I dadi e la cioccolata di Varese e Como, ossia come si distrugge la Scala

alexander-pereiraUna volta, quando ero bambino e si andava in Svizzera a comperare dadi e cioccolata (e chi aveva disponibilità economiche e paura del blocco comunista a lasciare qualche obolo alle banche di Lugano) per indicare cioccolata e dadi di seconda scelta si diceva “in i svizer de Vares e de Com”, alludendo a quanto, prodotto in Italia, veniva poi spacciato per svizzero. Or bene oggi la stagione della Scala è proprio una perfetta declinazione di dadi e cioccolata italiana che viene spacciata per svizzera. Perché ormai e lo ripetiamo all’imbecillità gli orizzonti culturali, i titoli prescelti, i cantanti scritturati e le agenzie, che offrono la più cospicua parte dei cantanti, alla Scala sono quanto serviva el sciur Pereira quando stava a Zurigo. Con la differenza che a Zurigo, periferia culturale, i grandi cantanti andavano a fare soldi e in generale il prodotto offerto, che nel cantone poteva anche essere accetto, non lo può essere in Scala e fors’anche in un teatro italiano di livello medio. E per prodotto intendo il titolo, il cantante, il regista, il responsabile della parte visiva. Possiamo anche scendere nel dettaglio per dire che un titolo come Attila è poco opera inaugurale, ma sopratutto non è latore di quei valori musicali, che ne giustifichino (assente ad esempio Norma da 42 anni o Semiramide da 57) la riproposizione dopo un’esecuzione -scalcinata e chiassosa- datata 2011, o che una protagonista infelice sotto il profilo fisico ed interpretativo di Francesca da Rimini non può certo essere una Manon esemplare, con l’attenuante che il teatro milanese da almeno mezzo secolo è sfigato o imperito nella scelta delle protagoniste (Sass, Guleghina, Rautio che siano), che il nazional popolare di Verdi è ridotto a titoli che non sono altro che il repertorio e che si giustificano solo con assoluti fuoriclasse, che siamo stanchi di vetuste cariatidi nel ruolo di papà Germont con gli anni del nonno ed il cui palcoscenico più acconcio potrebbe essere in fondo a Viale Certosa, che non è giusto offrire addio alle scene a Nucci con il solito Rigoletto (il Franti di turno dirà “finalmente si ritira”) quando il teatro, applicando una impari condicio veterum, non ha offerto un addio a Mariella Devia e non le offre un concerto con orchestra. Ma queste osservazioni ed altre -tante- che si potrebbero fare sono gli accidenti di una sostanza davvero triste e tragica nel contempo. La mancanza di idee nella programmazione appiattita sui titoli svizzeri, cui si aggiungono per essere sempre più tabula rasa artisti (parola grossa!) della medesima provenienza, con inserti di fantasmi o di personaggi assolutamente di seconda scelta del podio sono la sostanza di un teatro che è diventato un panettone industriale dove è giusto sia ubicato solo un pubblico che bivacca, che fa selfie, che sgranocchia patatine, dove i titoli sono gli stessi e dove per titoli di repertorio ci sono 600 biglietti in vendita a pochi giorni dalla prima. La scelta di strombazzare il ritorno della Bartoli, con anticipo rispetto all’annuncio della stagione ci dice delle priorità di questa gestione e dei complici silenzi e degli ignoranti consensi su cui si fonda. L’unico augurio che questo teatro merita è un buon revisore dei conti….nominato da chi lo lascio all’immaginazione del pubblico.

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24 pensieri su “I dadi e la cioccolata di Varese e Como, ossia come si distrugge la Scala

