Don Pasquale alla Scala: Donzelli ed il guardiano

La recita di don Pasquale di mercoledi 11 è iniziata non con la splendida ouverture, ma con l’apparizione tipo il Tonio dei Pagliacci di Pereira, che cerca sempre la captatio benevolentiae dei presenti. E dopo aver fatto lo spiritoso, dicendo che non c’erano malanni e malattie da annunciare, ha raccontato di essere di ritorno da Londra dove i più accreditati critici musicali hanno proclamato l’orchestra scaligera come la migliore del mondo. Alla fine persino urla di entusiasmo e l’alzata di voce per implementare l’enfasi del gioioso annuncio con un cono di luce da balera romagnola.
Poi l’ouverture ed abbiamo avuto la certezza che del proclamato premio si dovesse dubitare. Un suono pesante, greve ed ovattato, andamento assolutamente metronomico, nessun languore, che con la malinconia del protagonista e la malizia della primadonna, sono la cifra di Don Pasquale. Nei momenti di concitazione suoni pesanti e clangori di troppo. E’ chiaro, al di là della realizzazione, il modello sia una sinfonia alla Toscanini. Allora serviamo il Toscanini 1943, ovvero quello ultima maniera e scopriamo che si può essere poco inclini al languore, ricercatori della perfezione di attacchi e rapporti fra le sezioni, ma le caratteristiche del don Pasquale, compreso quell’essere l’ultima opera comica italiana (visione molto limitata, ma plausibile) sono restituite all’ascoltatore.
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Arturo Toscanini Ouverture
Oggi il vero protagonista è il regista che sin dall’ouverture ci propina le sue -discutibili- idee. E il vecchio celibatario, tagliato all’antica (leggi romano del generone) diviene una sorta di Woody Allen con problemi mai risolti con mamma, di cui si richiamano durante l’esecuzione della sinfonia, le esequie ed il comportamento asfissiante e castrante nei confronti del povero Pasquale. Peccato che la cultura dei nostri registi sia quella dei rotocalchi, consumati nei negozi di parrucchiera e barbieria, e quindi il demiurgo regista esibisca un sacerdote, che, privo di cotta e stola impartisce la benedizione alla salma di mammà e a latere del catafalco compaia un tavolino con registro delle firme, usanza questa quasi esclusivamente milanese e lombarda, preferito nel resto d’Italia un tavolino dove i presenti la mesta cerimonia lasciano il biglietto da visita. Almeno così era negli anni ‘50 epoca in cui l’azione viene trasposta. Per il signor Livermore non è una novità perché, per quanto ricordiamo, è l’epoca che presume di meglio conoscere e vi ambienta, richiamando la stagione gloriosa, (quella sì) di Cinecittà e delle produzioni felliniane sopratutto. Solo che Fellini, magari un po’ di Antonioni e quel cinema non hanno la paradigmatica oggettività di poter accogliere ogni vicenda e particolarmente quella di Don Pasquale dove Donizetti (romano per ragioni matrimoniali) celebra la città, i suoi abitanti, le sue case, i suoi giardini. Se proprio, in carenza di idee sulla Roma diversa da quella prevista da Donizetti, forse bastava dare una ripassata al marchese del Grillo o all’Eredità Ferramonti.
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Antonio Scotti “Bella siccome un angelo”
Poi arrivano il protagonista ed il ruffiano Malatesta. E per fare l’imbonitore o il sensale di matrimoni occorre la fluidità e la rotondità di emissione che sfoggiava Antonio Scotti, cantante di voce non straordinaria,ma di grandissima tecnica. Con un tempo piuttosto veloce (come quello imposto da Chailly) Scotti esprime tutto quello che è Malatesta, ossia un gran signore che si diverte. Olivieri si difende bene, ma complice una recitazione da venditore di pentole e non da gran signore non fa centro. Siccome la prima scena ha una strana struttura ovvero il cantabile a Malatesta (Antonio Tamburini alla prima) e la stretta, in stile sillabato tipico del buffo parlante, a don Pasquale. E qui altro vuoto della serata perché la voce di Ambrogio Maestri, baritono di limitata tecnica, sempre, e anni or sono di cospicui mezzi, sfoggia una voce con il buco al centro e coperta sempre dall’orchestra. Orchestra certamente pesante, ma non rumorosa in sé e per sé. Ora don Pasquale venne scritto per Luigi Lablache che era un vero basso, ormai in declino, ma che conservava un centro ampio e sonoro. Spesso in tempi a noi vicini un baritono come Sesto Bruscantini e prima di lui Giuseppe Taddei (Malatesta eloquentissimo) hanno vestito i panni del povero gabbato, ma il primo vantava tecnica scaltrita, maestria insuperabile nei sillabati e senso assoluto del dire, il secondo un centro ampio e sonoro.
Entra il nipote. Il signor Barbera canta come cantano oggi i tenori (esclusi un paio, naturalmente banditi o ignoti alla Scala) con la voce mal messa, dura, afonoide per lo sforzo e la fatica di spingere il suono. Non pretendo i famosi tre “è vero” uno diverso dall’altro che Schipa e Kraus documentano e che erano un must dei grandi protagonisti (forse derivata dal medesimo Mario), ma un fraseggio che non sia la funesta combinazione di scarsa tecnica e fraseggio piatto. Tutti conosciamo come Anselmi, Bonci, Sobinov, Schipa, Valletti, cesellassero la parte a principiare dall’entrata. Eppure anche un cantante, che dotatissimo vocalmente per tutta la carriera privilegiò il canto e lo sfoggio del proprio sontuoso mezzo, come Gianni Raimondi nelle vesti di Ernesto esibiva un suono alto di posizione, dolce, penetrante e facile anche nella astrale tessitura di Ernesto.
