di agganci con l’ambientazione rinascimentale. Neppure la musica di Giordano si collega ad atmosfere quattrocentesche. Quindi non scambiamo cause ed effetti. Il teatro, comunque esso sia (musicale e no) deve parlare a noi e deve rapportarsi a noi: è sempre stato così. Lo era negli anni ’50 quando si riproponeva Haendel o Monteverdi con approccio ottocentesco e orchestre moderne perché solo così poteva rapportarsi a quel presente; lo è oggi nella riflessione sulla prassi d’epoca. La manichea diatriba antico vs. moderno è certamente insufficiente nell’approccio all’arte, a meno di voler galleggiare sulla polemica: non c’è nessun obbligo in nessun senso. Non ho visto lo spettacolo e neppure lo vedrò (l’opera non mi interessa e ancor meno mi interessa Giordano), ma il problema di mettere in scena quella roba lì senza cadere nel ridicolo c’è: forse Martone ha aggirato l’ostacolo, ma credo che proporre una musica di tale inconsistenza con una scena di teloni dipinti, gestualità caricata da diva del muto e costumi simil rinascimentali, sarebbe stato mortale per un titolo che, probabilmente, non merita così tanti sforzi. Con il principio della fedeltà assoluta al libretto, però, si dovrebbe per coerenza sostenere che Ponnelle o Strehler o Ronconi o Visconti erano degli incapaci…si deve arrivare a questo?

        • nessuno di noi ha visto per il momento lo spettacolo. Da un lato può essere un limite dall’altro un regio perché non forvia la discussione che resta su di un piano assolutamente teorico. Poi mi stupisce (si fa per dire) che il regista abbia pensato che Oberto e Cena delle Beffe abbiamo caratteri tali da associarle entrambe al ondi del crimine mafioso (italico o italo americano non cambia molto). Motivo della scelta che entrambe le opere portino in scena faide. Attendo allora i Capuleti e il Crepuscolo con il medesimo allestimento. Mi sembra in linea assolutamente di principio piuttosto traballante l’idea, ma attendo di vederla. Invece vorrei porre l’accento su qualche cosa di più che mi pare Duprez non abbia colto o io non sono stato capace di spiegare. Quello che volevo significare, schierandomi dalla parte di un allestimento fedele e quindi cosiddetto tradizionale è il legame fra ridondanza di canto, di orchestrazione e di testo che impongono un allestimento ridondante e pesante. Or bene ai nostri occhi e più ancora a quelli di Giordano, Benelli e molti loro contemporanei quella pesantezza, lutulenza trovava la propria massima espressione visiva in quel tardo medioevo, piuttosto che primordio di rinascimento e forse questo Giordano guarda più alla fine del medioevo che non al quattrocento fiorentino. In una cornice inspirata a Brunelleschi piuttosto che a Donatello questo titolo sarebbe egualmente fuori luogo mancando quel legame che le scene modello Blasetti avrebbero garantito. Insomma l’epoca di Lorenzo di questo drammone non è quello che avanza (spesso deformato de interventi di restauro, che sono interpretazioni) della Firenze medicea, ma quello che per Benelli e Giordano e pure Blasetti era la Firenze medicea. Caro Duprez mi sembra che questa discussione ricalchi quella che avevamo avuto per l’allestimento di Elektra altro titolo che per me impone le porte di Micene così come ricostruite dalla grande archeologia teutonica, per il semplice motivo che il mondo visivo ed anche musicale di Elektra è quello che doveva corrispondere alla Grecia pre classica.
          spero di essere stato comprensibile.