  1. Visti certi titoli che sono stati serviti negli anni a S. Ambrogio, anche Attila ci può stare. Tutto, però, dipende da come è servito.
    A Torino nel 1983 inaugurarono la stagione proprio con Attila, ma la distribuzione era un poco diversa da quella prevista ora per la sala del Piermarini: Nicola Ghiuselev, Silvano Carroli, Maria Chiara, Veriano Lucchetti, Giampaolo Corradi, Giovanni Foiani, direttore Nello Santi, regista Lamberto Puggelli.
    Lo avevo visto in tv e, per quel che mi ricordo, mi era piaciuto assai.
    Quanto all’idea di riprendere in Scala Norma o Semiramide, se si pensa che non le hanno fatte quando c’erano ancora cantanti che potevano affrontare l’uno o l’altra opera (Dimitrova, Cuberli, Scotto, Anderson, Horne, Dupuy, Valentini Terrani, Ramey, Blake, Merrit, etc.) e le stesse opere erano più o meno decorosamente rappresentante in teatri italiani ed esteri, con il desolante panorama odierno forse è meglio che non le ritirino fuori. O si vorrebbe sentire una Norma con la Bartoli contornata da cantanti di proporzionato tonnellaggio vocale? O magari la predetta in Semiramide, tanto è parte Colbran….

      • non lo considero un capolavoro anche se l’alba su Aquileia, la cavatina al primo atto di Odabella, il terzetto finale ed il sogno di Attila sono pagine che ascolto con piacere nell’ambito di quello che è Verdi ossia uno che ha fatto sentire la vanga sino al 1855 circa. Poi aggiungo che l’Odabella della Callas, l’Attila di Pasero o di Pinza, il Foresto da Aureliano Pertile….beh insomma

  2. Concordo con il signor Don Carlo di Vargas, che, viste alcune prime della Scala, un Attila anche ci starebbe, se il resto fosse sano (tanto per fare una citazione dotta…).
    Io ricordo ancora con orrore di avere ascoltato alla radio una inaugurazione del 2004, con Riccardo Muti che tiro’ fuori dal baule una Europa Riconosciuta di Salieri, che, anche per un baroccaro convinto come il qui scrivente, e’ un’opera esiziale che non userei neppure per addormentare (forse meglio, anestetizzare) mio figlio piccolo Marco di 3 anni. Va bene che fu l’opera prima nell’inaugurazione storica del teatro, ma alla Fenice per la stessa occasione scelsero la Traviata, e non i Giochi d’Agrigento…
    Mi sono sempre chiesto se alcuni titoli scelti per la serata di Sant’Ambrogio da Muti, fossero stati motivati da puro sadismo, nel volere ascoltare poi i commenti sull’opera, rilasciati agli intervistatori da storditissime Valeria Marini o contesse Marzotto.

    • Siccome ho molte perplessità su Muti ed annessa corte credo che i titoli delle inaugurazioni delle prime stagioni nascessero dal desiderio di dare qualche cosa al pubblico di importante ed esemplificativo dell’arte del direttore. Peccato che il direttore scegliesse i cantanti alla rampazzo o, come dice qualcuno con il solo intento di primeggiare. Ed il pubblico allora soprattutto dopo la pretermissione della Matilde del Tell era giustamente severo con cantanti e direttori e quindi fioccavano fischi e riprovazioni . Allora arrivò la sete di cultura e fummo vessati dalla Vestale in francese, Ifigenie, Wagner ovvero titoli, che assicuravano di salvare la pelle.

      • dal 1982 Muti ha inaugurato le stagioni con:
        – Ernani
        – Nabucco
        – Don Giovanni
        – Guglielmo Tell (in italiano)
        – I vespri siciliani (in italiano)
        – Idomeneo
        – Parsifal
        – Don Carlo
        – La Vestale
        – Die Walküre
        – Die Zauberflöte
        – Armide
        – Macbeth
        – Götterdämmerung
        – Fidelio
        – Trovatore
        – Otello
        – Iphigenie en Aulide
        – Moïse et Pharaon
        – Europa riconosciuta

        Ora, aldilà di simpatie e antipatie (non voglio certo riaprire la “tenzone” con l’amico Donzelli che ben sa come su Muti la pensi in modo radicalmente differente dal suo), è oggettiva la varietà e ricchezza dei titoli – sia inaugurali, sia interni alle stagioni, soprattutto se confrontate con il panorama degli ultimi 5 anni – e, salvo scelte assai discutibili (per mio gusto, naturalmente), adatti ad una prima di un teatro importante.

        Paradossalmente, tuttavia, proprio nei titoli “che assicuravano di salvare la pelle”, l’interpretazione di Muti è stata discutibile: penso a Wagner (tranne Parsifal che era diretto molto bene anche se non particolarmente rivelatore) o al Fidelio.

