Norma a New York

Milanov-and-PonselleChi avesse tempo e buona volontà di leggere le recensioni delle rappresentazioni di Norma al Met a partire dal 1894 sino agli anni Trenta si renderebbe facilmente conto come la preoccupazione ed al tempo stesso l’irrinunciabile necessità nell’allestire fosse quella di affrontarlo con rigore e pertinenza vocale e drammatica. Quando in occasione delle premiere al Met protagonista Lilli Lehmann (sacerdotessa dapprima in tedesco e, poi, in italiano) dichiarò più facile cantare le tre Brunilde che non la sacerdotessa Druidica ed i giornalisti facevano costante richiamo allo stile al fraseggio di Pasta e Grisi (udita a New York circa mezzo secolo prima della Lehmann) abbiamo la prova di quale alone di sacralità circondasse questo personaggio e, mi permetto di aggiungere, questo titolo. Tra le righe delle recensioni dell’edizione del 1927 che vide il debutto della Ponselle (da alcuni ritenuta la maggior Norma prima della Callas) si legge che il Met, ovvero il più grande teatro d’America, non poteva tollerare di vedersi superato dal Lexington dove qualche anno prima (presumo nel 1924) si era esibita, con la compagnia di Chicago, l’altra Rosa ovvero la Raisa, la diva di Chicago. Tutto questo non per fare né cronaca, né tanto meno erudizione, ma per collocare nell’ottica di sua pertinenza (giusta, potremmo dire?) il personaggio, l’opera e trarre le conseguenze in punto ultima esecuzione del capolavoro Belliniano nel massimo teatro americano.
Aggiungo che molte delle grandi Norme documentate dal disco hanno affrontato il personaggio al Met se si escludono protagoniste italiane del primo ventennio del ‘900 come la Russ, la Boninsegna e la Burzio, poi, Anita Cerquetti o quelle di area middleuropea come la Leider e la Nemeth. Poi il diluvio al quel non si sottrare, anzi, di cui è paradigma la produzione proposta in questi giorni con protagonista Marina Rebeka, già protagonista a Trieste la scorsa stagione. Preciso che il Met ha provato a fare le cose in grande schierando anche l’Adalgisa di Joice di Donato ed il Pollione di Jospeh Calleja. Quanto di meglio oggi in circolazione e quanto si crede possa esserlo per questo titolo.
Ci vorrebbe da parte di chi predispone i cast il ritorno all’umiltà ed al buon senso del programmare le opere con i cantanti di cui si dispone e magari ne sortirebbe un buon Matrimonio segreto o un passabile Elisir d’amore. Titoli degnissimi e grandi nella produzione operistica, ma assai meno insidiosi con le forze di cui si dispone.
Dirò che è questa produzione un fallimento e dirò che non può essere differentemente e non già per mende vocali, ma per errori che vanno ben oltre le mende vocali del singolo esecutore.
Che Marina Rebeka abbia problemi vocali è vero bastando sentire una prima ottava scarsamente sonora e piuttosto vuota, come giustamente accade a chi provenga dai ranghi dei soprani lirico-leggeri e canti con assoluto orrore delle risonanze gravi piene e sonore, talvolta tirata in alto, sempre con il fiato corto in questo non certo sostenuta dai tempi slentati di Carlo Rizzi, che crede di avere a disposizione la gloriosa voce e le poderose tenute di fiato di una Amerighi Rutili, giusto per non citare le solite dive, ma una considerata specialista della parte. Paradossalmente non è questo il problema perché poche o forse nessuna Norma è stata vocalmente perfetta e, se lo è stata, lo è stata per pochissimo tempo come testimoniano le esecuzioni dal 1952 al 1957 della Callas o lo è stata a discapito del dire e dell’accento come è accaduto alla Sutherland. Ora inadeguate o limitate queste due cantanti, come altre prima di loro, hanno, però, reso il clima dell’opera la tragedia conturnata, che richiede splendore vocale, ampiezza di suono per poter dire o almeno cantare la tragedia della sacerdotessa amante e madre ossia di un personaggio nel quale si coagulano sentimenti e situazioni sempre o quasi al limite. L’esecuzione di Marina Rebeka ad onta dei perdonabili limiti vocali è il puro nulla. Paradossale: cantare Norma senza scivoloni disastrosi e nel contempo essere nulla. La voce è quella di un ex soprano leggero o lirico leggero cui sono estranei l’ampiezza e la sonorità adeguate allo strumentale ed a fraseggio belliniano e quindi niente potenza tragica del dire, scansione dei recitativi e legato, che consenta frasi musicali che coincidano con quelle drammaturgiche e dove non sembrino esserci riprese di fiato. Arenarsi in riprese di fiato non è solo un limite vocale e tecnico, ma soprattutto spezzare il significato della stessa frase e la sua valenza drammaturgica.
Pochi titoli al pari di Norma danno la prova dell’indissolubile necessità di un grande controllo tecnico per essere o provare ad essere una interprete adeguata. Adeguata, tengo a precisarlo, non significa solo vocalmente perfetta, significa in grado di superare le difficoltà della parte senza rimanerne vittima ed essere interpreti, o almeno provarci. Donde le frasi quasi sibilline di una Lehmann, la spasmodica ricerca dopo un trentennio da quelle rappresentazioni di un’altra protagonista, che potesse esaudire parte delle problematiche e nella storia dell’opera la circostanza che pochissime cantanti abbiano superato gli ostacoli che Bellini e la Pasta hanno lasciato. E, quindi, l’obbligo per chi ha la pretesa e la presunzione di fare cultura, di tramandare uno dei capolavori dell’opera e dei modelli assoluti della poetica pencolante fra Neoclassicismo e Romanticismo di pensare e ripensare prima di offrire una realizzazione inadeguata non solo vocalmente, ma e principalmente, sotto il profilo interpretativo.

