Orphée et Eurydice alla Scala

Frederic_Leighton-Orfeo_ed_Euridice-1864E finalmente il capolavoro di Gluck è arrivato alla Scala anche nella sua revisione francese. Personalmente trovo più affascinante la più compatta e composta versione viennese del 1762, ma con questo spettacolo si colma una lacuna vistosa nella cronologia del teatro milanese che mai ha proposto l’Orphée et Eurydice rivisto per il pubblico parigino nel 1774. Purtroppo – calmati i pur riformati “bollori” per la scelta del titolo – la serata mi ha personalmente regalato 2 ore circa di noia assoluta: sia per ciò che si sentiva e sia per quel che si vedeva sulla scena. Inizierei da quest’ultimo aspetto: in realtà più che di messinscena sarebbe più corretto parlare di esecuzione semiscenica in quanto il palco era praticamente vuoto, occupato solo da una pedana mobile su cui stava l’orchestra di spalle ai cantanti (problema di cui dirò in seguito) e alcune lanterne a terra. Cantanti e coro erano in abiti ordinari e nessun altro elemento che evocasse in qualche modo uno spazio narrativo veniva offerto allo spettatore. C’erano però i balletti, poiché nella riforma gluckiano l’elemento coreografico si doveva unire a musica e parola in un’unica forma artistica: un’opera d’arte totale (per usare una più tarda espressione) che doveva riportare l’opera ad una sua dimensione più pura e classica, liberata dagli eccessi ornamentali che ne avevano travisato idealità e verità. Tuttavia le coreografie delle danze – che portavano la stessa firma della regia – a tutto facevano pensare salvo che ad una classica idea canoviana di bellezza: talvolta i bravissimi ballerini (importati, come il resto dello spettacolo, da Londra) si dimenavano senza apparente ragione sfiorando il comico involontario, come nella danza delle Furie che richiamava il celeberrimo videoclip di Michael Jackson “Killer” con gli zombie che ballavano insieme alla popstar. Per il resto le uniche “trovate” registiche possono ridursi alla pedana mobile su cui stava l’orchestra (molto arretrata nel palco causando una serie di problemi di acustica e la necessità di piazzare due grossi schermi nella buca lasciata vuota così che cantanti e coro vedessero gli attacchi del direttore alle loro spalle) e al movimento di alcune torce elettriche impugnate dai coristi. Per il resto, a parte le danze movimentate, il tutto era piuttosto statico. Un concerto con qualche effetto di luce e con gli interpreti lasciati alla propria gestualità. Coerente alla noia della messinscena mi è parsa la realizzazione musicale. Premesso che ogni volta si nomini Michele Mariotti c’è chi parla di interpretazioni mirabolanti, inaudite e di livello tale da rendere insufficiente l’uso più spregiudicato dei superlativi che la nostra lingua possa mai permettere, devo dire che non ho mai riscontrato – nei fatti e nell’ascolto dal vivo – la medesima sensazione. Ciò che ho sentito sabato mi è parsa tutto fuorché una delle sacre beatitudini che invece mi sarei aspettato dopo la lettura di certe cronache! Una direzione ordinata e ordinaria direi. Senza infamia e senza gloria. Senza alti e bassi. Noiosissima insomma! Non si percepiva alcuna differenza di suono nelle diverse scene così che il carattere dolente del primo atto, quello più teso e drammatico delle scene dell’Ade o la pace dei Campi Elisi erano più da intuire nelle geniali sfumature della musica di Gluck che nella sua esecuzione. Vi era poi il fastidioso problema degli spazi: il palco profondo e largo della Scala comporta una certa dispersione del suono così che l’orchestra – molto arretrata, come ho scritto – sembrava spesso un sottofondo. Non ho compreso poi l’assenza del cembalo come continuo (lo usa persino Neumann nel ’66) che avrebbe dato un corpo ed un sostegno maggiore all’orchestra e che, soprattutto oggi, sarebbe stato filologicamente molto apprezzabile. Vi erano però tromboni e cornetti naturali (che infatti mal si adattavano al resto dell’orchestra: tradizionalissima e, direi pure antiquata nel porgere il suono). L’accompagnamento – già grigio e monocorde – diveniva ancor più diafano quando cantava Orfeo accentuando l’atmosfera sospesa di noia e di apatia. I mezzi vocali di Florez non erano al meglio la sera dello spettacolo: la voce è educata e musicalissnma, ma ormai ha perso gradualmente corpo e facilità nel girare gli acuti. Ad essere sincero – e non me ne vogliano i fans del cantante – credo che il suo repertorio ideale resti quello di mezzo carattere, l’opera buffa, la commedia musicale: ma non per un problema di estensione (Orfeo, nella sua veste francese, è un haute-contre e pertanto ben gli calzerebbe la tessitura), quanto per l’assenza di accento tragico che, volenti o nolenti, è cifra della Riforma di Gluck. Così nella grande aria del terzo atto e nel più appariscente finale primo, se pure l’esecuzione è parsa corretta, la sensazione era la solita: Lindoro che canta Orfeo ed Euridice. Ciò tuttavia non ha impedito al pubblico eterogeneo della Scala di acclamarlo come fosse Gedda o Simoneau. Applausi per le altre due interpreti (che comunque hanno ruoli marginali) ed al termine diverse contestazioni – meritate se non altro per il parossismo acritico con cui è sempre accolta ogni sua interpretazione – per Mariotti.