        Ps: La Vestale E’ in francese (come avrebbero dovuto esserlo Tell e Vespri) e me la vidi ben due volte…confesso che fu uno degli spettacoli che maggiormente mi piacquero della gestione Muti. Tra gli spettacoli inaugurali trovo siano stati poco riusciti Fidelio, appunto, Armide e Iphigenie en Aulide (noia micidiale), Vespri (pessimi sotto ogni punto di vista), Valchiria e Crepuscolo…l’Europa riconosciuta dimostra impietosamente il livello degli “altri” all’epoca di Mozart…

        • vedi che il conto della serva grosso modo torna. dopo la legnata del don carlo, il maestro si diede alla cultura perchè Mozart, Wagner, Gluck chi li fischia, e chi lo facesse è ignorante becero etc, idem un Otello con i lacerti di Domingo. Salvare pelle e posto di lavoro (sic!) era assai più importante che fare bene. Se poi confronto certe produzioni del Muti fiorentino con il Muti milanese (Ballo ad esempio) trovo la parabola molto discendente. Poi puoi anche pensare che il maestro Muti come il suo predecessore non mi piacciano. E’ vero, ma credo di averne validi motivi. Se poi penso alle bacchette (molte da ristorante cinese all can you eat) di questa stagione e delle passate devo anche, mio malgrado, fare ammenda.

          • Se li rivediamo oggi e facciamo il paragone con ciò che passa oggi il convento, Vespri e Ballo sono delle meraviglie.

        • Se posso inserirmi in tale augusto confronto, sono abbastanza d’accordo con Donzelli: estremizzando, se l’Europa Riconosciuta la fai cantare a dei cani, nessuno se ne accorge, se invece scegli un Don Carlo, finché la memoria storica ci sorreggerà (e date le condizioni della cultura musicale italiana in genere ho poche speranze), ti becchi sonori fischi.
          PS: i contemporanei di Mozart erano anche Paisiello e Cimarosa, che non erano propriamente dei mestieranti…

          • La scelta dell’Europa riconosciuta era motivata dalla “riapertura” dopo il profondo restauro che interessò il teatro per diversi anni. Dal punto di vista storico poteva anche starci, peccato che l’opera fosse un lavoro assolutamente mediocre che non avrebbe certo permesso né al direttore di brillare né ai cantanti di primeggiare (la musica era e resta mediocre, chiunque la canti). Diverse le ragioni di altre scelte: la peggiore fu quella del cast di Vestale…e fu un vero peccato, dato che l’operazione resta importante e la direzione di Muti esemplare. In quel caso – e in altri – prevalse una certa arroganza e bulimia di protagonismo (protagonismo che, a lungo andare, portò alla cacciata). Se devo indicare, tuttavia, i momenti più discutibili del direttore alla Scala, non posso non indicare il pasticcio del Ring, Fidelio e Vespri (opera che personalmente non apprezzo per nulla).
            PS: certamente contemporanei a Mozart vi erano tanti valenti compositori…dico solo che talvolta l’ansia da “capolavoro ritrovato” è una mera suggestione. Ciclicamente accade che taluni compositori vengano riesumati e i riesumatori, nella buona fede della riscoperta, confondono l’entusiasmo con il valore musicale e parlano di capolavori di Salieri etc…ecco, poi se si confronta un titolo come Europa riconosciuta (ma anche Axur, La grotta di Trofonio, Led Danaides) con Idomeneo la differenza balza all’orecchio.

  3. Francamente l’idea di inaugurare ls stagione con Attila mi ha lasciato perplesso. Però si inserisce, purtroppo, nell’uso corrente della dirigenza musicale di Chailly che non ha fatto mistero di voler dare un’impronta autarchica alla programmazione. Tuttavia se la scelta di una Giovanna d’Arco era comprensibile – pur trattandosi di un’opera minima – per via della rarità d’ascolto, Attila è cosa diversa (alla Scala poi è titolo frequentato recentemente). Personalmente trovo che sia una delle opere più interessanti e belle del primo Verdi, però dell’autore di Busseto si sta arrivando all’overdose. E taccio della cadenza ossessiva con cui viene propinato i Requiem: a Milano almeno due volte l’anno (Scala e Auditorium Verdi) oltre a varie ed eventuali… Non se ne può davvero più (di Verdi dico).