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Gianni Raimondi “sogno soave e casto”
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Dino Borgioli “sogno soave e casto”
Con l’entrata di Norina, ruolo che è la descrizione delle peculiarità vocali della Grisi all’apice della carriera, si capisce che il primo intento dell’opera di Donizetti nel teatro che era il tempio dell’opera italiana all’estero, era celebrare e mettere alla berlina questa forma d’arte ed i suoi stilemi. Eppure per dimostrare l’inadeguatezza della prescelta Rosa Feola, corta in alto,incapace di eseguire un trillo (che era pane quotidiano per una assoluta virtuosa come Giulietta de Candia), impacciata nella scansione, non serve scomodare insigni fantasmi come la Galli-Curci, la Ivogun, basta Marta Taddei, che si presentò eseguendo la cavatina di Norina al concorso Callas del 1980, sfoggiando piglio, slancio e mordente e facendosi perdonare qualche tensione in zona acuta. Quando Norina e Malatesta cominciano ad ordine le trame ai danni del povero don Pasquale, il personaggio più simpatico della storia, la messa in scena si lascia andare a molti lazzi e frizzi inutili come la sfilata. Trattandosi di richiami alla romanità si potrebbero richiamare la sfilata degli abiti religiosi in Roma di Fellini, la sfilata da piccola sartoria di “Ladro lui, ladra lei” con la disputa sulla lana mortaccina o la gag di Franca Valeri sulla sarta romana, ma lo spirito della prese in giro delle proprie o altrui opere serie latita. Oltre tutto Norina è chiamata a salire al do5 in volata un paio di volte e le volate ed il do5 non sono proprio esemplari nell’organizzazione della Feola, oltre tutto un po’ rigida negli abiti di una Ninì Pampam (al secolo Silvana Pampanini). Quale commento vocale conclusivo proporrò la sezione conclusiva del duetto eseguita da Marcella Sembrich ed Antonio Scotti spiegandone la storicità, ma per languore, finezza del dire (ad onta della provenienza austroungarica) precisione nella scansione e del canto acrobatico Lotte Schone e Willi Dormongraf-Fassbander esemplificano la situazione scenica e drammatica di questa raffinata presa in giro.
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Rosa Feola “Quel guardo il cavaliere”
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Marta Taddei “Quel guardo il cavaliere”
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Lotte Schone Willi Domgraf-Fassbänder “Pronta sono”
L’inizio del secondo atto, quello in cui si consuma la beffa e dove spesso la prima beffa per il direttore sono le stonature della tromba, presenta la grande scena di Ernesto dove tutti i più grandi tenori hanno lasciato il segno. E lasciare il segno non è cantare a metronomo, con suoni ingolati e strozzarsi sul re nat, non previsto in spartito, della cabaletta; è invece essere dolci, malinconici, sfumati, legare i suoni ad alta quota, sfoggiare una infinita dinamica. A scelta degli ascoltatori il metro di paragone,che non è il rimpianto del passato, ma lo strumento per ricollocare il personaggio nella sua giusta inquadratura vocale ed interpretativa.
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Alfredo Kraus “cercherò lontana terra”
Arriva il lunghissimo finale dove ci vogliono due ingredienti: bacchetta e soprano. Se manca il soprano la bacchetta non può fare miracoli perché Norina viene chiamata (serviva a ricordare la grandezza di Giulia Grisi) a cantare di slancio e di grazia e il direttore non può sostituirsi al soprano, tanto meno può sostituirsi quando Sofronia si svela Norina e il soprano deve sfoggiare l’accento della megera, ovvero Giulia Grisi ritorna ad essere Lucrezia o Semiramide.
Anche qui la sicurezza tecnica di una Scotto prima maniera ed il suo accento sempre consono alla situazione scenica sono il criterio da avere chiaro per capire se e quando la Norina proposta sia o meno una professionista e poi una interprete credibile ed adeguata.
Aggiungo che l’altra sera alla Scala, in assenza dei cantanti, spesso inadeguati sotto il profilo del volume (e quindi di scansione e di accento non è neppure il caso di parlare) il clangore e la meccanicità, che è quel che resta a chi sta in buca rende il lungo finale insopportabile. Tutto quello che si è sempre detto sul don Pasquale, la vena malinconica, l’ironia, il ludus spariscono nella meccanicità e nell’eccesso di decibel.
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Don Pasquale Roma 1965 Tadeo, Taddei Kraus,Scotto
Uscendo per andare a cercare almeno del nutrimento materiale non possiamo fare a meno di fare un commento sullo spettacolo, che non abbiamo applaudito. Il commento viene a sua volta commentato da una vestale del cantone di Zurigo e rispedito alla commentatrice.
E che accade?
