Il Fidelio di Chung

FidelioFidelio torna alla Scala. Torna nella discussa, ma efficace produzione di Deborah Warner che già inaugurò la stagione 2014/15 con la bacchetta più svogliata che mai dell’allora “Maestro scaligero” Daniel Barenboim. Torna in una serata particolare: dedicata a Vittore Veneziani che nel 1938, con l’entrata in vigore della legislazione razziale fascista, fu costretto ad abbandonare il posto di direttore del coro, e ad Erich Kleiber che in contrasto alla piega razzista presa dal regime, rinunciò alla già programmata direzione del capolavoro beethoveniano. Capolavoro – mi piace ribadirlo – che dimostra quanto sia non condivisibile il teorema della pretesa superiorità dell’opera “italiana”: non mancano infatti, ad ogni esecuzione italica, le reazioni più bizzarre e scomposte, amplificate dalla realtà parallela dei social network, per cui Fidelio sarebbe addirittura “orrendo” (cit.), “opera mediocre” (cit.) di un compositore incapace di scrivere per il teatro (per il solito assunto – o fesseria – per cui o si scrivono melodrammi con cabalette e rondò variati per primadonna, oppure, semplicemente, si sbaglia). Tralascerei il folklore (per i più curiosi c’è la pagina FB di un famigerato programma di Radio Tre dedicato a melomania, melomaniaci et similia) e rimanderei gli interessati ad alcuni pezzi scritti per questo Corriere in occasione del 7 dicembre 2014, dedicati alla genesi dell’opera, al rapporto di Beethoven con il teatro e alle diverse versioni dell’ouverture, per tornare alla serata del 18 giugno. Il ritorno di Fidelio alla Scala è stata, soprattutto, l’occasione di ascoltare la “prima volta” di Myung-whun Chung alle prese con l’opera di Beethoven in forma completa e scenica. Chung, negli ultimi anni, ha intensificato il suo rapporto con il teatro musicale e proprio in Italia (a Milano e Venezia) ha dato prove di riletture assai interessanti di titoli del grande repertorio. L’attesa per il suo Fidelio era tanta e non ha certo deluso le aspettative. Inaspettatamente l’opera non si apre con l’ouverture del 1814, ma con la Leonore No. 3. Scelta testualmente discutibile – è nota a tutti sia la storia delle revisioni dell’opera e del continuo lavoro del compositore sull’ouverture, sia la tradizione, risalente a Mahler, di interpolare la Leonore No. 3 prima del finale – ma musicalmente felicissima perché il brano è un capolavoro assoluto. La licenza di Chung si perdona volentieri anche in virtù della splendida lettura data dal direttore coreano (se si pensa che nel 2014 Barenboim optò per la meno interessante Leonore No. 2, dandone una lettura pesante e svogliata) che con tempi insolitamente ampi e dilatati cesella un’interpretazione decisamente “romantica” e ricchissima di chiaro scuri. L’orchestra – reduce dalle salutari cure di Daniel Harding con il Fierrabras schubertiano – risponde bene alle sollecitazioni del direttore e mostra un bel suono caldo e vellutato senza inciampi ed incertezze (anche se credo sarà ancor più piacevole sentirla nelle ultime repliche dopo il rodaggio iniziale). L’atmosfera realizzata da Chung, il cui modello sembra essere evidentemente il Fidelio di Otto Klemperer, non è cupa né eccessivamente drammatica, ma tesa verso la luminosità del finale (che coinciderà, nella messinscena della Warner, con l’abbattimento dei muri della prigione): una visione etica dell’opera di Beethoven che il direttore vede come l’innalzamento dello spirito contro i soprusi dell’ingiustizia nel ritrovare la libertà. In questo senso magnifica la lettura del grande finale II, grandioso e teso, come un oratorio laico, con il coro in rilievo, così come il coro dei prigionieri nell’atto I, quasi sussurrato sull’accompagnamento danzante dei legni. Ma non si possono non