          • Avevo inteso perfettamente: è proprio il principio che esponi che non condivido. Non c’è nulla nell’opera di Giordano (come nel capolavoro di Strauss) che richiami in termini metamusicali l’ambientazione librettistica: nel caso della “Cena delle beffe” per l’artificiosità di un testo figlio (pur difettoso) del suo tempo e per la retorica autonoma della musica di Giordano, assimilabile a quella di ogni sua opera e perfettamente inserita nell’estetica del tempo (una storia di gaglioffi e di una poco di buono in un contesto dove tutti si danno mazzate e si fanno burle pesanti non ha niente a che spartire con una qualsiasi ambientazione: può andar bene il rinascimento, l’impero romano o Marte); nel caso di “Elektra” perché strumento simbolico di esplosioni già novecentesche, barbariche e atemporale (lo stesso vale per la “Donna senz’ombra” in cui gli stessi Hofmannsthal e Strauss precisano che una rappresentazione “letterale” del testo è sbagliata, impossibile e fuorviante: tendo a fidarmi del giudizio degli autori…piuttosto dei gusti personali o della “tradizione”). Il mondo musicale che corrisponde ai due testi non è affatto quello richiamato dai libretti, ma quello del periodo in cui le opere sono state composte. Il film di Blasetti è altra cosa: è innanzitutto un film…un polpettone in costume a diffusione popolare. E infatti è ridicolo oggi, come lo sono i film in costume di Gallone. Non so se Martone si è posto i problemi del kitsch o del dannunzianesimo d’accatto di Benelli, forse ha preferito andare oltre, ma certamente la riproposizione di certi titoli non può adagiarsi sulla tradizione o su stilemi espressivi morti, sepolti e putrefatti.

  3. La Cena delle Beffe è opera a mio avviso notevolissima, doveroso dunque riprenderla ( e credo sarebbe il caso di recuperare anche Siberia e Il Re ). A chi trova l’intreccio kitch ricordo, ad esempio, che Montale trovava paccottiglia il testo di Pelléas : dico questo a significare che il kitch, all’opera, spunta davvero in innumerevoli e anche celebrati luoghi e non è prerogativa della sola Cena delle Beffe . Diciamo una presenza piuttosto assidua anche nel grande repertorio: fatto che non preclude la convinta passione per esso . Elvio Giudici avrà anche peccato di piaggeria commentando l’allestimento ( non lo conosco e non ho idea da che intenzioni fosse mosso ) ma ha poi fatto un’osservazione che condivido in pieno: è anche rimeditando la lezione della Cena delle Beffe, con il suo taglio drammaturgico efficacissimo, con tratti affini alle prassi cinematografiche, che si deve ripartire per rivitalizzare l’esangue e moribondo teatro d’opera contemporaneo. Quanto alla regia di Martone: andrò alle recite da mercoledì prossimo e dunque a oggi ho solo notizie di seconda mano e foto. Al di là delle polemiche sulla necessità o meno della fedeltà al testo ( un qualche tipo di fedeltà, sia pure in senso lato e “creativa”, deve secondo me esserci ) la scelta realista e l’ambientazione a Little Italy mi lasciano perplesso. Avrei preferito una lettura aliena da tentazioni veriste, orientata a rileggere il testo secondo una sensibilità più prossima alle sponde decadenti come fece Hugo de Hana negli splendidi allestimenti di Iris e della Fiamma al Teatro dell’Opera di Roma. Ma vedremo meglio dal vivo…

    • Esatto, Giudici vuole un taglio cinematografico per la regia d’opera in nome di un generica modernità che dimentica come il teatro sia altro dal cinema. Esistono generi artistici diversi in se stessi che mentre per una produzione presente possono anche essere sovrapposti, non si vede in nome di quale principio lo possano essere anche per prodotti artisitici di altri tempi. Posto che la posizione di Giudici è fallita nei fatti, e le cpnseguenze le vediamo ogni produzione, ci sarebbe da chiedergli perche l ‘ opera debba subire contaminazioni di ogni tipo ed essere continuamente manipolata verso altre forme di teatro o d arte. In nome di cosa l opera deve subire questo? Perche allora viene il dubbio che gli interessi altro e che d altro si debba occupare. Fare i moderni, atteggiarsi a persone d avanguardia dimenticando i contenuti culturali veri …è cultura? A me non pare