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5 pensieri su “Norma a New York

  1. L’ascolto dei brani proposti conferma che in passato chi interpretava Norma, ed erano in molte, ne aveva la voce. Splendide Ponselle e Pedrini! In quanto alla Rebeka, che ho avuto modo di apprezzare in altro ruolo qui a Roma, penso che come tante sue colleghe si dedichi all’infelice sacerdotessa solo ed esclusivamente per l’assenza di soprani autenticamente drammatici e perché la scritturano per farlo. Competenza e amore per la lirica vorrebbero che si mettessero in cartellone le opere liriche per le quali si dispone dei nomi giusti in assenza dei quali è meglio non svilire capolavori come Norma ed altri.

    • estendo la riflessione precisando che un soprano lirico spinto nella fase finale della carriera come Maria Chiara si tenne ben lontana dal ruolo di Norma, pur avendo cantato Bolena, Sturada e pensato a lungo al Devereux. Molte Norme della mia giovinezza come la Scotto e soprattutto la Caballè (di fatto fra il 1972 ed il 1978 monopolista del ruolo con alcuni meriti e alcune carenze non superate dall’accento) furono e con ragione tacciate di essere leggere, inespressive, carenti di accento e peso vocale. Aggiungo un paradosso ossia accento inerte per accento inerrte, perchè tale reputo quello della Caballè che distribuiva quasi sempre a casaccio filature ed aerei pianissimi (ho sentito dal 1972 al 1977 in Scala la sua sacerdotessa) avrei preferito l’inerte splendore vocale ed il fulgore in zona acuta di una Arroyo.

      • Splendida la voce dell’Arroyo!
        Ho ascoltato in teatro sia Maria Chiara che Renata Scotto e Monserrat Caballe’ ai tempi in cui erano giovani e in carriera, ma l’unica che ho sentito nel ruolo della sacerdotessa, non la Chiara che saggiamente non l’ha mai interpretata, è stato il soprano spagnolo in una recita trasmessa in diretta Rai dalla Scala che all’epoca mi sembrò una Norma altamente improbabile.
        A mio modesto parere dopo Callas e Cerquetti l’unica con i mezzi giusti per affrontare il capolavoro Belliniano e’ stata Rita Orlandi Malaspina, forse Shirley Verret oltre Atlantico?
        Colgo l’occasione per complimentarmi con Lei e gli altri per l’anniversario del Corriere della Grisi, che apprezzo per competenza, indipendenza di giudizio e indubbia cortesia nel dare spazio anche a semplici appassionati di lirica come la sottoscritta.

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