citare il quartetto iniziale (ondeggiante e giocato su mezze voci e note tenute) e l’apertura dell’atto II che, ad onta di un paio di imprecisioni dei fiati e senza calcare la mano sul dramma, dipingeva in modo efficace il dolore della solitudine e dell’oscurità da cui emerge il grido disumanizzato di Florestan. Una prova convincente, importante, matura e che, forse, meritava un pubblico più partecipe (mi aspettavo ben altra reazione al termine della splendida Leonore No. 3). Non altrettanto piacevole è stata la prova dei cantanti, o meglio dei due protagonisti. Mentre infatti Eva Liebau e Martin Piskorski (Marzelline e Jaquino) hanno interpretato con professionalità i ruoli “leggeri”, senza mai scadere nel bozzetto (salvo qualche appunto nelle agilità della Liebau), Martin Gantner (Don Fernando) e il Rocco di Stephen Milling hanno mostrato giusta autorità e potenza vocale, Leonore e Florestan hanno evidenziato tutti i limiti di una scelta sbagliata di caratterizzazione vocale. Il problema è il solito: Fidelio non è un dramma musicale wagneriano, ma è vocalmente più legato al classicismo di Mozart e Haydn. Sono tessiture scomode che richiedono non solo corpo e potenza, ma anche agilità e facilità di acuto. L’uso di voci “wagneriane” (vere o presunte) è abitudine che poteva reggere in presenza di cantanti superdotati che oltre alla potenza potevano sfoggiare saldezza nell’acuto, inquadrate in letture marcatamente “sinfoniche”. Oggi una scelta di tal genere porta matematicamente a problemi: problemi che si sono verificati – con l’esattezza di un’equazione – nei soliti due momenti dove il 90% degli interpreti di Leonore e Florestan inciampa, ossia il monologo del primo atto “Abscheulicher” e la grande scena e aria del secondo “Gott, welch Dunkel hier!”. Qui immancabilmente i nodi vengono al pettine e voci per natura o abitudine ancorate al centro e poco slanciate in alto, finiscono per impiccarsi. La Leonore di Ricarda Merbeth, ha mostrato un buon centro ed un buon controllo dell’intonazione – come nel 2011 a Torino – ma, oltre ad un fraseggio abbastanza anonimo, anche una gran sofferenza nello sfogo in acuto, raggiunto spesso in affanno e con suoni fissi e sgradevoli: in questo senso l’aria l’ha vista in grandi difficoltà. Ancora peggio il Florestan di Stuart Skelton! Da taluni, evidentemente in vena di scherzi, indicato come il nuovo Vickers ha esordito nel secondo atto con un suono (“Gott”) che definire “urlo” sarebbe eufemismo…a cui è seguita l’esecuzione dell’aria in costante debito d’ossigeno, stonature e, dulcis in fundo, un registro acuto del tutto inesistente o sfasciato che ha reso il finale una sfida all’intonazione sull’orlo della stecca. Pessimo. Il tenore è stato il buco più grave della produzione, che testimonia la difficoltà di individuare la corretta vocalità in un ruolo che, come nel Cristus am Ölberge, anticipa sì talune peculiarità che saranno tipiche dell’heldentenor, ma che ancora affonda le radici in Tamino (Beethoven considerava l’ultimo singspiel di Mozart il suo vero capolavoro). Il migliore del cast è stato senza dubbio il Don Pizarro di Luca Pisaroni in una delle sue prove più convincenti vocalmente e stilisticamente, nell’evitare ogni eccesso villain del ruolo. L’interesse per questa ripresa era dovuto anche all’allestimento della Warner che regge benissimo il tempo e, nonostante l’attualizzazione (anche se la vicenda narrata di sopruso e ingiustizia e di per sé sempre attuale e universale), serve in modo efficace la musica di Beethoven: la presenza della regista ha assicurato il mantenimento della cura nella recitazione che, infatti, è risultata impeccabile. Uno spettacolo che merita, nonostante i due protagonisti, e che sarebbe da rivedere dopo un ulteriore rodaggio.

