La stagione del Regio di Torino: non offendere la provincia

Il teatro Regio di Torino ha annunciato nei giorni scorsi la prossima stagione. Quella che segna l’uscita della precedente dirigenza artistica ed economica e l’insediamento della nuova, pare vicina o grata alla parte politica, che regge il Comune torinese e che in un battere d’occhio, repentinamente ed inopinatamente, ha dato una svolta al programma già predisposto dalla precedente impostandolo su titoli popolari e su un maggior numero di repliche. Quindi è sparita Siberia di Giordano che prometteva di ampliare gli orizzonti su repertorio verista e sono comparsi i soliti titoli quelli, che si rappresentano in tutti i teatri del mondo E siccome le compagnie di canto sono state da tutti giudicate scadenti, raccogliticce ed improvvisate si è speso, anche da parte della Grisi, il termine “provincia” per indicare la minestra di magro del venerdì, che gli uomini della sindaco hanno cucinato o meglio si propongono di servire al pubblico.
Ci sono però alcune alcuni elementi meritevoli di riflessione. In primo luogo i titoli: sono quanto di più ovvio e di scontato, vengono offerti male o bene in tutti i teatri del mondo. Aggiungiamo anche che si tratta di indiscussi capolavori, ma sempre degli stessi, tratti da una limitata rosa secondo criteri che rasentano l’autarchia. Senza andare a tirar fuori autori, che, simulando di far cultura altro teatro vicino offre si poteva, sempre pescando nel nazional popolare essere molto molto più vari. Superato, perchè sono i fatti che lo hanno superato il criterio (unico che dovrebbe governare i teatri) “del fare le opere se dispongo dei cantanti” ci voleva davvero poco ad inserire un paio di titoli francesi tipo Werther, Manon, Faust, Sanson e pure qualche titolo tedesco o russo del calibro di Boris, Lohengrin, Rosenkavalier sono talmente popolari, che suona offensivo per tutti (abbonati del turno A di Torino compresi) non volerli eseguire perché reputati rari, sconosciuti o peggio ancora non nazionali. Forse tali appaiono a conclamati ed ignoranti mestieranti, la cui teoria appare ogni giorno più numerosa.
Non mi sembra il caso neppure di scendere nel dettaglio di cantanti, direttori e responsabili della parte visiva. Questa stagione torinese, privata di quelli che potevano essere titoli interessanti per la loro rara proposizione è solo ed esclusivamente una inutile stagione d’opera dove vengono sperperati i pochi pubblici denari destinati all’opera. E siffatte scelte fanno sorgere il fondato dubbio che anche i pochi mezzi economici all’opera destinati siano anche troppi. Episodi come i 400 posti liberi tutte le sere alla Scala, altro luogo del repertorio per turisti, deve far riflettere che la strada non è buttare sul mercato Traviate, Trovatori, Tosche e altri titoli consimili a maggior ragione perché il Teatro Regio di Torino non vanta il richiamo della Scala.
Si è parlato di stagione di provincia. Sbagliato. Il teatro di provincia non è un teatro che serve pattumiera e robaccia è un teatro che dispone di limitati mezzi, le cui compagini ora orchestrali ora corali non posso competere con quelle dei grandi teatri e questo determina la scelta dei titoli. Per un teatro di provincia o Vespri siciliani piuttosto che Guglielmo Tell sono un oneroso impegno per i motivi, sopra indicati. Non perché il pubblico non sia capace di apprezzare o perché i divi ed i grandi rifiutino il teatro di provincia. E’ sempre stato così sin dall’800 solo pochi teatri potevano pagare i compositori e commissionare opere nuove, ma queste appena sfornate erano pronte per i teatri minori, che potevano essere ora Padova, ora Verona, ora Senigallia dove tutti i grandi nomi per la stagione si recavano. Ed è stato così almeno sino agli anni’ 50 del nostro secolo. Mai grandi cantanti al massimo della carriera come Gigli, Pertile, la Pampanini, la Cigna, l’Olivero tralasciavano quelle piazze. Piazze, che, a volte, servivano al giovane per farsi le ossa al cantante al capolinea per cogliere gli ultimo trionfi in luoghi dove da vent’anni si presentava. Basta sentire il duetto finale del primo atto di Otello fra il quasi sessantenne Merli, in forma strepitosa per età ed oneroso repertorio ed una giovane raggiante Renata Tebaldi, realizzato a Trieste nel 1946. Piazze che, spesso, permettevano al divo di saggiare un ruolo prima di affrontarlo nel circuito dei grandi teatri; vogliamo parlare della Norma al Teatro Cagnoni di Vigevano dove, accanto alla debuttante Gina Cigna, si esibivano Tancredi Pasero, Francesco Merli e Gianna Pederzini. Piazze dove talvolta si sono proposti titoli assolutamente inediti o particolari come spesso accadde a Trieste, che –passatemi l’ossimoro-internazionale città di provincia ha riproposto Smareglia, che è ben di più di una gloria locale. In quasi cinquant’anni di ascolti ho fatto in tempo a sentire gli ultimi grandi che mai hanno rifiutato di esibirsi in provincia dalle ultime regine come Raina Kabaiwanska, Luciana Serra, la Ghena Dimitrova, straordinaria Fanciulla a Treviso sino a Renato Bruson o Flaviano Labò. Nella provincia emiliana Lella Cuberli e Martine Dupuy anno 1981 rodarono i Capuleti e Montecchi belliniani, che Alberto Zedda aveva riscritto, rimpolpato e aggiustato secondo le più giuste e condivisibili idee della filologia più accreditata.
Ora con tutti questi esempi e mille altri se ne potrebbero offrire, quasi che la quantità sia la prova dei fatti, dichiarare che la stagione di Torino rabberciata e risistemata sia “di provincia” è offendere quella che è stata la grande tradizione della provincia italiana e interpretare in maniera errata il termine. Ci avesse offerto Torino una Norma con i grandi nomi di quella del Cagnoni, una Mignon come quella leccese quando Schipa, compagna Gianna Pederzini, rimise in repertorio il titolo o certe Forza del destino dei teatri marchigiani dove accanto al declinante Gigli si offriva la turgida voce di una ragazza romana di nome Gabriella Tucci. Nessun rimpianto, nessun gusto necrofilo, semplicemente utilizzare il termine di provincia non come sinomino di mediocre, raccogliticcio.
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9 pensieri su “La stagione del Regio di Torino: non offendere la provincia

