Una vita difficile: Jenufa ad Amsterdam.

Jenufa18-3Per una serie di ragioni che sfuggono (o forse non sfuggono affatto, neppure a persone, come noi, di ristretta mentalità e minimale memoria), i frutti del teatro di regia offerti dai nostri massimi teatri, poco importa se di fresco dati fuori o nati altrove e poi presi a noleggio, assomigliano ben poco agli esiti che si registrano in alcune piazze estere. Anche fuori dagli italici confini vengono assemblati (magari a cura di registi che sono ormai nel quarto decennio della carriera) spettacoli sconclusionati e maldestri, ma il combinato disposto di soluzioni ostili alla musica (e agli esecutori), bruttezze visive, gratuite provocazioni a sfondo sessuale, trovatine metateatrali e goffe sottolineature dell’ovvio, che si riscontra alle nostre latitudini, ha ben pochi termini di paragone, per “qualità” non meno che per quantità. All’estremo opposto si colloca la nuova produzione di Jenufa, che la regista Katie Mitchell ha realizzato per De Nationale Opera di Amsterdam: uno spettacolo esemplare, per aderenza al libretto non meno che per la capacità di mettere in luce i passaggi in ogni senso più delicati del dramma. Non siamo nella montagna slovacca di fine Ottocento, ma nell’anonima provincia di un generico Occidente contemporaneo (compaiono gli smartphone), che potrebbe essere la Moravia, ma anche qualche stato periferico dell’America del Nord (i personaggi, appartenenti al ceto medio, vivono in caravan di un certo lusso, come se la zona fosse stata devastata da qualche calamità naturale). Al mulino si sostituisce uno stabilimento industriale (verosimilmente del settore agroalimentare), retto dalla matriarca Nonna Buryjovka (che si reca in ufficio a fine turno a “dare un’uciadina” ai conti tenuti dalla segretaria Jenufa): il pastorello Jano è una giovane operaia, Laca una sorta di operaio/factotum, l’amministratore del mulino un tecnico di laboratorio. La trasposizione non dà luogo a forzature, ché l’orizzonte chiuso e ossessivo descritto da testo e musica è lo stesso che questi ambienti grigi e anonimi, post sovietici non meno che post reaganiani, racchiudono, o per meglio dire imprigionano: simili alla folla di curiosi che invade la scena (gioiosamente al primo atto, ferocemente al terzo), violiamo l’intimità degli ambienti più nascosti (il bagno dell’ufficio, il nascondiglio di Jenufa e del bambino), al tempo stesso voyeur e complici di una saga familiare in cui non c’è innocenza, neppure nella protagonista, naturalmente sensuale e costantemente sull’orlo di una crisi di nervi, e nel “suo” Laca (i loro incontri/scontri, nei finali del primo e del terzo atto, sono perfettamente speculari, segnati dalla dinamica implacabile del desiderio più violento e corrisposto). Paradossalmente, il personaggio più “razionale”, al tempo stesso dolente e davvero materno, è la Sagrestana, schiacciata (al pari di Laca, di cui condivide lo smarrimento alla notizia del mancato reclutamento di Steva) dall’ineluttabilità degli eventi, costretta al crimine più dalla propria debolezza che dalle ossessioni religiose, e che nel terzo atto appare davvero (come da libretto) devastata dal crimine commesso (la si direbbe invecchiata di anni e quasi coetanea della suocera), al punto che la confessione risulta, più che una liberazione, una semplice constatazione dell’ineluttabilità della propria fine. Jenufa18-4Una gestione perfetta dei singoli personaggi (con un rilievo inatteso conferito alla figura di Barena, innamorata respinta di Laca e quindi pronta a testimoniare in suo favore, deliberatamente e contro ogni evidenza, a proposito del ferimento di Jenufa) e delle masse corali (soprattutto al primo atto), immagini lineari che si stagliano con immediata efficacia (il cambio scena dal secondo al terzo atto, eseguiti senza pausa, è rapido quanto spettacolare, risultando nel ribaltamento di prospettiva, con rotazione di 180 gradi, del medesimo interno), mentre le due ore abbondanti di spettacolo letteralmente volano senza che sia possibile rendersene conto. Merito anche della direzione di Tomas Netopil, che potrebbe essere più incisiva al primo atto, un po’ a corto di mordente, ma nella seconda parte dello spettacolo riesce a cogliere, senza melensaggini e gratuite truculenze, il clima di cupa tragedia, che neppure il tenero epilogo (qui spogliato di ogni parvenza consolatoria e idilliaca) riesce a dissipare. L’orchestra e il coro olandesi rendono pienamente giustizia alla partitura. Non altrettanto si può dire dei solisti, soprattutto per quanto riguarda il versante femminile. Sebbene Annette Dasch ed Evelyn Herlitzius risultino infinitamente più a proprio agio in questo repertorio rispetto a quello wagneriano, di cui passano per interpreti di riferimento, nessuna delle due possiede, nel registro centrale, un’ampiezza sufficiente a scandire con incisività il testo sovrastando un’orchestra che non sarà gigantesca, ma ha comunque dimensioni e densità di tutto rispetto. In più, le sporadiche incursioni in acuto si risolvono in suoni duri e fissi (Dasch) oppure fiochi e stonati (Herlitzius). Risulta paradossalmente più solida e sonora, pur nell’usura del mezzo, Hanna Schwarz. Fra i due tenori rivali, meglio il Laca di Pavel Cernoch (irriconoscibile rispetto alla faticosa Damnation de Faust romana), buona voce e valida presenza scenica, dello Steva di Norman Reinhardt, il cui canto risulta spesso faticoso e opaco. Al di là del contributo dei singoli, spicca soprattutto un eccellente lavoro di squadra, in cui ogni elemento concorre alla realizzazione di uno spettacolo compiuto, coerente e affascinante: aggettivi che, occorre ribadirlo, ben di rado si ha l’occasione di utilizzare per le dispendiose pagliacciate di casa nostra.

