La stagione di Ferrara Musica entra nel vivo con il concerto della Deutsche Kammerphilharmonie Bremen, che vede protagonisti Martha Argerich e Vladimir Jurowski. La presenza della settantaseienne pianista argentina era, sulla carta, il motivo di massimo interesse della serata, soprattutto perché l’interprete tornava ad affrontare uno dei “suoi” classici, il concerto di Schumann. Dopo alcune prove non troppo convincenti, anche e soprattutto sotto il profilo del contesto esecutivo (penso ai concerti del tipo “Argerich and friends”, proposti recentemente anche in Italia), l’artista colpisce e avvince per la capacità di proporre una lettura del tutto diversa e per molti aspetti antitetica rispetto a quella che ci si aspettava da lei. Manca, o per meglio dire si declina diversamente, l’esplosione di energia, cui la pagina di Schumann sembra destinata fin dal bruciante incipit: i tempi sono rallentati, le sonorità a tratti quasi ovattate, sempre cangianti, le intemperanze dinamiche come frenate da un legato di grande qualità. Si tratta di una lettura di grande coerenza e saggezza, ché le occasionali esitazioni del virtuosismo e i quasi impercettibili décalage rispetto all’orchestra (merito del direttore averli “normalizzati” e assorbiti il più possibile) sono più che comprensibili per un’artista arrivata a un simile traguardo di vita e di carriera. Sembra quasi che le sulfuree bellezze del concerto vengano ammansite da un tocco nuovo, solo in apparenza più fragile, capace di rivelare la melanconia, così tipica dell’autore, solitamente nascosta dietro il dinamismo di alcune delle sue melodie più celebri. Forse meno sorprendente, ma non meno impressionante è la prova del direttore, capace di passare da un Mozart (quello della Sinfonia K 318) fresco e solare, quanto privo di affettazione, a una lettura di Schumann, che aderisce perfettamente alle idee e alle possibilità della solista, a una Terza di Mendelssohn che rinnega il “pittoresco” per offrire una visione travolgente della Scozia evocata dall’autore, visione cui contribuiscono in pari misura l’inesausto rigore ritmico, la continua ricerca di colori e sfumature dinamiche, il tutto capace di confluire in un equilibrio tutt’altro che sterile o imbalsamato. Siamo lontanissimi dalle letture levigate, o per meglio dire “disseccate” di certi maestri del passato prossimo, sopraffini esecutori ma, in molte occasioni, fatalmente estranei alle tensioni vertiginose di questa e altre musiche. L’incanto prosegue con il bis, il Notturno dalle musiche di scena per il Sogno shakespeariano, ultima parentesi onirica nel fatato “gioco delle coppie”, prima che il sorgere del sole segni il dissolversi della magia e il (definitivo?) ritorno all’ordine. Anche qui, la precisione delle varie sezioni dell’orchestra (ottima compagine, al pari di numerose altre della Mitteleuropa), il tono impalpabile di fiati e archi non ha nulla di accademico o lezioso, accentuando il mistero della musica. Un concerto che, riportando alla memoria alcune esecuzioni emiliane di circa quindici anni fa (non solo circoscritte al repertorio russo), fa percepire una volta di più l’abisso che separa le promesse di ieri (e solide certezze di oggi) da certi talenti odierni, incapaci non dico di emergere, ma di esercitare con dignità la loro professione.