Sorella radio: Turandot da Torino 16 gennaio 2018

Turandot-PodaIn attesa dello streaming abbiamo ascoltato la diretta radiofonica. L’interesse maggiore andava, non perché prevenuti, ma perché conosciamo bene quel poco o nulla che passa il mercato delle voci, alla direzione d’orchestra. Va detto che l’orchestrazione assolutamente novecentesca, anzi una delle esemplificative del Novecento ha sempre attirato i direttori dediti alla musica sinfonica e Gianandrea Noseda appartiene o vorrebbe appartenere a quella categoria. Solo che tutte le volte la recensione dedicata agli spettacoli del maestro potrebbe essere copiata dalla precedente perché il maestro è sempre, costantemente uguale a se stesso ossia l’orchestra suona bene con un suono gradevole in tutte le sue sezioni, gli attacchi precisi e si ha la sensazione che il maestro controlli buca e palcoscenico e poi? E poi niente perché oltre ad una certa tendenza ad andare “via svelto” ci sono sempre pesantezze e clangori, che fanno assai più parte di una tradizione areniana e non certo di quella sinfonica con raffinatezze estenuanti da Oriente letterario e Liberty, ossia con esasperate sonorità ed esaltazione delle dissonanze novecentesche. Nei dettagli il boia non fa paura, le maschere mancano di quel sale e pepe ed anche di quella nostalgia, che ne fa la rappresentazione novecentesca delle maschere della commedia dell’arte e che Gozzi aveva onorato, l’introduzione del quadro secondo non è ridondante e spettacolare, ma solo rumorosa e la notte di Pechino è una serata nelle villeggiature degli anni trenta fra Bellagio e Menaggio, tanto care alla buona borghesia lombarda.
Per altro dall’intervista rilasciata nell’intervallo sorge il sospetto che la mancanza di idee particolari in orchestra ed in palcoscenico nasca da idee superficiali e confuse con riferimento all’opera. L’affermazione che l’opera è terminata incompiuta (una sorta di non compiuto michelangiolesco in musica) perché Puccini non avrebbe saputo come terminarla, denota superficialità e scarsa attenzione al titolo ed alla sua drammaturgia. Il problema non è, a differenza di come la pensa il maestro, che un bacio da parte di uno straniero sia poco per sgelare Turandot, ma la realtà dell’opera è che Turandot, che ben prima del bacio, cede davanti alla prova d’amore gratuito e supremo di Liù. Basta ascoltare come Liù e poi Turandot cantano la frase “l’amore” con la stessa sonorità e la medesima orchestra a comprovare che la breccia è aperta ben prima del bacio di Calaf.
Interpretazioni freudiane a parte Turandot ha ben chiaro l’impianto favolistico e per l’impianto drammaturgico e per l’orchestrazione ,che Puccini le dedicò cercando di ricostruire un’atmosfera fiabesca. Piaccia o non piaccia.
Sentiti i cantanti sorge -legittimo- il dubbio di una strumentale scelta ammantata di cultura. Jorge de Leon si difende al primo atto, ma dall’invocazione “figlio del cielo” esibisce una voce dura, secca e sgangherata in zona bassa e negli acuti. Insomma la negazione di quel che Puccini previde per Calaf e che ha reso il ruolo assai più problematico di quello che forse è. Tacciamo poi di Rebeka Lokar che nel corso dell’intervista di rito ha dichiarato di essere un soprano lirico spinto. Un vero lirico spinto (diciamo la giovane Callas, oppure la Pacetti, la Scacciati, la Pauly sino a Maria Dragoni, Olivia Stapp ed Eva Marton) può anche bastare ed avanzare per Turandot a maggior ragione se il direttore privilegia l’aspetto introverso del personaggio, ma quando per tutta la scena degli enigmi si sentono suoni duri, spinti e per conseguenza mal fermi abbiamo la certezza che la signora sia, nella migliore delle ipotesi, un soprano lirico, che sta spingendo la voce ben oltre le proprie forze.La conferma viene anche da taluni suoni falsettanti come “figlio del cielo etc” che possono pertinere a Mimì o a qualche leziosa Butterfly e che svelano il carente sostegno della voce.
Le cose non vanno meglio con la Liù di Erika Grimaldi cui la tessitura molto centrale del terzo atto costa fatica e che manca gli appuntamenti canonici con le filature di tradizione, che sono il discrimen fra le due donne. Aggiungo che il lungo e straziante racconto di Liù ante mortem da luogo anche a problemi di intonazione oltre che di fermezza della voce. La vecchia scuola di canto diceva che era più difficile cantare piano che forte perchè le sonorità attutite mettono, inesorate, in mostra le carenze di controllo del fiato.
Quanto alle maschere buona dizione, ma piatte senza accento sapido, senza nostalgia, in ciò davvero adeguate alla direzione ed alla impostazione dello spettacolo. Corretto, ma in linea con la ordinaria amministrazione di Turandot da novantun anni a questa parte.

