Francesca da Rimini: delusioni per un ritorno

francesca-scalaProporre Francesca da Rimini, a distanza di quasi sessant’anni dalle rappresentazioni del 1959 può essere una buona idea. Poi le idee devono essere realizzate. E qui, come da molto tempo alla Scala, i nodi vengono al pettine e le idee si sfaldano perchè la realizzazione da bassa cucina svizzero-tedesca manca di quelle minimali nozioni culturali, indispensabili per allestire Francesca.
Proporre una Francesca da Rimini priva di tutta la sua parte simbolista e liberty dove la figura del librettista -il vate Gabriele D’Annunzio – è posta al centro della vicenda in un’ottica parziale, affidare l’allestimento ad uno specialista, in area elvetica (festival di Bregenz), di gratuita grandeur, che si ripresenta in sede orchestrale e scegliere una modesta cantante per nulla fascinosa nella persona e nel fraseggio, significa scentrare l’ obiettivo. Sarà la crescente ignoranza del pubblico che non va oltre quindici venti titoli, sarà lo scarso richiamo dei cantanti chiamati, ma le due file di palchi praticamente vuoti e la platea con molte poltrone libere e le tre chiamate finali per tutta la compagnia di canto (di cui il tenore Puente riprovato) sono eloquenti dell’insuccesso di questo allestimento.
Il fraintendimento della poetica di Francesca è comune al direttore ed ai responsabili dell’aspetto visivo. L’orchestra non suona male inteso come qualità del suono ed anche, in una partitura complessa, appare precisa e ben guidata. Questo non basta per realizzare il capolavoro di Zandonai perché il suono è pesante e fragoroso nei momento pubblici e di maggior tensione drammatica come la scena del torreggiano, inizio del terzo atto sia nell’incontro fra Malatestino e Francesca, sia più ancora nella delazione di Malatestino a Gianciotto (in assoluto la scena più difficile dell’opera per l’obbligo di equilibrio fra fraseggio sottile ed insinuante e tensione drammatica del momento) con sonorità che possono evocare un espressionismo assolutamente estraneo al maestro di Rovereto. All’opposto nei momenti di languida, raffinata sensualità come l’ingresso di Francesca al primo atto, (chiariamoci Francesca non si cava dalle scene, ma appare anzi viene evocata dalla musica), la scena della seduzione o in quelli di estenuato dolore e memoria come il primo quadro del quarto atto anche se il suono è di qualità è facile rilevare come lo stesso sia meccanico e primo di autentico abbandono e languore sensuale perché l’orchestra non ha capacità di flettersi e il direttore non suggerisce il fraseggio agli strumentisti. Non può essere una attenuante per una esecuzione limitata e piatta l’obiettiva difficoltà del titolo, il fatto di Zandonai faccia chiari omaggi a Wagner (ogni volta che compare Gianciotto sentiamo il tema di Hunding, allorchè Francesca, con l’aiuto di Smaragdi, una sorta di Brangania sulle rive del Marecchia, attende l’arrivo di Paolo sentiamo nel magma orchestrale, il tema dell’attesa di Isotta) e nel contempo da vero compositore europeo faccia sentire le atmosfere languide ed erotiche di area francese o di Strauss. Le esecuzioni di Sanzogno e di Guarnieri dimostrano che le difficoltà di Francesca sono un forte stimolo per la bacchetta a ricercare ed esaltare tutti gli aspetti della partitura. Per altro la lettura parziale e fonte di equivoci è ancora più evidente nell’aspetto visivo. Tralasciamo l’equivoco dello scarlatto, l’ambigua scelta di far uccidere ad opera di Ostasio da Polenta il povero giullare, ma la figura gigantesca e quasi neoclassica del mezzo busto femminile (degno contraltare del gigantesco Marat, ad esempio, predisposto per un Chenier en plein air a Bregenz, o della mani da cui scivolano carte da gioco della più recenteCarmen etc etc), i richiami alle imprese del librettista ed al fascismo hanno il solo nome di sfondoni, dettati da ignoranza ed impreparazione. Un qualsivoglia regista di provincia svizzera dimostra di ignorare che il cosiddetto superominismo dannunziano non si manifestava solo in imprese militari, ma anche nella raffinata sensualità, nella ricerca del sesso e del piacere al sesso connesso e legato, in questa Francesca totalmente assente.
Assolutamente in linea i cantanti. Affidare Francesca ad una cantante poco avvenente, renderla ulteriormente goffa con il solito cappottino, scarpa anni trenta con cinturino e bottone, obbligarla a movimenti da femme fatale, simulazione dell’amplesso compresa, può avere senso soltanto davanti a voci sontuose e splendenti. La voce di Maria José Siri è, invece, quella della cantante di scarsa tecnica (vedi i suoni chiocci e vuoti in prima ottava), precocemente declinata per un repertorio superiore alle qualità di interprete e di vocalista incapace di slanci atteso che gli acuti estremi son urla, incapace di colori e di fraseggio vario ed eloquente. La piccola antologia di ascolti proposti ed abbiamo tralasciato quello paradigmatico di Madga Olivero, dimostra che anche cantanti di voce importante, sontuosa e magari non più freschissime si sono sempre impegnate per essere salde nelle frasi impervie e varie e raffinate nei momenti in cui Francesca è donna, seduttrice ed innamorata.
Spesso la cantante è risultata stonata perché il peso orchestrale è tale da metterla a dura prova e per altro in quanto a stonature, piattezza di fraseggio le è stato degno compare il signor Puente, per il quale non vale la chiamata all’ultimo momento atteso che, implacabile il web documenta sue precedenti e appena di poco migliori prestazioni. La voce ingolfata nel tentativo di essere eroica (il modello di Paolo resta Mario del Monaco) appare di limitato volume tanto che il presunto e preteso secondo tenore (Ganci) nel ruolo di Malatestino suona assai più sonoro, squillante e penetrante. Di Gabriele Viviani nel ruolo di Gianciotto possono impressionare alcuni acuti, ma quando al secondo atto Gianciotto deve rivolgersi, con tono amoroso, a Madonna Francesca i suoni sono indietro e mal messi.
Tralascio le urla delle donne di Madonna Francesca o i suoni ingolati ed indietro della Schiava Smaragdi.