Gli ascolti:

Leonore No. 3 – Ferenc Fricsay

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“Mir ist so wunderbar” – Wilhelm Furtwängler, Mödl/Jurinac/Schock/Frick

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“O welche Lust” – Otto Klemperer

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“Abscheuicher” – Erich Kleiber, Birgit Nilsson

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“Gott! Welch Dunkel hier” – Otto Klemperer, Jon Vickers

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Finale II – Wilhelm Furtwängler

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28 pensieri su “Il Fidelio di Chung

  1. E c’è chi dice sia un oratorio..comunque sono pezzi unici e irripetibili quindi non si può paragonare a un opera di rossini. Bravo Chung sempre piacevole ma con qualche riserva come la scelta appunto dell’ouverture. Tempi non sempre azzeccati ma le sue letture sono sempre coerenti comunque con la sua idea interpretativa quindi non sento quell’effetto montagne russe di alcuni direttori che sembrano affetti da disturbo ossessivo per intenderci.

  2. Sono stato alla prima recita e sinceramente (tenore e soprano a parte) non condivido quanto scritto.
    L’allestimento è non pervenuto; è gradevole esteticamente ma niente più. Non vedo un’idea. E poi il II atto è un cantiere edile piuttosto che una prigione (anche se pure un grande cantiere edile può essere una prigione per i lavoratori sfruttati).
    Non condivido nemmeno l’ammirazione per Chung, che peraltro è stato fischiato…o me lo sono sognato? Ero tra il pubblico che non ha applaudito entusiasticamente la sua ouverture: tempi lenti, tanta noia…la Leonore III deve trascinare il pubblico, è stupenda: non mi è proprio parso sia capitato tutto questo. Idem lungo l’opera. Un po’ meglio il finale.
    Tra tutti, mi ha fatto una buona impressione Martin Gantner. Pisaroni pure, ma la sua dizione è un po’ italianizzata. Molto al di sotto delle aspettative anche Eva Liebau, corta e “chiusa” appena sale un po’ (…siamo alla Scala, e il ruolo non è impossibile!). Il tenore un disastro, come avete scritto, e non solo nell’aria del II atto. Pochi anni fa sarebbe stato letteralmente sommerso di fischi.
    In definitiva, bella musica, ma esecuzione certamente non trascinante, spesso noiosa.
    (P.S.: i dialoghi erano originali/completi?)

    • De gustibus… A me l’allestimento è piaciuto (bell’uso degli spazi e delle luci: anche la cura nella recitazione). Io di fischi a Chung francamente non ne ho sentiti, anzi… Poi se qualcuno l’ha fatto (e mi sembra strano, dato che alla Scala ho sentito contestare solo con i “buuu”) avrà avuto i suoi problemi

      • …in effetti ho scritto fischiato per abitudine, ma erano buu.
        Sì l’allestimeno non era un pugno nello stomaco, né sconclusionato, lo definirei però un allestimento “tradizionalmente moderno” o di corretta normalità. Esternamente moderno, ma i momenti migliori erano quelli risolti in maniera più tradizionale (tipo la scena del carcere all’inizio del II atto).

        • Saremo sordi io e Billy Budd, ma mi pare che contestazioni non ne abbiamo sentite…però c’è sempre il “fenomeno”. Francamente solo pensare che qualcuno possa fischiare o “buare” questa direzione mi pare del tutto assurdo: si possono preferire altre letture, ma addirittura contestare quella di Chung mi pare mala fede. Non mi stupisce visto che certi “fenomeni” hanno fischiato Kleiber e Karajan in passato, e pure la Callas: il mondo è bello perché è vario ed è vario anche perché c’è sempre un buon numero di imbecilli con manie di protagonismo.