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19 pensieri su “Una vita difficile: Jenufa ad Amsterdam.

  1. Invece siete benemeriti e mi avete seriamente convinto che è meglio muoversi anziché farsi spennare portafoglio e timpani in patria. Vi invidio solo un poco ma visto che questo anno mamma Scala non mi avrà tra gli abbonati al masochismo …vista la raccapricciante stagione prossima ventura forse mi rifaccio .Comunque il vostro archivio e prezioso e siete socialmente utili e benemeriti. Il reato è tutta invidia… Salutate il sor Pereira per me. Vale

  2. io ad esempio. leggo sempre tutto…magari non subito perchè il tempo è pochissimo e alcuni articoli meritano ascolti attenti. grazie a tutti e non fatevi mai venire il dubbio che i lettori manchino, pur se silenziosi…

  3. Scusate ma vorrei sorvolare perché giulio77 ormai é un hater conclamato. A parte questa parentesi da bimbominkia riflettiamo sul fatto che Giulio vi legge e quindi qualcosa l’apprende grazie a voi. Non é una cosa meravigliosa?

  4. Vi seguo da anni e vi ringrazio per gli articoli sempre ben argomentati e i numerosi ascolti rari che proponete. Grazie alle analisi delle opere e al confronto di interpreti, mi avete consentito di diventare da semplice appassionata di lirica un’ascoltatrice un poco più competente. Mi mancano molto gli articoli e i commenti di Giulia Grisi. Mi auguro che torni a scrivere presto e più frequentemente!

  5. Io è ormai un anno che seguirò questo blog e ringrazio tutti colo che scrivono perché offrono molto: un punto di vista accurato e preciso, la possibilità di un confronto con persone accumunate dall’amore per l’opera e la conoscenze di informazioni preziose in molto casi. Ogni tanto non sono d’accordo con quanto scritto ma penso sia normale e giusto così. Vediamo ora con la nuova stagione alla scala che a me non pare così raccapricciante: ha saputo coniugare abbastanza bene ricercatezza (con Mussorsgky e Strauss che era da un po’ assente) e scelte più commerciali, componenti che secondo me ci devono essere sempre in una stagione per venire incontro ad un pubblico che è molto eterogeneo. Così è sempre stato da quando è nato il repertorio da tradizione con la diminuzione progressiva delle nuove uscite. Io mi chiedo perché nessuno riesca più ad essere un nuovo Ricordi e a incentivare nuovi compositori.

    • In realtà la musica contemporanea produce ancora nuove opere vedi Sciarrino in Scala ma obiettivamente non sono opere che incassano. Anni fa andai a Bologna a un concerto di musiche Di Maderna e la sala era vuota forse perché la sede era il conservatorio ma comunque rientrava in un ciclo Di concerti organizzato in città e a lui dedicato e quindi non é positivo. Alla fine quindi quello che interessa oggi é battere cassa a prescindere dalla qualità ma del resto anche in passato chi non incontrava i favori del pubblico doveva vedersela con gli impresari e editori. E quindi la musica nuova trova sfogo in realtà da noi quasi di nicchia per quanto riguarda affluenza e partecipazione ma in Germania ha dei festival interi dedicati e i compositori li senti alla radio e hanno un peso che anche i nostri non hanno in Italia.

  6. A parte quando, da buona divinità fluviale, sono in piena, io leggo sempre gli articoli della Grisi!
    Io per la prossima stagione della “Scala” non vorrei perdermi “Da tempeste il legno infranto” cantato dalla cocorita impazzita. Un must!

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