      • Giulia, per quanto riguarda le regie concordo pienamente con te. Il teatro d’opera ha un proprio “specifico” cui bisogna riferirsi. Meglio: uno “specifico” che varia al variare dei periodi storici, degli stili, etc. Ciò non significa che ne debba per forza uscire mortificato il ruolo del regista, che ha comunque spazi per dare ali alla propria creatività, quando ne abbia . (Visconti e Strehler facevano esattamente questo e certo non erano ciarlatani ). Conferire un taglio cinematografico a un titolo barocco potrà anche divertire i più ma significa non avere la più pallida idea di cosa sia il teatro barocco. Indigenza culturale che è peraltro abbastanza diffusa presso gli attuali registi d’opera. Sopra però non mi riferivo all’interpretazione registica, facevo cenno alle caratteristiche della Cena delle Beffe, all’opera in sé e a quanto di positivo si possa trarre oggi da quel modello anche per le sue anticipazioni del linguaggio cinematografico ( naturalmente il pensiero mainstream – trattandosi di Umberto Giordano – troverà inaccettabile anche solo porre il problema, risultando prevedibile anche in questo… )

        • Ma tu, che hai una cultura umanistica mi pare di capire,non pensi che in quell ambientazione quattrocentesca scelta da Benelli vi sia un significato?….cioè che sia una componente voluta dell’azione teatrale originaria…?…rispondimi al di là della.produzione scaligera in sé. Quando ho guardato al testo io, ti confesso, mi sono chiesta subito il perché di quella scelta cronologica di Benelli…perché? Perché anche per aggirarla come ha fatto Martone , occorre capirla no?
          Quanto al film del 41, era un film in costume, quindi cinema e ambientazione moderna non mi pare si equivalgano in questo caso come idea interpretativa. Giudici ci dice che oggi non si può prescindere da una regia che tiri al cinema, ma dimentica che in questi ultimi anni c’è stato un grande ritorno del film in costume, o del film storico se lo vogliamo chiamare così,si aper il cinema che per la tv, da Il gladiatore etc etc ai serial come I pilastri della terra, agli sceneggiati come I Borgia etc etc. Non credo che Martone, ma aspetto di vedere, abbia fatto alcuna scelta pionieristica, piuttosto mi pare dei capire che abbia scelto vie già battute, quindi sicure, e che non vi sia nulla di speciale nel konzept. Insomma, al di là dello spettacolo in sè, non mi paiono condivisibili nè molto fondate le affermazioni di Giudici. Forse un allestimento storico avrebbe potuto indurre una rimeditazione anche sul cinema in costume, ma questo pensiero non mi pare lo abbia sfiorato..

  4. Giulia, non sempre mi trovo d’accordo con te ma stavolta lo sono e dunque si tratta solo di capirsi. Quando Giudici dice che “un’ambientazione rinascimentale (della Cena delle Beffe) oggi sarebbe stata un mezzo disastro” mi trova in completo disaccordo: dipende sempre dal come. L’esotismo cronologico era un elemento fondante di quel gusto e di quel teatro, dunque prescinderne e trasferire tutto a Little Italy negli anni 20 del secolo scorso rischia di essere molto riduttivo ( e – condivido – con forte sentore di déjà vu ). Meglio allora la regia della ripresa che sul finire degli anni ’90 si fece a Zurigo ( e poi Bologna ) che collocava l’azione in una contemporaneità perlomeno scevra dai consunti cliché sull’italiano in America. Tra l’altro dalle foto, ma non ho ancora visto lo spettacolo, mi sembra che l’impianto su più piani sia debitore di Cavalleria/Pagliacci visti a Salisburgo. Altro è invece quando si parla dell’opera, della musica di Giordano che struttura una narrazione secca, rapida, “cinematografica”: a mio avviso di grande interesse. Il cinema è stata l’arte forse più importante ( e ovviamente più nuova ) del ‘900 e il fatto di anticiparne o filtrarne gli stilemi è indizio della modernità di un teatro e di un autore che con fatica solo in anni recenti si comincia a ripensare criticamente ( ma non manca chi rimane adagiato su valutazioni che trovo francamente stantie: liberissimi di pascolare il consueto, ovviamente). Né il rapporto fra la musica di Giordano e il linguaggio cinematografico ( dunque lasciando da parte in questo caso i discordi sulla regia ) è scoperta di Elvio Giudici, che su Giordano ha mediamente scritto banalità: basti andare – tra gli altri – alle osservazioni di Dorsi/Rausa contenute nella loro eccellente Storia dell’opera italiana (2000) o al saggio di Mastromatteo (2003), esplicitamente dedicato al rapporto tra Giordano e il linguaggio cinematografico.