          Tornando all’allestimento io non ho visto nessuna forzatura: una prigione era nel libretto e una prigione (moderna) si è vista in scena, senza idiozie o elucubrazioni (peraltro la Warner è un’importante regista anglosassone, non è certo l’ultima arrivata e non credo abbia bisogno di lezioni da nessuno). E’ un allestimento “tradizionale” nel senso che non riscrive la vicenda e lavora bene sulla musica. I dialoghi – per tornare ad una tua curiosità precedente – sono stati adattati (cioè sfoltiti) dalla regista, come succede sempre da che lo testimonia il disco. Nell’intervallo alcuni dei “fenomeni” che popolano sempre il pubblico scaligero si lamentavano scandalizzati del fatto che Marzelline stirasse i panni…evidentemente non hanno mai letto il libretto. Ma c’era pure chi si lamentava del fatto che la regista “avesse ambientato l’opera in una prigione”. Tant’è…

      • Questo sì. Ormai alla Scala è abituale. Eppure il Fidelio non è Donnerstag aus Licht… Credo il combinato disposto di caldo, prezzi esagerati e pochi eventi collaterali per attirare attenzione.

        • I prezzi alti non sono mai stati una novità ma sarebbe ora di risparmiare un pò su i compensi e abbassare un pò i prezzi. Ci sono tanti teatri che alle volte fanno produzioni migliori che almeno non ti svuotano il portafoglio. Ovviamente non è una ferrari (o forse porsche ) in meno a pereira che può far abbassare i costi di un intera stagione ma tutto fa brodo.

          • In realtà non sono costi che incidono moltissimo (anzi, in Italia i compensi sono più bassi). Occorrerebbe una politica dei prezzi differente: differenziare maggiormente nuove produzioni e riprese, titoli di repertorio da rarità, prevedere dei mini abbonamenti liberi, togliere quei “costi di prevendita” che sono incomprensibili, distinguere i posti in cui non si vede una coppa da quelli a visibilità piena etc…

  3. Trovo le recensioni di Fierrabras e Fidelio equilibrate e condivisibili: stroncare a oltranza produce alla lunga un senso di sazietà e monotonia. Una cosa è comunque certa: alla Scala si pagano prezzi esagerati anche per posti in cui si sta scomodissimi e si vede poco o letteralmente nulla. E capita anche con una certa frequenza che il display coi sottotitoli non funzioni.

  4. Cara Giulia a recensire quel che sentite fate benone e dovete continuare a farlo: l’importante – ovviamente – è non scambiare le vostre personalissime opinioni con il verbo. Evitare la perenne gnagnera da loggionista ipocondriaco sarebbe peraltro un opportuno principio metodologico ( tutti l’abbiamo subita: l’emancipazione raggiunta con la conquista di altri ordini di posti non ne ha cancellato il molesto ricordo ). Ad avere un po’ di tempo e voglia si potrebbe scrivere una ponderosa storia della (presunta) “morte dell’opera”. Da secoli vi sono contemporanei che imperterriti (e sovente ignari dei predecessori ) l’annunciano: fortunatamente l’opera è finora sopravvissuta a tutti i suoi solerti affossatori. Essa ha per nostra fortuna ( o scorno ) una vitalità potente e insospettata. Sono arrivato a pensare che vi sia una qualche affinità tra gli annunciatori della morte dell’opera e i profeti millenaristi: inesausti proclamatori di una improbabilissima fine del mondo sempre imminente e mai realizzata ( un mondo zeppo di peccati e di cattivi da buare impietosamente ). Andrà avanti così ancora a lungo. La prova che l’opera non abbia chiuso i battenti è l’esistenza stessa del vostro blog: se l’opera fosse davvero morta non avrebbe senso per voi continuare. Ci sarebbe spazio solo per i becchini e per gli storici. Mi pare che non apparteniate né all’una né all’altra categoria.

  5. Mi è stato riferito che un noto “critico” , non lo voglio citare perché lo considero incompetete, abbia avvalorato durante una conferenza l’utilità assoluta di amplificare le voci . Se una scelta el genere non significa la morte del melodramma……

  6. L’opera è ancora viva solo come testimonianza di un passato che non esiste più, più o meno si è estinta con la seconda guerra mondiale, ad eccezione di qualche isolato e splendido crepuscolo. Checché se ne voglia dire l’opera contemporanea esite soltanto come realtà autoreferenziale. Il pubblico della lirica è costantemente in calo ovunque e va verso l’estinzione. Tutto il resto, qualità delle performance, gusti, ecc. procede di conseguenza. il fatto che esitono ancora tanti appassionati non deve ingannare. Purtroppo sono dati difficili da smentire, se non per chi vuole nonstante tutto chiudere gli occhi e continuare a vivere nello splendidio isolamento di una gabbia dorata.