    • Concordo in ogni caso il mio è un giudizio sull’opera complessiva perché le belle pagine si trovano sempre nei grandi maestri anche nelle opere meno ispirate ma ripeto è una mia valutazione. In ogni caso Verdi essendo da molti considerato il più grande operista italiano di tutti i tempi è normale che venga richiesto io personalmente non impazzisco anche se ci sono alcune opere che sono degli autentici gioielli. Quanto al Requiem non mi dispiace sentirlo più volte nel senso che non mi annoia mai.

      • Pensa che io invece trovo Attila uno dei titoli più riusciti di Verdi: complessivamente è un’opera compatta e ricca di tensione teatrale, con brani meravigliosamente melodrammatici (e uno dei duetti più belli scritti dal compositore: quello tra Ezio e Attila). Per quanto riguarda Verdi, in generale, ti dico che posso benissimo vivere senza. Personalmente ritengo che i più grandi operisti italiani siano Monteverdi in primis e poi Puccini e Rossini (a pari merito). Del Requiem, purtroppo ho fatto indigestione :-)

        • Personalmente non ho un mio preferito nel senso che in ognuno trovo aspetti più o meno convincenti in ogni caso Rossini é per me un monumento ma se devo dirla tutta mi trovi perfettamente d’accordo su Monteverdi aveva già capito tutto.

  4. Trovo Attila – sia detto con tutto il rispetto dovuto al Maestro – un’opera irrimediabilmente grigia e insipida . Se non ho frainteso mi pare che lo stesso Verdi non amasse le trite convenzioni cui dovette sottostare in quegli anni, a cominciare dalle insopportabili cabalette. Titolo a mio parere inadattissimo a una prima scaligera: quasi sempre si è visto di meglio. L’Europa Riconosciuta fu una proposta dovuta a motivi non esclusivamente legata a valori musicali ( aggiungerei inoltre che Salieri non rappresenta affatto l’emblema della mediocrità come si insinua in quell’insopportabile film di Milos Forman ). Trovai Armide opera meravigliosa e spettacolo splendido. Concordo infine con Duprez: Monteverdi e poi Puccini e Rossini ( e forse Bellini, se non fosse scomparso prematuramente ). La grandezza del primo e secondo Verdi mi sfugge completamente: sicuramente per mio limite.

  5. Personalmente credo che oggi si possa rimpiangere alla grande Muti, visto quello che è venuto dopo e considerando che è uno dei pochi che osa opporsi al “regietheater”, che più che una corrente teatrale è diventato un vero e proprio sistema di potere. Personalmente io avrei inaugurato con la Norma della Devia, anche per darle l’occasione di concludere degnamente una bella carriera, oppure facendo un’operazione meritoriamente culturale sullo stile di Zandonai e recuperare la Parisina o qualche altra opera ingiustamente dimenticata, infischiandosene se possibile del fatto che duri più di due ore….

  6. Il concetto di qualità musicale é molto personale ma anche dato dal tempo. Premetto che l’Europa Riconosciuta neanche a me convince ma va detto che si inserisce in quello che era il gusto musicale dell’epoca e probabilmente qui non si tratta di mozart contro salieri ma perché mozart é mozart e la sua musica é solo sua anche se ovviamente deve molto ai suoi colleghi contemporanei. Quindi é il caso di dire che é Mozart che spazza tutti piuttosto che le singole opere di altri compositori. In questi anni di rinnovato interesse capisco sempre più come il suo genio sapeva trarre il meglio dagli altri e plasmarlo a suo piacimento dove un dettaglio da sublime diventa divino. Senza fare monumenti ma la mia analisi é questa. Se devo dirla tutta tra i compositori coevi ritengo ingiusto non inserire in repertorio Cimarosa e Paisiello. Ascolto sempre con piacere i concerti per pianoforte di quest’ultimo eseguiti dalla Monetti e la english chamber e li si capisce quanto mozart ne sia stato influenzato.

    • Cimarosa e Paisiello meriterebbero maggior attenzione: sono corsi e ricorsi storici che indirizzano il gusto del pubblico. Certo è che hanno scritto grandi capolavori. Per non parlare di Pergolesi di cui ho ancora vivo il ricordo delle recite scaligere di quel gioiello che è Lo frate ‘nnamorato.

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