    • Sì ok,ma quello è il periodo che porta influenze , no? Io a giudici contesto proprio il modo di ragionare, ossia dire che oggi non si potrebbe fare anche se sarebbe corretto farlo. Dunque non fa una critica al kozept originario, perché non la potrebbe fare nessuno. La critica è a NOI , al ns teatro, o meglio, a chi lo fa. Dunque io mi sento di rispondere che è un problema di bassa qualità di chi fa, di saper fare e non di chi fa. Penso sempre all ‘Orlando furioso di Ronconi….che non si sarebbe potuto fare sulla carta,ma si fece..eccome! Percio per me il discorso che fa Giudici dovrebbe colpire la ns mediocrità e non le opere in sé per sé. Il verismo handetto limiti ma.anche l ottocento, come il barocco. Valgono ome espressione del loro tempo ergo al tempo della Cena sta quella scelta.di tempo precisa che certo ai contemporanei evo ava qualcosa che a noi oggi sfugge e xhe sta al regista….riproporre. Quel valore temporale cosa significava? Se lo ha chiaro in mente, poi potrà fare il passaggio coi suoi strumenti della scena. Oggi aggiriamo il problema,ciò che non imprenditori o lo elidiamo o lo stravolgimento. Ecco perché abbiamo di solito un cattivo teatro

      • Mi sento anche di fare rilevare la contradditorieta di una posizione, quella di Giudici, che ponendo al centro di tutto l’allestimento (.xol conseguente sbilanciamento del rapporto dei valori insiti nella lirica a discapito del canto che in questo gente di spettacolo è predominante per la natura stessa della lirica…recita cantando) poi mi teorizza che dell’ originario kozept rinascimentale di Benelli posso far carta straccia. Perché allora il discorso no sta in piedi, è predominante ciò che posso mettere da parte….!!! Sulla.scena poi mi pare che il recita cantando verista sua stato assai scarso, almrno stando alla radio a detta degli amici, e qui di nuovo ci troviamo nella contraddizione dei presupposti di queste opere, fatte di dizione, intenzioni espressive e canto. Ma mi fermo qui per he ancora no ho sentito co le mie orecchie. Insomma,teorizziamo su questo ed altre forme di teatro lirico senza coerenza, on una sorta di eclettica contradditorieta fatta di presunta filologia e rigore sulle esecuzioni ( penso al barocco ), totali anarchia sulla scena ( lo stesso barocco in minimali restituzioni moderniste, presunte opere d arte totali dove ognuno sceglie il linguaggio che.gli pare on libero contrasto co quello degli altri…..frutto di un pensiero critico azzerato e non critico in realtà.

  5. Non ho visto l’opera alla Scala. Penso tuttavia che l’ “idea” registica di spostare l’ambientazione nella New York inizio secolo (scorso) sia una delle tante sciocchezze alle quali siamo ormai adusi. Il quattrocentismo di cartapesta, da cartolina liberty, è parte integrante del dramma di Benelli e del libretto e quindi dell’opera giordaniana. Il Ballo in maschera non cambia di molto (anche se un poco sì) se lo si ambienta a Boston, in Scozia (Mercadante) o alla corte di Svezia. Ma la paccottiglia liberty (sia pure tale) non è separabile dalla musica di Giordano. L’opera, diciamocelo francamente, è già abbastanza brutta e ridicola in sé per tollerare di essere ulteriormente ridicolizzata: va dunque “dissacrata”, “demitizzata” ? Ma per favore! Sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Se un senso può avere la riproposta di un titolo come Cena delle Beffe (e un senso a mio avviso lo può avere) è quello di far conoscere al pubblico un documento storico di un’epoca e di un gusto che fanno parte della nostra storia e che vale proprio in quanto tale, non potendo vivere in sé (ovvero camminare con le proprie gambe). Se viene meno questa funzione “documentaria” sono solo soldi e tempo buttati.
    PS. Che Montale avesse ragione a definire paccottiglia il libretto di Pelléas et Mélisende? Temo che non fosse troppo lontano dal vero.