    • Non sono affatto d’accordo: il pubblico dell’opera è in calo in Italia, in altre realtà non è così (ieri sera stavo guardando la prossima edizione delle giornate wagneriane di Budapest e per i due cicli di Ring sono quasi esauriti i posti…ad un anno di distanza). E’ illusorio pensare che il pubblico dell’opera sia paragonabile, per numero, a quello di altri generi musicali di consumo. Il fatto è che l’opera, oggi, NON è più un genere di consumo, come lo era sino alle guerre mondiali. E questo non per apocalittiche decadenze, ma perché la fruizione è fisiologicamente mutata. Tutto si evolve e anche i linguaggi. Oggi non si scrive più come Boccaccio o come Manzoni, per questo si dovrebbe dire che la letteratura è morente o finita? Oggi neppure si dipinge più come Raffaello, né si scolpisce più come Rodin: si dovrebbe dire che pittura e scultura sono morte o morenti? Di morte dell’opera si parla da almeno 300 anni, da parte di chi non accetta il passare del tempo e interpreta il mutamento di linguaggio come “errore”. I fanatici di opera italiana dicevano che Wagner avesse distrutto l’opera, Rossini diceva che il romanticismo musicale avrebbe distrutto l’opera, e così a ritroso…sino all’Artusi che diceva che Monteverdi era espressione della decadenza musicale che si era allontanata dal “giusto scrivere” uccidendo la musica vocale e rovinando la cultura musicale. Oggi l’opera e la musica colta in generale, hanno una funzione diversa: diminuisce l’aspetto creativo, ma rimane. Basta guardarsi intorno. Dire che il genere si è estinto dopo la II Guerra Mondiale significa non conoscere larga parte di compositori che sono ormai considerati “classici”: Henze, Reimann, Ades, Adams, Glass, Martinu, Messiaen, Dallapiccola, Nono, Zimmermann, Sallinen etc… E’ ovvio che a metà ‘800 si scrivevano più opere e l’opera era un genere popolare, ma allora non esisteva il cinema, la radio o la TV. Oggi ha altre finalità e non è autoreferenzialità, ma semplice mutamento. Che poi non ti piaccia è un altro discorso che non attiene ai massimi sistemi, ma al gusto personale da cui non bisognerebbe mai far discendere “verità” universali. Certo è che se si ritiene che dopo Rossini ci sia stato solo il diluvio…beh si rimpianga Caffariello.

      • Diciamo che la tua è una visione più ottimistica ma sostanzailmente diciamo la stessa cosa. A me molti autori contemporanei piacciono e all’elenco che hai fatto aggiungerei Ligeti, Stockhausen, Rota e toglierei Glass e Nono (musicista sopravvalutato per “meriti” conseguiti in altri campi), ma appunto non sono compositori di opere ma di altro che ha una funzione sociale artistica completamente diversa da quella dell’opera fino al dopoguerra che poi è cessata e quindi per me è morta. Continuità che invece prima, da Monteverdi a Britten c’era (e qua non sono d’accordo con il tuo ragionamento perché in passato le rotture erano sui linguaggi ma non sulla funzione che è rimasta la stessa per più di tre secoli)

        • Il fatto è che la funzione dell’opera nel XXI secolo è radicalmente mutata per via della diffusione di altre formule espressive popolari e di consumo. Non è morta: è cambiata come è giusto che sia. Può piacere o meno, ovvio, ma non è finito proprio nulla. Una cosa del genere accadde almeno altre due volte in passato: nel ‘600 quando si passò dalla corte ai teatri pubblici e con l’avvento di Wagner nell’ideale di opera-rito e non più divertissement. L’opera si continua a scrivere e produrre: l’opera NON è il melodramma. L’equivalenza opera/melodramma è frutto di una visione italocentrica e vociomane, ma l’opera in quanto linguaggio musicale ha una portata più vasta. Anche a me Glass non piace (come del resto mi disgusta Massenet), ma è indubbiamente un musicista e un operista importante. Così come Nono. Perchè limitare l’opera ad un genere – il melodramma – che ne è solo una parte e nemmeno la più importante?