  1. Condivido tutto. E mi permetto di aggiungere una riflessione, che non deve essere scambiata per una difesa d’ufficio. Credo che i criteri di distribuzione dell ormai risicato fus siano alla base delle scelte di molte direzioni artistiche. Uno dei parametri è il numero di alzate di sipario, notoriamente -a meno di non disporre di risorse illimitate- nemico della qualità. Anche in questo il nostro ultimo ministro, notoriamente esterofilo, ha voluto inseguire il modello tedesco dei teatri di repertorio. Eccone i risultati. Si insegue la quantità, bulimicamente, si inseguono i turisti, vedi il san Carlo con le sue 30 recite di traviata, si abbandona il pubblico che a teatro ci va con un minimo sindacale di consapevolezza e di “competenza”. A questo punto mi chiedo a cosa serva finanziare un teatro con fondi pubblici: i biglietti sono cari e gli spettacoli pensati per i pacchetti all inclusive….
    Saluti

    • Non è una difesa d’ufficio? E cos’è allora? Si scherza…comunque: che c’entra l’esterofilia? E poi quali sarebbero i criteri per distinguere il pubblico e i titoli “validi” da quello turistico? La situazione di teatri come Torino è proprio il frutto di questa imbecille crociata contro la presunta esterofilia a favore del repertorio. Peraltro non è una bestemmia fare ANCHE titoli di repertorio per turisti se questo porta introiti per fare altro: esempio è proprio Venezia che farà 40 Traviate all’anno e però programma un sacco di barocco e ‘900. Io trovo che il sistema tedesco e anglosassone – che da noi non è mai stato davvero applicato – permetta una varietà di titoli incommensurabile rispetto al nostro.

      • Guardi mi sembra che lei non capisca proprio il senso di quello che scrivo, forse dovrebbe leggere con più attenzione. Non le rispondo nel merito unicamente perché i suoi “toni” sono pieni di acredine. Impari ad accettare anche punti di vista diversi dal suo.
        La saluto

          • Sistema tedesco a repertorio e 40 traviate all’anno non sono per forza la stessa cosa. I teatri di citta’ turistiche (New York, Venezia, Berlino) devono sempre tenere qualche spettacolo di grande richiamo in rotazione con l’altra programmazione da spalmare per tutto l’anno. Questo non significa per forza qualita’ bassa. Dipende dai soldi e di chi si prende. Le Bohème che girano al MET per tutto l’anno non sono di basso lignaggio o per lo meno non piu’ basso degli altri spettacoli, tanto per dirne una.

            Il sistema tedesco ha grandi vantaggi, ma innumerevoli problemi di funzionamento ed un certo appiattimento stilistico, in teatri dove fondamentalmente non si prova mai, tranne che per le nuove produzioni e in cui si e’ molto confinati da scelte artistiche gia’ fatte prima di entrare in palcoscenico. Esterofilia o no, in Italia non c’e’ domanda sufficiente a sostenere una tale offerta quantitativa musicale, per cui mi sembra una pessima idea cercare di imitare il modello in toto. Al contrario le 40 traviate possono funzionare benissimo e garantire introiti ed un sistema sano.

            PER FAVORE AGGIUSTATE ‘STO SITO…E’ UNA TORTURA SCRIVERE SU 1.5cm DI LARGHEZZA

  2. Ho letto (su Wikipedia, si’, me ne pento e me ne dolgo!) che Gina Cigna smise di calcare le scene nel 1947: alche’, o devo dedurre una eta’ decisamente ragguardevole per il prode Donzelli, oppure che siete veramente dei passatisti senza ritegno! :-)

    Comunque mi associo: la definizione di teatro di “provincia” come spregiativo, in Italia non ha senso. Io mi ricordo uno splendido “Don Giovanni” fatto all’Olimpico di Vicenza, che era uno spettacolo in tutti i sensi.

    PS mi associo a Hollander: oltre al citato “restringimento” dei commenti, io vorrei potere cambiare l’immagine del mio account, ma il sistema non me lo permette. Se posso permettermi, mi sembra che dobbiate passare alla versione aggiornata di WordPress.

    • Scusa ma non ho capito. La mia età è ragguardevole sotto il profilo operistico. Ma no ho mai scritto di aver sentito la Gina. Mi fermo alla Olivero, alla Nilsson, alla Horne debuttante in Scala. Certo che Flagstad, Stignani, Leider, Pertile li avrei sentito con piacere. Taccio di Battistini, Sembrich, Schumann heink, sino alla Grisi e, naturalmente, Domenico Donzelli

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