Simone Boccanegra alla Scala. L’opera immaginaria di Pereira

simomInizia a fare tradizione la modalità con cui Alexander Pereira allestisce Verdi alla Scala. Una modalità originale e tutta sua, per certi aspetti impegnativa per il pubblico, dato che necessita di una costante ed attenta partecipazione dello spettatore. Questa consiste nell’affidare ad un bravo direttore, come è Myung Wung Chung, l’esecuzione della partitura orchestrale predisponendo un cast di voci variamente non pervenute nella sala, lasciando allo spettatore il compito di ricordare e ricantarsi con la memoria la parte, mentre sul palco i cantanti figuranti si muovono e accennano la linea vocale. Era già accaduto col Don Carlos, e di nuovo la stessa situazione si è ripresentata con questo Boccanegra, fidando nel fatto che il pubblico scaligero ha visto e stravisto quest’opera, per cui anche quella parte del pubblico che si astiene da esperienze discografiche domestiche, può immaginare, seduto in poltrona, ciò che dovrebbe sentire.

Poiché l’attività immaginativa impone grande attenzione allo spettatore, magari anche quella di rileggere le parole sullo schermetto della poltrona davanti ( tanto in scena c’è l’obbrobrio di Trezzi!), credo che sia ora di corrispondere, in forma di sconto sul biglietto, una sorta di cachet allo spettatore per il duro lavoro cui è sottoposto per tutta la sera.

Fare andare a tempo la memoria con il maestro Chung non è difficile: il suo gesto è bello, armonioso e chiaro, l’esito coinvolgente e ricco di suggestioni. Con lui il Boccanegra è un poema sinfonico a tutti gli effetti, forse poco drammatico o poco verdiano, ma alimentato sempre da una grande tensione poetica. E’ piacevole abbandonarsi alla musica quando se ne coglie il respiro, la cantabilità delle frasi. Sarebbe ancor più piacevole, però, che qualcuno sul palco assolvesse il proprio compito di cantante verdiano anziché forzarci ad immaginare quel che dovremmo sentire. Al concertato del palazzo degli Abati vi è stata l’apoteosi della serata, nessuno che avesse un po’ di benzina e “tirasse” avanti l’ensemble, salvo il coro ovviamente: un vuoto di sound tale che spontaneamente veniva da cantare per dargli una mano!

Quando in scena ci sono Leo Nucci e Krassimira Stoyanova, lo spettatore deve prontamente attivare la propria memoria perchè si sovrapponga a loro, dato che le voci dell’uno e dell’altra sono troppo spesso poco udibili. Il baritono non può supplire con tutta la sua decotta mimica facciale e scenica alla mancanza di voce. ( quell’ingresso a passettini ricurvo in avanti che pareva Rigoletto….lo stare seduto ad occhi sbarrati con la bocca aperta nel duetto con Amelia….un repertorio infinito di “caccole” inutili quando il canto non c’è..). Qualche frase forte, sempre quelle che vanno all’acuto che spinge e “porta” smaccatamente, sono il contraltare di gran parte dello spartito gestito a sussurri, semiparlati, bisbigli, frasi mozze e mezzucci di ogni sorta. Nemmeno più la forza di un tempo di vociferare il “Plebe patrizi popolo” che francamente, dal mio posto nelle prime file di platea, non ho quasi sentito fino a “E vo gridando pace…”.

La signora, poi, ha meno volume della Devia ma sta in Scala come moderna voce drammatica verdiana del nostro teatro ( presto ci pigolerà pure l’Aida ) senza che nessuno le dica nulla. Non riesce più a salire se non con suonini flautati e periclitanti, il fiato cortissimo ( la cavatina è stata staccata da Chung alla velocità della luce ma ciò nonostante i fiati sono il doppio di quelli solitamente presi..), accento sempre dolce, ma mai un barlume di forza o di accento verdiano. Quando deve svettare come nel concertato o nel finale dobbiamo andare di memoria perché non arriva suono. E’ una bella e precisa musicista, non ho dubbi, carina da vedersi, ma canta un repertorio che non era suo nemmeno quando era nella pienezza dei mezzi, ed oggi la voce non c’è più. Entrambi questi signori ci hanno francamente fatti sentire presi in giro. Pensano che in sala nessuno si accorga della loro inadeguatezza?

Terzo del gruppo è Fabio Sartori, che ogni tanto una frase la esegue con la voce sonora e avanti, ma quasi sempre canta indietro e di fibra, tutto piatto, salvo un paio di smorzature nella scena con Amelia al terzo atto. Se gli altri boccheggiano, lui canta in modo monotono, senza accento e senza creare un personaggio né vocale né scenico. Quarto era Dmitri Belosselsky, solita imitazione di poca voce di Nicolai Ghiaurov, gutturale e ingolatissimo sotto, tubato sopra e con i gravi estremi di Fiesco tutti da immaginare pure quelli. Anche lui è affondato nella palude del nulla che era il palco ieri sera. Completa il quadro delle voci immaginarie Dalibor Jenis, che ha dato segno di vita in qualche frase isolata ma che per lo più è appena udibile.