Accade che la nostra nell’idioma comune a lei ed al sciur Pereira informa per certi quest’ultimp il quale passa l’ultimo atto alle costole di Domenico Donzelli, che per digerire opera e pizza passeggia per il loggione e lui dietro. A questo punto davanti ad un terzo atto povero e misero pare giusto continuare nella passeggiata per il loggione. Aiuto a digerire il sovrintendente. Tre sere di questo don Pasquale sono peggio di trippa e casseoula nel medesimo pasto.
Il terzo atto non può che evidenziare i difetti dei precedenti, aggravati dalla fatica di reggere la parte evidente sopratutto nella protagonista femminile. Alla famosa scena dello schiaffo il repentino passaggio dal tono viperino della scaramuccia con don Pasquale a quello triste, perché sa di aver passato la misura del “la lezione è un po’ duretta” richiedono doti di accento e di controllo del fiato da solida professionista. Una Beverly Sills arrivata la capolinea dimostra come anche in condizioni non più ottimali si possa realizzare la situazione scenica ed anche Luciana Serra dotata di un timbro dolce al centro, pur nel genere soprano leggero, insegnano che cosa il pubblico abbia il diritto di sentire e che qualità servano per essere interpreti del capolavoro donizettiano.
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Don Pasquale – Gramm, Sills, Kraus, Titus – dir. Sarah Caldwell
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Don Pasquale : Alfredo Kraus Luciana Serra Sesto Bruscantini
Il coro dei servitori canta bene, ma il languore, quella tristezza mista di ironia tutta lombarda, che qui trova una delle sue massime espressioni richiedono una morbidezza ed un tempo indugiante che sono mancati.
Il duetto Malatesta-don Pasquale, ultimo di una lunga serie di duetti buffi fra voci gravi, che nasce con le figure di Geronimo e Robinson nel Matrimonio segreto, è appesantito e tarato dalla voce vuota al centro ed incapace di un corretto sillabato di Ambrogio Maestri. Un famoso disco dell’età della pietra di De Luca e Corradetti è l’esecuzione rispettosa del genere e del carattere dei personaggi nonostante la presa del suono e l’accompagnamento del pianoforte.
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Ferruccio Corradetti Giuseppe de Luca “cheti cheti immantinente”
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Alfredo Kraus “com’è gentile” dal film Gayarre
Quando poi arriva il quadro finale nel giardino di don Pasquale abbiamo visivamente lo sfondone della serata per quel che riguarda l’allestimento perché Norina, secondo i dettami dell’opera comica, fa entrare il falso amante nel giardino e non va, vestita come una delle figuranti di “Risate di gioia”, a rimorchiare dove ci sono le battone. Oltre tutto avvenenti e carine e ciò contro la realtà storica; negli anni cinquanta la legge Merlin non aveva ancora chiuso i postriboli e per le strade si trovano solo catorci e vecchie baldracche. Togli la poesia dell’incontro notturno nel primo caldo della città, sfoggia un tenore che rantola più che cantare accompagnato a metronomo e della serenata non resta nulla e meno ancora del duetto seguente che richiama gli andanti di tutti gli amorosi dell’opera ottocentesca e partire da Arturo ed Elvira. Anche qui una registrazione difficile dell’età della pietra e per certo fortunosa ci insegna che il suono in maschera, morbido da la capacità di mille, impercettibili sfumature, che -perdono per l’ennesima ripetizione- sono l’unico mezzo per rendere la situazione scenica.
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Gianni Raimondi “com’è gentile”
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Aristodemo Giorgini “com’è gentile”
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Regina Pinkert Alessandro Bonci “tornami a dir che m’ami”
Con buona pace del mio silenzioso, ma non invisibile guardiano, l’opera si fa con i cantanti e non con le chiacchiere, il pubblico lo si può anche lusingare, ma per ogni lusinga e piaggeria si perde un piccolo tratto di quella grandiosa monumentale tradizione che è l’opera, che non è un museo, ma che è cultura ovvero l’opposto del commercio e della mercanzia. Inoltre siccome Domenico Donzelli vanta quasi cinquant’anni di Scala e di loggione ed ha conosciuto e parlato con veri intenditori che avevano visto la prima della Francesca da Rimini, sa perfettamente che i guardiani non hanno come el pret de Ratanà o padre Pio la grazia della bilocazione ed infatti alla fine la mediocre prestazione di Rosa Feola è stata buata non solo dall’inseguito.
A commento che l’opera non è lusinga o piaggeria, ma cultura e storia quale ultimo ascolto ho voluto mettere la stretta del duetto Malatesta Norina eseguita da Scotti e dalla Sembrich. Erano i monopolisti delle parti al Met almeno dal 1899, questa esecuzione è successiva alla prima di solo sessant’anni fra la Sembrich e la Grisi vi è di mezzo solo Adelina Patti e fra Tamburini e don Antonio Scotti solo Antonio Cotogni. Morale non sarà l’esecuzione dei primi leggendari interpreti, forse qualche altra di uguale, alto livello vi è stata, ma è la memoria più tangibile e credibile di una stagione grandiosa della cultura italiana all’estero, mica quella attuale delle mostre di massa.
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Marcella Sembrich Antonio Scotti “Vado corro”