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12 pensieri su “Francesca da Rimini: delusioni per un ritorno

  1. Purtroppo il fenomeno dei posti vuoti é comune e sta diventando ingiusta sorte per molti teatri e la scala da tempio assoluto ha forse ormai perso la sua sacerdotessa che gli dia una guida. Mi chiedo lasciando da parte i discorsi contrattuali se sia giusto lasciare al posto un incompetente se questi sin dall’inizio non si riveli un buon professionista ma forse a giudicare gli intellettuali di turno siamo noi pubblico che non capiamo niente..

      • Già, infatti io da molto non vado in scala per questo perché la scena dei posti vuoti non riesco a digerirla anche perché io penso che per molti di noi a parte la storia illustre di questo luogo, é un posto che ha a che fare con la memoria personale di persone fatti e quindi in un certo senso diventa quasi un parente e assistere a un titolo importante per lo più a distanza di anni e vedere intere file vuote deve essere deprimente. Chiedo scusa per il commento sottotono ma queste sono le emozioni che a me suscitano certe scene.

  2. ..MI Meraviglio della vs meraviglia
    non sono capaci di mettere in ‘piedi’ uno spettacolo
    decente e pensate che siano in grado di vendere i biglietti??
    Fino a quindici anni fa era una ‘lotta’ entrare in Scala
    serviva il cash o il tempo per la ‘fila’…
    adesso non se lo fila nessuno sto teatro !
    e poi scusate ma i biglietti a 240 euro ???
    mica tutti guadagnano come Heidi !!

  3. sarebbe il caso di scrivere una lettera aperta al sovraintendente chiedendogli cosa ne pensa di questa Scala desolatamente vuota…..immagino che a molti faccia l’effetto di un ristorante semivuoto…”mica vorrai entrare li?? non ci va più nessuno”….

  4. Ho seguito le tre recite fatte finora: la prima ha avuto buon pubblico e un ottimo successo, con quasi venti minuti di applausi. Nella seconda accoglienze più tiepide e meno pubblico con l’aggiunta di pochi buatori – disposti però in modo stereofonico – che hanno molto disapprovato il tenore ( che comunque aveva fatto meglio della protagonista, uscita però indenne ). Tra i buatori del tenore Puente un tale che, con comicità credo involontaria, ha aggredito alcune incolpevoli e attonite maschere, concionando intorno alle agenzie ( immagino di cantanti ): le avrà scambiate per Pereira o avrà ritenuto indispensabile aggiornare anche loro della sua indubbiamente preziosa ( e fragorosa ) opinione. Comportamento un po’ da sobborgo, ma va bene anche così. La recita di ieri non era esaurita ma certamente non desolatamente vuota. Circa dieci minuti di applausi e nessun buu per il tenore, malgrado una vistosa incertezza nel primo atto. Dal mio punto di vista non li avrebbe meritati: non mi è sembrato così male. E’ mancata una protagonista dotata del necessario carisma e la regia – malgrado nel programma di sala Poutney dimostri di avere capito profondamente le ragioni di quest’opera meravigliosa – non ha colto nel segno, anche se realizzata con indubbia classe. Mi è parsa eccellente l’orchestra: Luisi non ha valorizzato alcuni aspetti più intensamente sensuali e decadenti della partitura, talvolta è caduta un po’ la tensione narrativa ( come nello splendido duetto tra Francesca e Samaritana dell’atto primo ) ma il livello è sempre stato buono con alcuni momenti di squisita suggestione, come nel grande duetto del terzo atto. Ho trovato eccellente il Gianciotto di Viviani ( già eccellente Gleby ( Siberia ) e Kyoto ( Iris ) a Montpellier: dunque un collaudato e ottimo frequentatore del repertorio “verista”. Sarebbe infine ingiusto dimenticare il maiuscolo Malatestino di Luciano Ganci, a mio avviso tra i migliori mai ascoltati in questo ruolo.