5 pensieri su “Sorella radio: Turandot da Torino 16 gennaio 2018

    • Concordo anche io personalmente preferisco i direttori inglesi a quelli italiani a volte troppo attenti al dettaglio cosa sacrosanta ma il troppo appesantisce. Comunque Noseda come scritto non è volgare, è corretto. Qui finisce. Accompagna con garbo e pertinenza e a volte salva le opere dalle compagnie di canto, quindi io me lo terrei stretto se penso agli armiliato e mariotti per me volgari e insopportabili. L’ultimo concerto a cui ho assistito è stato quello ahimè del compianto marriner nelle ultime sinfonie di Mozart concerto che poi è stato l’ultimo. Li oltre a un suono pulito pur non essendo con la sua orchestra, sembrava quasi che la musica fluisse nella sua interezza senza mai essere banale o inutilmente lenta con quel senso di inerzia che spesso porta alla noia.

    • Con i due coristi all’ospedale,e non sapendolo esattamente le loro condizioni,e lo spavento , oltre alle indagini degli organi preposti,lo spettacolo non poteva continuare, piuttosto gli spettatori saranno rimborsati,o la recita rifatta in una altra data ?

  1. Scrivo queste note a commento della recita di Turandot cui ho assistito sabato 20 c.m.
    Una premessa: scrivo senza avere ancora letto i commenti di Donzelli, ciò facendo volutamente prima di recarmi a teatro, per evitare di esserne anche involontariamente condizionato nei miei giudizi e che, per le stesse ragioni, non ho ancora letto prima di redigere queste frasi.
    Or dunque. Secondo me questa edizione di Turandot era sin dall’inizio del tutto inutile, poiché l’opera era stata rappresentata al Regio solo 4 anni fa, con un allestimento molto migliore di quello attuale (bastava vedere i bozzetti per capire quello che poi, ohimè, si è potuto constatare in sala). A meno di spiegarla con un desiderio del M° Noseda di dirigerla, proprio non si comprende il perché di tale esecuzione, per di più con un nuovo (brutto) allestimento. Proprio l’allestimento – come ampiamente riferito da stampa e televisione -ha dimostrato le sue pecche, con il crollo di alcune parti delle scene sopra a dei poveri coristi nel corso della seconda recita.
    Alla quarta recita, cui ho assistito, tutte le parti sospese della scenografia, ad mala maiora vitanda, non c’erano più, ma non credo che le scene sarebbero migliorate con esse; brutte erano e brutte sarebbero continuate ad essere.
    Teatro pieno, con pochissimi posti vuoti. Orchestra e coro sempre bravi, ma questa non è una novità. Il M° Noseda non mi è parso, però, al suo meglio. Stavolta era, non saprei neanche spiegare bene perché, un poco deludente rispetto al solito livello cui ci ha abituati. Qualche strano eco nel secondo atto in orchestra, non si comprende perché.
    Purtroppo i cantanti sono abbastanza deludenti (ma bastava leggere la distribuzione sui programmi per capirlo). Il soprano Rebeka Lokar, divenuta titolare del luogo da seconda che era in origine, non avrebbe una brutta voce, ha un certo corpo nei centri, ma ci sono dei problemi nella parte acuta. Meglio di altre che hanno affrontato il ruolo, ma non ideale. Erika Grimaldi (Liù) ha convinto di più in altre occasioni; pur essendo evidenti gli intenti espressivi la voce appariva, per così dire, acidulata e timorosa. Mi hanno riferito che alla generale ed alla prima aveva cantato decisamente meglio. Forse era sotto choc per il crollo? Il tenore De Leon, di cui ricordo l’ascolto radiofonico di un discutibilissimo e fuori parte Radames in una orrenda Aida scaligera alcuni anni fa, non ha deluso le aspettative, nel senso che, dato il precedente ascolto di cui sopra, mi aspettavo proprio quel che ho sentito, cioè qualcosa di ben diverso da Lauri Volpi, Merli e Corelli. Mai sentito un Calaf tanto monocorde, con un canto sempre costantemente sul forte, senza una variazione espressiva, un tentativo di smorzare, cantare piano o anche solo in mezzoforte (tentativi che, invece, la Sig.ra Grimaldi faceva). Gli acuti c’erano, anche se non perfetti, ma la voce dava l’impressione di una voce non adatta per natura a ruoli impegnativi, ma artificiosamente ingrossata e scurita, come un Nemorino che cantava da tenore drammatico. Il basso In-Sung Sim ha una bella voce, con un vero timbro da basso, ma non pare tecnicamente perfetto al 100%.
    Alla fine i cantanti che mi sono piaciuti di più sono stati i tre ministri (Romano, Casalin e Atxalandabaso), anche se in qualche brevissimo momento non riuscivano – non per colpa loro – a stare perfettamente a tempo con l’orchestra e fra loro. Mi spiego: nella prima scena del secondo atto, quando i tre cantanti dovrebbero stare vicinissimi l’uno all’altro per poter seguire i tempi e l’orchestra ed intrecciare nel modo giusto le rispettive voci (proprio come nella seconda scena del primo atto di Falstaff) il regista ha avuto la geniale idea di metterli sulla scena ad una certa distanza l’uno dall’altro, su una pedante rotante, che costringeva, durante il canto dei brani dai tempi più veloci, a movimenti inutili, intenti a fare lavoro di necrofori, bendando dei cadaveri (i pretendenti sfortunati? Bah? Ma avevano la testa!). Tutto ciò alla faccia dell’ottimizzazione della resa musicale.