  6. dopo una lotta impari con la biglietteria online della scala, sono riuscito a procurarmi i biglietti per il 23; ovviamente l’interesse per la rarità, giustifica lo sforzo. Non ho sentito la diretta e aspetto di vedere lo spettacolo prima di darne un giudizio. Sono curioso, vedremo, ascolteremo, giudicheremo.
    p.s.
    vado poco a teatro, mi perdo volentiere l’ennesia Traviata o Tosca che i teatri italioti si ostinano a riproporre…ma mi muoverei volenteri anche io per poter assistere a Siberia o Il Re.

  7. Rispettoso nei confronti di tutti, in particolare per le argomentazioni dei commenti (positivi o negativi che siano) , vorrei consigliare di assistere ad una rappresentazione prima di esprimere giudizi su qualsiasi allestimento. Purtroppo dettagli di regia, scene, costumi e luci alla radio non rendono molto.

    • Caro Emmeci, sara fatto presto. Questo non credo ci tolga facolta di discure di un principio. Presenti alla prima mi hanno detto, peraltro, che il pubblico abbastanza folto è stato abbastanza freddo nei consensi, a differenza di quanto proclamato da mamma rai

  8. L’ho sentita solo alla radio ed è stato difficile sopportare fino in fondo tutte quelle urla. Pertanto trarre conclusioni o indicazioni addirittura su tutto il ‘verismo’ (tra l’altro siamo così certi che si tratti davvero di un’opera così verista?) proprio da questo allestimento musicale non è prudente. La Cena è un’opera notevole e ricca di indicazioni estremamente interessanti, ma va cantata bene. Anche il verismo andrebbe saputo cantare, legando, modulando e tutto il resto. L’Opera, in generale, va cantata bene altrimenti fa male alla salute, porta male. Detto questo la consueta trasposizione (un collasso su un cliché) e, soprattutto, il finale riscritto in quel modo (un finale post-adolescenziale da fumetto, da teatrino dove il pubblico irritato tira la scarpa…) mi sembano operazioni di SVUOTAMENTO culturale fine a sé stesse e basta. Ritornando ai principi di regia. Tutto si può fare E STA BENE ma dev’esserci un’IDEA. Quest’IDEA dovrebbe essere più forte degli elementi strutturali modificati o rimossi. Pertanto l’operazione dovrebbe portare ad un utile di vario tipo. Se non c’è l’ultile c’è l’inutile.

    • Detto benissimo: condivido in pieno. Sulla definizione di verismo c’è molta imprecisione. In senso stretto la Cena delle Beffe ha poco a che vedere col verismo, quello del decennio 1890-1900 legato della poetica rusticana del coltello. Peccato comunque per chi , non conoscendo ancora la Cena delle Beffe, se ne faccia idea dall’allestimento della Scala.

      • Io l’ho visto mercoledì ( e comunque, per meglio rifletterci sopra, tornerò a vederlo ). Non è che non ci fosse un’idea. L’idea c’era: mi sembra sbagliata. Il finale poi l’ho trovato francamente insopportabile. Aggiungo, ma sono gusti personali, che mi attraggono molto poco gli allestimenti minuziosamente realistici.