          • Un mio insegnante diceva sempre che le edizioni critiche e ossessiva filologia sono la prova del fallimento della musica contemporanea laddove il presente non soddisfa appieno allora si ha l’effetto raschiamento. Condivisibile o no una cosa é certa che certi compositori da schoenberg in poi hanno completamente concettualizzato l’idea di musica a livelli tali che non vi si riconosce nulla che abbia. a che fare col sentimento perché l’arte nasce per questo e quindi si arriva a paradossi come donatoni dove addirittura c’è il distacco del gesto compositivo. Piaccia o non piaccia il presente é sempre presente e quindi questo produce la nostra epoca.

  7. Sicuramente ma che la musica contemporanea divida il pubblico é un dato di fatto. Ai concerti vedo pochissime persone l’unico che sa attrarre é berio tra gli italiani e li si. Poi ovviamente é la storia che decide.

    • Chi oggi parla del “fallimento” di Schönberg, scusami, non sa davvero ciò di cui parla e se è un professore di musica deve cambiare mestiere. Schönberg è un classico esattamente come Beethoven… Non so a che concerti vi riferiate ma l’unica divisione che crea è tra gli idioti e le persone di senno… Può non piacere: c’è chi non gradisce Mahler, io disprezzo Massenet…ma chi parla di fallimento della musica moderna non dovrebbe avere diritto di parola

      • Schoenberg escluso in realtà. In ogni caso nessun disprezzo ma che la musica contemporanea sia trascurata dal grande pubblico é un dato di fatto. Poi si può dire che il pubblica non capisce e che quello che ora é deserto domani sarà un grande classico. Personalmente non disprezzo la musica contemporanea in toto Berio Maderna corghi ad esempio. Ma ci sono alcuni compositori anche viventi che non stanno tanto bene secondo me. Poi ognuno ascolta quel che vuole.

        • Il “processo” alla musica moderna è ridicolo, scusa: è ovvio che va più gente a sentire Traviata che Reimann…sai che novità, così come è altrettanto ovvio che va più gente a sentire i Pearl Jam che Traviata. E quindi? I nostri personali gusti non c’entrano. E la musica contemporanea non è destinata al grande pubblico. Ci sono festival, stagioni, programmazioni ad hoc. E ha il suo pubblico (esiste, mi spiace per chi ritiene siano esseri di serie B o “malati di mente”). Non è una novità e non è certo un problema. Quanto a Schönberg: per quanti secoli si dovrà andare avanti ancora a elucubrare sul suo presunto “fallimento” mentre è ormai un classico esattamente come Mozart? Comunque ritenere che la storia della musica giri intorno ai propri gusti, beh…è un po’ eccessivo.

          • Io non dico tutti ovviamente ma in alcuni casi si per la quale purtroppo la chat non aiuta. Personalmente schoenberg l’ho sempre apprezzato il mio é riferito ad alcuni compositori del periodo post seriale ma qui non basterebbe un pomeriggio. In ogni caso ben vengano le discussioni perché l’arte é giusto che sia confronto che faccia parlare il bello é anche questo. Per quanto riguarda chung trovo ridicolo chi lo critica, perché se andiamo a vedere quella di barenboim il confronto é impietoso secondo me . Barenboim é stato un bravissimo direttore ma come altri ha avuto un decadimento negli ultimi anni, anche come pianista. Chung da delle letture coerenti e quasi sempre sono uscito soddisfatto dai suoi concerti
            Perlomeno non ha la sindrome di mariotti della serie piatti e strombazzamenti senza senso.

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