Siamo talmente al non essere vocale che alle singole è stata fatta uscire con i solisti una corista impegnata in una inutile controscena muta prevista da Tiezzi all’aria di Amelia: non ha cantato una sola battuta da sola, perché non ne esistono nello spartito, ma è uscita coi solisti agli applausi, pochi, forse perché si intonava al cast. A metà della prima singola al sipario la platea era già quasi tutta ai cappotti: quattro clap, soprattutto a Chung e a Nucci, sono stati il bottino di una serata con circa 500 posti invenduti e il premier Gentiloni in palco reale.

Tutti a casa attaccati allo stereo a sentire quello che ci siamo immaginati in teatro.

13 pensieri su “Simone Boccanegra alla Scala. L’opera immaginaria di Pereira

  1. Giulia Grisi, non devo certo insegnarle io che i posti in platea nelle prime file sono i piu’ ingrati quanto a balance orchestra/cantanti. Sono per quelli che hanno tanti soldi, vogliono VEDERE lo spettacolo e di musica capiscono poco. Puo’ darsi che lei abbia ragione comunque sui cantanti, ma non mi sembra un onesto punto di osservazione.

    • Beh ormai gli invenduti a doppio zero ormai alla Scala sono la regola…anzi più si avvicina il giorno della recita più se ne trovano….mistero insondabile….e comunque ad otto annii dall’andata in scena (aprile 2010 se non erro) quante volte é stato riproposto sto Simone? Quattro? Cinque? Fossero anche dieci se fatto bene sarebbe un piacere……purtroppo gli interpreti sono stati sempre gli stessi…e non aggiungo nulla a quanto già detto e ridetto….girala e rigirala..frittata sempre resta…

  2. 500 posti invenduti per il Boccanegra è un dato allarmante e che va aldilà delle valutazioni sullo spettacolo (brutto da vedere, nato male e gestito, oggi, all’insegna del più bieco personalismo). Tutti questi posti vuoti per un’opera di repertorio e, oltretutto, di Verdi (così come i vuoti per qualsiasi altro titolo non rientrante nel canone strapopolare e dal giro turistico) racconta la perdita di rapporto tra un teatro e il suo pubblico, e parla di incapacità della maggior parte di questo pubblico di andare oltre l’opera da hit parade. E’ un fenomeno molto radicato in Italia (che soffre più di altri paesi questa disaffezione nei confronti della musica colta e dell’opera) e che discende dal sempre più scarso livello di conoscenze del pubblico. Le ragioni sono molteplici: programmi scolastici che non dedicano alla musica nemmeno una manciata di minuti (salvo il piffero suonato alle Medie); mezzi di informazione che parlano pochissimo di musica e se lo fanno ne colgono solo il lato folkloristico abbondando di strafalcioni e pacchiana ignoranza (mai un addetto ai lavori parla di musica sui giornali); una TV che si occupa solo di rimbambirci e che ha un concetto “sanremese” dell’opera lirica… Tutto questo si traduce nello scadimento attuale e in un teatro che fa cassa solo con i turisti che passano per Milano e vogliono andare Scala allo stesso modo del piatto di spaghetti, del cappuccino o del tacco girato sulle palle del toro in Galleria. I 500 posti assenti non sono figli della protesta di un pubblico che non gradisce, perché il pubblico di oggi non ha gli strumenti intellettuali e le necessarie conoscenze di base per non gradire. Al pubblico di oggi non interessa chi canta, chi dirige o come…importa solo esserci col minimo sforzo intellettuale e la massima resa di italianità da cartolina o di “like” su Facebook. I 500 posti vuoti sono quelli che andranno ad applaudire un’Aida o una Traviata altrettanto scadenti, ma più glamour o più social.

    • Ieri ero alla Staatsoper Stuttgart per il Parsifal. Il teatro era pieno, con una grande percentuale di giovani che si facevano i selfies nel foyer, come è giusto che sia alla loro età, ma hanno seguito quattro ore abbondanti di musica non facile con assoluta concentrazione

  3. 4
    “O dolcezze perdute! O memorie.”

    Ci resta da onorare solo il maestro Chung.
    Non è poco, ma cos’altro si può fare?
    Ditemi.
    Per fortuna oggi, possiamo ascoltare a casa o in auto ciò che fù…il Simone.

  4. vista l ultima recita ‘scala aperta’
    Lo spettacolo non era poi così terribile
    L ho trovato bello visavamente coerente
    fatto salvo il finale col coro in abiti fine ottocento
    forse un passaggio di consegne fra il vecchio ed
    il nuovo?!
    terribile Nucci …ormai usurato, lo salva
    la tecnica e la routine di un opera che ormai
    stra conosce ..ed un certo ossequio che impone
    la sua carriera … malgrado la ‘fornero’ prevederebbe
    il diritto maturato non si capisce perchè si ostini
    e soprattutto tenendo conto del numero di recite sostenute!

    …messo in conto
    un soprano senza ne infamia nè lode con grandi
    difficolta nel registro acuto dove per prendere le
    note esaurisce i fiati con l effetto palloncino
    .. convincente il tenore
    Fabio Sartori l unico che ha strappato un applauso
    a scena aperta
    e il basso Beloselsky
    bella e lunare anche se un poco lenta la direzione di
    Chung forse qualche sbavatura nei fiati
    Una apprezzable produzione per un teatro di provincia

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