      • Non posso giudicare lo spettacolo è vero perché non l’ho visto. Magari è pure bello: non lo discuto nel modo più assoluto e non lo escludo affatto dato il livello altissimo della produzione. Ma una cosa è lo spettacolo, la sua fenomenologia, un’altra è il concetto di regia: sono due cose diverse. Pertanto, con buona pace di tutti, discuto le scelte narrative. Sì. E non per preconcetto. Le agomentazioni critiche esposte sopra mi sembrano esposte con sufficiente chiarezza e credo non avrà avuto difficoltà a comprendere. L’ambientazione mafiosa, mi lasci aggiungere, allude poi ad una violenza che nasce ed evolve nella povertà: assolutamente incogruente con la violenza crudele maturata nel cuore di una classe sociale ricchissima e opulenta cresciuta nell’arroganza e nel privilegio qual’è quella dei personaggi della commedia. Saluti.

  9. Ne sono state scritte di tutti i colori in questi giorni su quest’opera e sulla riproposizione scaligera. Ma è bene parlarne così in molti scopriranno qualcosa di nuovo :) Personalmente, infatti, mi è venuta la curiosità di ascoltare questa Cena delle beffe nei prossimi giorni per farmi un’idea più chiara di questo lavoro, che alcuni trovano pessimo mentre altri apprezzano, e del libretto, quasi ovunque disprezzato.
    Piccola chiosa personale, che fastidio dover leggere in ogni dove riferimenti spregiativi e standardizzati al D’Annunzio drammaturgo (drammaturgo splendido! basta leggerlo) attribuendogli anche le colpe di chi, magari ispirandosi a lui, non ne condivideva però la genialità!

    Vorrei dire anch’io la mia sulla questione delle regie. Non sono contrario a regie moderne ben fatte anche se solitamente preferisco si seguano le linee fornite dal libretto, non necessariamente in modo pedissequo, ma tale almeno da non stravolgerlo. Non so se ciò corrisponde al gusto della maggioranza degli appassionati, ma sono piuttosto convinto che piacerebbe molto di più a chi si avvicina all’opera che si aspetta determinate cose e ne trova altre che non c’entrano e magari gli fanno pure perdere la voglia di capirci qualcosa (non dello spettacolo in sé, ma dell’opera).
    Infine, per opere molto rare trovo concettualmente sbagliato non cercare di costruire una messinscena che segua il libretto quasi alla lettera in modo da rendere giustizia all’opera per come è stata pensata e aiutare gli spettatori ad approcciarsi al nuovo lavoro e alla mentalità che ci stava dietro.

  10. Sì, i titoli rari andrebbero proposti con grande attenzione e delicatezza: si corre sempre il rischio di non capirci nulla. Cosa diversa accade per i titoli più assimilati, dove gli interventi di regia sono praticamente necessari (sempre tentendo conto che a guerra finita l’idea debba condurre ad un utile…).
    Quanto a D’Annunzio sono totalmente d’accordo con Lei: purtroppo esistono ancora nostalgici picchettaggi… Va ancora così. Non è senza ragione che culturalmente abbiamo perso tanto terreno. Saluti.

  11. Ero presente alla prima dell’opera. La scenografia non era malvagia, i costumi erano convincenti, perché coerenti con la scelta registica. Pure, questa mi è parsa discutibile perché l’ambientazione a Little Italy anziché a Firenza mi è parsa una banalità, fondandosi su una superficiale analogia tra gradassi tardomedievali e la criminalità mafiosa: va bene che Martone nasce come regista cinematografico, ma avrebbe ben potuto allargare la sua esperienza a mondi diversi, senza scimmiottare C’era una volta in America o il Padrino. più in generale, credo che molti soggetti operistici abbiano assunto una connotazione mitica, in un certo senso: sono vicende esemplari, che rappresentano figure e vicende astoriche, quasi archetipiche. Oggi si tende a demitizzarle, addirittura a psicanalizzare quei miti, dimenticando che la psicanalisi freudiana procedeva per miti. Quanto all’esecuzione, mi è parso che almeno Giannetto – forse anche la Ginevra – fossero sommersi dall’orchestra, e che tentassero di resistervi urlando (ma Giannetto sembrava senza fiato). Solo Neri riusciva ad affermarsi scenicamente, grazie alla potenza vocale oltre che alla prestanza fisica.

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