Una chiosa sugli ascolti. In altre occasioni abbiamo avuto modo di riflettere sulle voci richieste dal titolo gluckiano. Questa volta, ci siamo concentrati sui ballabili, che nella versione francese (regolarmente eseguita, in epoca pre filologica, in traduzione italiana) hanno un ruolo determinante. E’ chiaro che ogni direttore esegue, concerta e (se ne è capace) interpreta a partire dalle proprie capacità, cultura ed esperienze, magari anche idiosincrasie. E’ quindi palese che un carneade come il maestro Pedrotti (responsabile di un’edizione passata alla storia in primo luogo per l’insuperato fulgore vocale della sua protagonista) non possieda gli stessi atout di uno specialista del repertorio settecentesco come Krips, ma entrambi hanno ben chiaro come la danza delle Furie e la scena dei Campi Elisi non possano evocare le medesime sonorità smunte e slavate, quelle che Michele Mariotti ha proposto e che una parte (sicuramente minoritaria) del pubblico ha prontamente censurato. Peraltro sono le medesime sonorità (appena ripulite da eccessi bandistici, propiziati dalla scrittura verdiana) che lo stesso direttore aveva ammannito nei Due Foscari, altra produzione che eufemisticamente potremmo definire poco riuscita. Offriamo poi l’elaborata sequenza coreutica conclusiva nella realizzazione di John Eliot Gardiner, proposta un paio di stagioni fa a Londra. Allestimento e protagonista erano i medesimi della Scala, e presentavano quindi i medesimi limiti, eppure il divertissement non risulta pleonastico, noioso e nessuno può dubitare della qualità dell’invenzione musicale (l’altra sera, a Milano, qualcuno avanzava dubbi in proposito, e del resto gli applausi che sono “scattati” attorno alla metà scarsa della suite di danze sapevano tanto di “bravi, ora basta, andiamocene a casa”). Ricordiamo che, un paio di stagioni fa, Gardiner era stato frettolosamente annunciato, e altrettanto velocemente “ritrattato”, quale direttore di una sciagurata edizione scaligera dell’Otello rossiniano. Meglio avrebbe fatto il teatro a cercare il direttore inglese (posto che siano mai stati avviati contatti in questo senso) per questo Orphée, la cui première ambrosiana avrebbe meritato (se non altro) una salda e rodata bacchetta.

Gli ascolti:

Gluck – Orfeo ed Euridice

Atto II

Danza delle Furie

Orchestra della RAI di Milano, dir. Antonio Pedrotti (1956)

Orchestra dell’Opera di San Francisco, dir. Josef Krips (1968)

Danza degli Spiriti beati

Orchestra della RAI di Milano, dir. Antonio Pedrotti (1956)

Orchestra dell’Opera di San Francisco, dir. Josef Krips (1968)

Atto III

Ciaccona

I Virtuosi di Roma, dir. Renato Fasano (1965)

Divertissement

The English Baroque Soloists, The Monteverdi Choir, dir. John Eliot Gardiner (2015)

10 pensieri su “Orphée et Eurydice alla Scala

  1. Una domanda. Qui (http://www.operaclick.com/recensioni/teatrale/milano-teatro-alla-scala-orph%C3%A9e-et-eurydice) io leggo che “il direttore Michele Mariotti concerta appunto con slancio e passione dirigendo l’orchestra posizionata nel bel mezzo del palcoscenico, come ai tempi di Gluck”. Ma io sapevo che ai tempi di Gluck e Mozart l’orchestra si trovava in un suo recinto alla stessa altezza della platea, di fronte al palcoscenico (la buca come la si intende oggi è cosa ottocentesca ed arriva con Wagner) e non nel bel mezzo di esso. Se così non fosse stato, come avrebbero fatto Bibbiena e Galliari a concepire le loro scenografie, senza tener conto di siffatto elemento? O sono io che mi sbaglio?

  2. Ho presenziato alla rappresentazione del 28 febbraio. A me son piaciuti sia l’opera, sia la regia, sia Florez. La direzione mi era sembrata meglio quella di Muti, ma son passati ormai diversi anni.
    E’ uno spettacolo che mi sento di consigliare; almeno per una sera, sono tornato ad uscire dalla Scala credendo di aver assistito ad un qualcosa di decente.

  3. ..recita del 14/3
    che dire: lo spettacolo è inesistente sembra un opera in forma semiscenica ovviamente nulla a che fare col libretto..anzi finale stravolto… miseria di idee registiche
    praticamente solo balletti sempre, comunque e ovunque… ovviamente coreografie di ‘rottura’
    mix tra il classico e l hip hop… luci molto belle ma tutto
    già stra visto… piacevole per 15 minuti ma per due ore!?
    sali e scendi dell orchestra collocata sul palco con conseguente proiezione del suono ovunque tranne dove dovrebbe andare …verso il pubblico sic!
    il senso di infilare l orchestra sul palco la solita str…a
    filologica de noi antri..
    ‘piacevole sottofondo musicale’ come ben detto nell articolo.
    Mariotti meno peggio del solito l accopiata con Florez rende accettabile l esecuzione con i limiti che l età ‘regala’ al belcantista… condivido l articolo …abbastanza noioso il tutto …
    mentre ascoltavo pensavo al Gluck di Muti, Pizzi Armide credo 91/92 in Scala
    un altro mondo …altre idee..

    Marco

    • sono d’accordo. Spettacolo brutto da vedere, noioso da sentire etc….Ti offro, però, uno spunto di riflessione ovvero non è che ci siamo abituati al Gluck di Pizzi e pensiamo che quello sia Gluck. Poi penso alla Ifigenia di Cobelli, che nonostante gli interventi registici di donna Carla Toscanini de noi artri era bella ed evocativa…
      dd

Lascia un commento