Rof 2017, seconda puntata: quando il Paragone non regge

Non si è trattato di un miserando naufragio come quello del Siège de Corinthe, ma anche nell’esecuzione della Pietra del Paragone sono sempre le ombre a prevalere sulle luci. Di gran lunga. Per questo gioiello comico, capolavoro del giovane genio di Rossini, il Rof – con la sua consueta genialità – ha pensato di puntare su un cast di una modestia indicibile. In decenni di attività dedicata al pesarese, infatti, risulta quantomai evidente che ancora non hanno capito la lezione, loro: Rossini non tollera la mediocrità.

Veniamo all’esecuzione. La direzione di Daniele Rustioni è stata ineguale: se la sinfonia è risultata troppo pestata, il primo atto è stato, invece, sostanzialmente positivo. Ci sono stati alcuni svarioni (penso alla stretta dell’introduzione ridicolmente rapido, o al calo di tensione musicale in gran parte del finale I, la parte di Sigillara per intenderci), ma, nel complesso, ha saputo restituire alla partitura frizzantezza e notevole ritmo narrativo, elementi imprescindibili per un lavoro buffo di questo tipo. Si è trattato di una direzione non particolarmente elegante, non sempre ordinata, ma schietta e funzionale. Estremamente deludente, di contro, l’intero secondo atto, venato da tinte preromantiche e più spiccatamente semiserio con splendide gemme di puro lirismo (l’aria di Giocondo, l’aria del Conte); qui il direttore è parso perdere completamente il senso del ritmo narrativo, non ha saputo valorizzare le ricchezze della partitura e andare oltre un accompagnamento assai poco ispirato, avaro di colori e spesso disordinato, con scelte di tempi assai discutibili (es. la cabaletta del Conte a una velocità supersonica). Non particolarmente brillante l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, ma relativamente corretta (corni disastrosi a parte). Il coro del Ventidio Basso di Ascoli Piceno ha offerto una prestazione ancora inferiore a quella già discutibile del Siège de Corinthe.

Il cast ha visto trionfare Maxim Mironov (Giocondo) che, rispetto ai suoi colleghi, pratica un canto elegante e gradevole. La voce è molto simile a quella del giovane Florez (quindi con tutti i limiti di cui si è detto molte volte), la dizione e l’attenzione alla linea lo rendono un’interprete attendibile quantunque poco personale. La magnifica aria del secondo atto è stata risolta con correttezza, nonostante mancasse di reale abbandono e abbia inserito troppe variazioni acute nella sezione finale guastando la linea melodica rossiniana. Non è parso un grande attore (vocalmente) neppure nei numerosi momenti d’insieme in cui l’ironia e lo sdegno propri di questo personaggio profondamente nobile sono parsi assai pallidi e superificiali. Comunque, pur se lontano dall’optimum, Mironov si conferma uno dei migliori tenori rossiniani in circolazione.

Nel resto del settore maschile si sono avvincendate tre voci praticamente indistinguibili tra loro: conte, gazzettiere e poetrastro sono risultati intercambiabili, tanto più che tutti e tre gli interpreti più che cantare parlano. Il conte di Gianluca Margheri è incapace di eseguire la coloratura (come dimostra ampiamente la sortita, imbarazzante sotto ogni punto di vista), manca di cavata, ha vistosi problemi di intonazione e tempo; il cantante dimostra di essere ampiamente al di sotto del livello richiesto per affrontare a una parte protagonista di questo spessore. Davide Luciano è un Macrobio sgradevole e caricato afflitto da un fastidioso vibrato stretto. Paolo Bordogna, probabilmente il meno peggio dei tre, ha dalla sua l’esperienza e un naturale talento istrionico, sempre votato, purtroppo, alla volgarità, come dimostra Ombretta sdegnosa, trasformata in un triste momento di avanspettacolo (che il pubblico ovviamente apprezza). Con quale coraggio si leggono stroncature a gente come Corena, Montarsolo, etc. che, oltre ad avere voci giganteschi per gli standard odierni, in confronto ai presunti bassi della “nuova generazione rossiniana” risultano castigati?!

Il settore femminile può vantare due comprimarie pessime e volgari, Aurora Faggioli (Aspasia) e Marina Monzò (Fulvia, purtroppo dotata di un’aria di sorbetto malamente eseguita), e una protagonista che in un mondo giusto potrebbe fare solo la comprimaria. Si tratta di prodotti di fresco dati fuori dell’ormai mitica Accademia rossiniana, distopica palestra di alta formazione votata al lancio di cantanti rigorosamente privi di talento. Aya Wakizono (Clarice) ha una voce timbricamente anonima in cui esce quasi solo aria; la tessitura grave del ruolo rende evidente che la cantante non è un reale mezzosoprano, quanto piuttosto un soprano con la voce sotto i piedi che, ovviamente, emette aria calda nel grave e nel centro (praticamente tutta la parte), per poi strillare malamente i pochi acuti previsti o interpolati. Se nella prima aria la freschezza le ha permesso di esibire un minimo di ampiezza oltre ai gravi grotteschi, col procedere della serata la voce è letteralmente scomparsa, raggiungendo l’apice dell’imbarazzo nell’aria del secondo atto che è parso un solfeggio appena accennato coronato da un maldestro fischiante acuto nella chiusa. La dizione è buona, anche se non sembra che la cantante capisse realmente quanto diceva, la personalità non è pervenuta, così come la voce, temo, per quelli che stavano in teatro.

L’opera è stata eseguita con notevoli sforbiciate ai recitativi, un gran peccato data la genialità del libretto di Romanelli che realizza un connubio splendido con la frizzante musica rossiniana. È proprio ai recitativi che va un’ultima considerazione. Dal modo in cui questi sono regolarmente tirati via, declamati di fretta con un campionario standard di vezzi manierati senza reale cura per la parola, per l’inflessione, si ha la cartina tornasole della qualità del lavoro e della preparazione di un festival che, pur proponendosi come grande evento, cade inesorabilmente al livello delle tante sagre estive che tingono di folklore il nostro Bel Paese.

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