    Appunto la messa in scena di Stefano Poda era la cosa peggiore dell’edizione. Ma già era da prevedersi, vedendo anche i bozzetti pubblicati sul sito del teatro ed avendo presenti le precedenti messe in scena di Thais e Faust, banali, ripetitive e noiose.
    Evidentemente il Sig Poda piace alla direzione artistica del teatro che vede nei suoi allestimenti qualcosa che io e molti altri spettatori non vediamo.
    Già il Faust era noioso, con la sua scena praticamente unica, con il coro con costumi tutti eguali, con mimi e danzatori intenti a gesti e movimenti inutili e senza senso.
    La Turandot è la stessa cosa, solo che qui la scena è bianca. E bianchi i costumi del coro nel primo atto (senza distinzione fra polo e soldati), con la famiglia Timur in scuro; Timur entra da una parte della scena, Liù dall’altra. Il loro ingresso ovviamente troppo presto. Calaf con un abito che pare opera di un imitatore di Versace. Movimenti mimici incomprensibili. I tre ministri in abiti scuri disseminati di lustrini, da mercatino rionale. Manca il gong. Ovviamente. Noia.
    Nel secondo atto i tre ministri, stavolta in bianco, fanno – come detto – necrofori più o meno felici. Si perde tutto il clima quasi da cabaret voluto da Puccini. Peccato poi che l’idea di rendere la scena con un clima più truce ci fosse già nella Turandot che avevo visto a Parigi 21 anni fa. Discutibile là, ancora di più qua, anche per il problemi dal punto di vista musicale di cui sopra.
    L’imperatore arriva con il coro, tutti in bianco e non se ne distingue, tutti essendo vestiti identici (mi veniva in mente, date le parrucche, Crozza in una macchietta di anni fa). Turandot arriva con il coro femminile, vestito tutto come lei, con lo stesso abito nero e la stessa parrucca chiara o bianca. Poi quando Turandot cantava tutte le donne facevano finta di cantare. Solidarietà femminile? Dimostrazione contro la violenza sulle donne, more fiorentino? Anche se Turandot non è proprio il personaggio più adatto a tali scopi….
    Calaf ascolta gli enigmi sdraiato su una chaise longue, dietro alle quinte trasparenti laterali, intento a farsi una pennichella.
    Nel terzo atto i ministri sono in bianco e nero. Essendo sul palcoscenico metà coro in bianco e metà in nero verrebbe da chiedersi se vi sia un involontario omaggio alla Juventus nella sua città.
    Al momento del “Tu che di gel”, Turandot e le donne (ovviamente niente guardie, ma ça va sans dire) tirano fuori un coltellaccio e se lo piantano nel pancino, mentre Liù fa finta di farlo con un coltello che non esiste. Infatti lei resta in piedi, mentre le altre cadono per terra, salvo poi rialzarsi, mentre Liù si avvia verso il fondo e qui termina l’opera.
    Una noia di messa in scena, prevedibilissima per chi avesse visto le precedenti realizzazioni dello stesso regista. Movimenti al rallentatore, ed altre cose che Bob Wilson faceva 40 anni fa. Grande noia.
    Il pubblico del Regio subalpino, notoriamente non così feroce come il loggione del Regio parmense quando il loggione del Regio parmense era una cosa seria, non è apparso gradire il tutto come ci si dovrebbe aspettare di fronte ad un’opera quale Turandot.
    Alla prima pare che ci siano stati applausi per tutti, cantanti, direttore e regista. Stavolta non è andato proprio così….
    Qualche applauso alla fine del primo atto, ma non della durata che dovrebbero avere gli applausi alla fine del primo atto di una “normale” recita di Turandot. Qualcuno di più alla fine del secondo atto (forse si aspettava qualche nuovo crollo?)
    Alla fine dell’opera applausi di varia intensità ai cantanti, con molte gradazioni; applausi al coro, applausi a Noseda.
    Quando è apparso il regista (evento strano, trattandosi della quarta recita) è stato accolto da una selva di intensi, possenti e prolungati “buuh” quali non ho sentito da tempo al Regio. Buuh che provenivano da tutti i settori del teatro e che erano un piacere per le mie orecchie. Ovviamente io ero fra quelli che buavano, mentre altri spettatori vicino a me – c’erano delle signore che si comportavano da signore – si limitavano a non applaudire, così come avevano fatto per alcuni cantanti.
    Che bello sentire una bella buata, pienamente giustificata, come non si sentiva da troppo tempo! Ci sarebbe poi da chiedere quanto è costato tale inutile nuovo allestimento che perde i pezzi per strada…

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