  5. Ho assitito alla rappresentazione odierna (13 maggio, l’ultima), dopo avere letto i commenti di cui sopra. Nel complesso, la rappresentazione non mi era dispiaciuta, pur avendo notato la scarsa avvenenza scenica della protagonista, i mezzi limitati del tenore, alcune ridicolaggini registiche – un surrogato della Grosse Berthe ed una batteria di cannoncini che appaiono durante la scena della battaglia, l’uccisione del giullare con un colpo di pistola, il biplano del volo su Vienna, le ancelle travestite da telefoniste sovietiche, tentativi di decostruire non tanto l’opera ma l’ispirazione dannunziana leggendovi un’anticipazione della Grande Guerra. Prima di scrivere questo commento ho guardato alcuni spezzoni di una rappresentazione recente avvenuta a Strasbourg sotto la direzione di Nicola Raab, protagonisti Soia Hernandez e Marcelo Puente. Tutt’altra cosa !

    • può anche essere, a prescindere dal fatto che la protagonista, che pure non è un modello di canto e di fraseggio, era una spanna sopra la Siri, ma …ma è il teatro di Strasburgo non la Scala di Milano ed allora valgono pretese differenti e criteri di giudizio differenti. Ciò che è valido e proponibile in un teatro di provincia francese, è improponibile ed indecoroso in Scala. Solo che la dirigenza artistica, che è provinciale questo non sa, non vuole e non può cogliere e fa davvero male il pubblico a non ricordarglielo tutte le sere. Ma – e qui la chiudo- il pubblico con una sua etica ed una sua dignitosa preparazione questa e le precedenti direzioni a partire da molto lontano lo hanno sterminato.

      • Questo è il punto fondamentale. E vale per questo come per altri spettacoli. Purtroppo occorre ribadirlo con frequenza a favore di chi finge di non capire la questione. Tutti noi ben siamo consapevoli che il teatro vero e vivente non può essere per definizione “perfetto” e che l’essere umano è fallibile, così come il cantante o il musicista in genere. Non c’è da parte nostra nessun accanimento verso il teatro milanese, ma la giusta pretesa che il livello sia ben diverso da quello che si trova in provincia. E non perché la provincia debba essere di bassa qualità, ma perché è chiaro a tutti – tranne forse a chi ci continua ad attaccare – che gli sforzi produttivi, le disponibilità economiche, le potenzialità di spesa sono differenti in modo sostanziale. E quindi ascoltare certi spettacoli zoppi o peggio alla Scala è più “grave” che ascoltarli a Novara o a Pavia. Peraltro spesso si nota una maggior cura – patteggiata ovviamente con i mezzi a disposizione – nei teatri meno blasonati rispetto a quello che si autocelebra come il tempio della lirica internazionale. Le tradizioni e la storia contano, ci mancherebbe, ma poi i fatti devono confermare e, purtroppo, il livello medio delle rappresentazioni scaligere è inferiore alle aspettative. Chi si accontenta non sempre gode, a parte i masochisti che avranno apprezzato sicuramente spettacoli come Bolena e Otello. Nessun complotto, nessun preconcetto, bensì legittimo desiderio di ascoltare non la perfezione di certo, ma almeno spettacoli con orizzonti più ambiziosi della media di provincia.

  6. La Scala non e’ Strasburgo e francamente lo si vedeva, posto che comunque condivido le critiche a un allestimento scenico molto ben fatto e anche di grande impatto ma secondo me sbagliato che e’ pero’ perfettamente in linea, come livello e impostazione, con quello che si sarebe potuto potuto vedere in uno qualunque dei massimi teatri mondiali. Non credo che vi sia alcun complotto e le critiche possono sempre giovare se hanno senso e ragione. La Scala potrebbe fare meglio anche per quel che riguarda la semplice organizzazione e la diffusione delle proprie produzioni, a cominciare dallo streaming. Aggiungo che condivido l’idea che spettacoli come la Bolena e Otello (e anchr altri) siano stati pessimi. Tuttavia voi pensate davvero che al Met, a Berlino, a Londra etc. si faccia meglio? Il pubblico e piu’ caloroso ed entusiasta rispetto a quello della Scala ma per il resto siamo li’. Poi potranno seguire i giudizi generali piu’ o meno positivi sul livello dell’epoca corrente , ma questo e’ un altro discorso ( io, a questo prposito, non amo i catastrofismi ).

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