17 pensieri su “Don Pasquale alla Scala: Donzelli ed il guardiano

    • Era evidentemente una battuta ironica…è ovvio che tutte la Scala non sia la migliore orchestra d’opera del mondo (nonostante i premi ricevuti, ma mi piacerebbe conoscere i criteri di aggiudicazione). Ma la colpa non è certo esclusivamente degli orchestrali: con Serafin, De Sabato, Abbado e Muti suonava in ben altro modo…ora è lasciata a sé stessa da 15 anni e i risultati sono imbarazzanti. Quando però è diretta da Pappano, Salonen, Ticciati, Harding…è ben altra cosa.

      • No in realtà ho letto su Google che le é stato assegnato questo riconoscimento agli “oscar” dell’opera però non son voluto entrare nei dettagli ho letto il titolo di sfuggita però effettivamente é stata valutata come la migliore del mondo. In ogni caso DD é stato chiarissimo nel suo articolo, la mia era più che altro una sorta di coda al commento.

    • Penso che persino Siragusa avrebbe fatto meglio. Ma la colpa del totale travisamento di questo capolavoro a mio avviso è da inputare al direttore. Come possibile che un direttore di fama internazionale oltretutto di una certa età non abbia capito ancora NULLA ma proprio NULLA della poetca donizettiana?…..

  1. ..PIù Che balera romagnola il ‘simpaticone ‘ ha usato toni che nel mezzogiorno si usa dire da ‘vaiassa’…
    certo che se il sovrintende della Scala si lascia andare
    a simile bivacco …magari annunciare con garbo e modestia (aggettivo ormai sconosciuto in Scala) la consegna di tale premio ..che mi dicono essere foraggiato dalla Decca… e magari se i professori
    orchestrali si fossere levati in piedi a ringraziare per
    l’istigato’ applauso conseguente a tale lieto annunzio!

    Avreste dovuto vederlo a fine serata furente e fumante in seconda galleria..pensava che i bhuuu riservati alla signora Feola fossere provenienti da li ma se avesse
    mantenuto la posizione dal palco di proscenio si sarebbe accorto che piovevano dai palchi di IV ordine… le gallerie erano ‘invase’ da turisti…

    Detto ciò lo spettacolo risultava comunque bello
    visivamete e drammaturgicamente..sensato
    Vero è che l ‘ overture eseguita a sipario aperto per
    raccontare del supposto funerale della madre del povero Maestri ce la si poteva risparmiare ma non
    ha inficiato più di tanto.. molto belli i costumi e luci.

    Analizzando poi la parte vocale ci si chiede: ma dove l hanno trovata? non un acuto non una variazione non parliamo di una benchè minima agilità piatta come una spiaggi dei lidi ferraresi!

    Il migliore è sembrato il Sig Olivieri e con i molti e abbondanti limiti anche il tenore che certo non poteva sfigurare di fronte ad un soprano che è anni luce
    dall affrontare simili ruoli … anche perchè non penso
    che tutti i tagli siano opera di Chailly…spero!

    Altro spettacolo abbastanza inutile …tolta la regia
    carina e i nuovi wiener scaligeri resta ben poco di
    un operazione lirica assai discutibile

    La quantità di applausi riservati alla serata in questione era sotto il minimo sindacale …e stiamo parlando di
    Don Pasquale e non di Billy Bud!

    Misteri scaligeri

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