Aida a Bologna: il resto di niente.

I nostri detrattori ci accusano di non andare abbastanza spesso a teatro. Stavolta però sono andato a sentire questa Aida e, francamente, avrei fatto meglio a risparmiarmela (e a risparmiare a chi legge il tedio della cronaca). Non siamo (checché se ne pensi e scriva) malati di presenzialismo (anche perché presenziare ad “eventi” del genere…) e la semplice lettura della locandina permetteva di capire che tutto sarebbe stato, meno che uno spettacolo memorabile. E invece alla fine, un po’ per curiosità, un po’ (molto di più) perché un amico, che ama molto alcune opere ma è lungi dall’essere un melomane in senso stretto, aveva espresso il desiderio di assistere finalmente a un’Aida, mi sono fatto coinvolgere. Parto dalla fine, ovvero dal giudizio del mio compagno di ascolto: al netto di alcune pagine celeberrime (trionfo e atto del Nilo su tutte), l’opera è parsa discontinua sotto il profilo dell’ispirazione musicale e francamente inutile per una buona metà del suo sviluppo drammatico (si salva, in sostanza, solo la seconda parte dello spettacolo). L’impressione è interessante e suscita alcune riflessioni, perché tutta la prima parte di Aida non contiene eventi propriamente detti, ma serve a preparare, come nel grand-opéra (genere che è per molti versi affine a quest’opera, a partire dall’ambientazione esotica e dalla presenza di scene spettacolari, nonché del canonico balletto), l’azione, presentando i personaggi e descrivendone gli affetti. Proprio in questo è parsa carente la direzione di Frédéric Chaslin, che dopo una pallida Carmen impegna le compagini bolognesi in un’Aida discretamente suonata (al netto di non occasionali sbavature degli archi, specialmente nelle entrate in piano e pianissimo) ma tremendamente amorfa sotto il profilo dei colori e della tenuta drammatica, oltre che piuttosto approssimativa nei momenti in cui sarebbe richiesta la massima coesione sotto il profilo orchestrale e corale (scena del tempio, il già menzionato trionfo e tutto il quarto atto). Ma il vero limite della direzione è quello di non sapere valutare nella maniera più corretta le forze vocali di cui si dispone, dal momento che, in presenza di solisti di limitato calibro e tecnica a dir poco precaria, appare assolutamente insensato optare per tempi rigorosamente larghi (anzi, slentati), che finiscono per spremere all’inverosimile gli esecutori. Ovviamente il parco cantanti si uniforma alla regola della (supposta) “liricizzazione” del titolo, titolo che, vale ricordarlo, di lirico, inteso come intimistico e piccolo borghese, non ha nulla. La protagonista, Monica Zanettin (che con non poco stupore apprendo avere già affrontato il titolo all’Arena di Verona), è una voce, al più, da Mimì o Manon di Massenet, con scarsa proiezione all’ottava centrale e acuti più voluminosi, ma quasi sempre malcerti (il la alla fine della romanza più del do, a onor del vero). Alla stessa categoria, ovvero a quella del soprano lirico scarsamente sfogato in acuto, appartiene Nino Surguladze, un’Amneris che quasi mai oltrepassa l’orchestra (specialmente nella scena del giudizio) e che, quando deve cantare in maniera suadente (che sogni l’amore o instilli nell’animo di Aida il dubbio circa la morte di Radames, poco cambia) in zona medio alta, emette suoni sgraziati e traballanti. Rose e fiori, comunque, davanti ad Antonello Palombi (impegnato nelle recite del secondo cast e sostituto last minute, nella recita del 21 novembre cui ho assistito, del collega della prima compagnia, Carlo Ventre), a corto di fiato e piuttosto stonato nella romanza di sortita e nella scena del tempio, un po’ più solido al trionfo (ma la scrittura delle “stille del pianto adorato” distingue implacabile l’esecutore di razza da quello dotato di voce brada) e di nuovo in seria difficoltà negli ultimi due atti, in cui non ha l’impeto del guerriero né la tenerezza dell’innamorato (cui maggiormente si presterebbe una natura vocale, più affine ai personaggi donizettiani e belliniani, che richiedono però ben altra saldezza tecnica), e ad Antonio Di Matteo, forse la voce più voluminosa del cast quale Ramfis, ma la cui dote risulta già intaccata dalla posizione decisamente bassa della voce, che priva il personaggio di qualunque aura mistica o almeno machiavellica. Alla fine, nella compagnia emerge (più per i limiti altrui che per i propri meriti) Dario Solari, che nonostante la limitata ampiezza del mezzo risulta sorvegliato sotto il profilo del gusto, e dunque abbastanza plausibile, nella perorazione al finale secondo, assai meno, però, nel momento in cui deve persuadere e poi maledire la figlia, ché l’eloquenza del baritono verdiano (qui nella duplice declinazione di sovrano e padre) poco si addice a un cantante che sarebbe maggiormente adatto al Verismo e a Puccini. Quanto allo spettacolo di Francesco Micheli (proveniente dallo Sferisterio di Macerata, dove ha debuttato la scorsa estate, quando il regista era ancora direttore artistico della manifestazione marchigiana), dire che sia il nulla ancora non rende l’idea della povertà di idee, prima ancora che di mezzi, che lo contraddistingue. Sul palcoscenico il vuoto, salvo una pedana e una parete inclinata, che vorrebbero richiamare un libro o, più verosimilmente, un laptop. La scenografia viene integrata dalla proiezione di scritte e disegni, che pedissequamente ripropongono concetti e immagini desunte dal libretto. I costumi sono ovviamente essenziali (ma assai poco chic), il coro (specie la sezione maschile, composta per lo più da sacerdoti in tenuta da scriba) è spesso in scena anche quando la sua presenza non è richiesta (primo monologo di Aida). Il minimalismo delle scene raggiunge il suo apogeo all’inizio della scena del trionfo, quando sul palco resta la sola Aida e il coro deve prendere posto nei corridoi della platea. Per fortuna (si fa per dire) il balletto si svolge in scena, ma non è ovviamente un balletto, bensì il solito vacuo agitarsi di figuranti a metà strada fra il carnascialesco e la fantascienza di serie B (analoga soluzione era stata adottata per la danza mistica delle sacerdotesse alla scena del tempio, con un figurante/creatura antropomorfa che sembrava riciclato da un allestimento a caso di Bob Wilson). Impossibile narrare nei dettagli tutte le non-trovate della regia, ma l’entrata di Radames al terzo atto, con il guerriero che porta a spasso la fidanzata Amneris (mentre la medesima sarebbe impegnata in una veglia di preghiera – ma siamo, ovviamente, nella traduzione visiva del geloso delirio di Aida), risulta insieme lambiccata e superficiale. Insomma, rendere Aida un’opera noiosa e priva di pathos sembrerebbe un’impresa impossibile, ma il teatro di Bologna ci è riuscito in pieno. Chapeau.

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