John Osborn fa furore nel Tell romano… (ma i sogni svaniscono all’alba… vedi commenti)


Il Guglielmo Tell allestito all’Auditorium romano (la prima sabato 24 novembre) ha visto il trionfo del giovane tenore statunitense John Osborn, che ha accettato di sostenere la parte di Arnoldo (rifiutata da molti illustri colleghi all’uopo contattati dalla Sovrintendenza di Santa Cecilia) e ha dimostrato che l’”impossibile” parte creata da Nourrit figlio può essere cantata con voce timbricamente non irresistibile ma piena, virile, squillante, capace di svettare sull’orchestra e riempire una sala di 2800 posti.
Dopo un primo atto all’insegna della prudenza e un duetto con Matilde che lo vede quasi titubante (e con una Matilde del genere, era il minimo che poteva capitargli), dal terzetto in poi le cose cambiano in modo deciso e decisivo: l’interprete si libera del reverenziale timore che lo bloccava, smette di giocare al risparmio e disegna un personaggio forse non sfumatissimo ma avvicente nella sua baldanza giovanile e nella malinconia delle mezzevoci (che sono mezzevoci, e non gli abituali suoni stimbrati), nel vigore della coloratura e nello splendore di un registro acuto che teme, oggi, pochi termini di paragone. Insomma fa piacere poter applaudire, per una volta, il risultato canoro e non solo il coraggio (o la temerarietà) dell’interprete. E fa piacere constatare come oggi, a differenza di quanto ancora avveniva solo pochi mesi fa, anche i media (radio in primis) accettino l’idea che possa esistere un’alternativa plausibile all’esangue modello di canto rossiniano attualmente imperante.
Non siamo altrettanto entusiasti del Guglielmo di Michele Pertusi, che sembra funzionare a corrente alternata, alternando momenti di sobria ancorché non variegatissima intensità (l’assolo del terzo atto) ad altri in cui il valoroso ribelle svizzero è ridotto a inerte figurina Liebig, complice una voce nobile ma spesso indietro, “inscatolata” e fuori fuoco (sarà stata la stanchezza dovuta alle contemporanee prove del Mosè in Egitto al Teatro dell’Opera?). Ben si adattano a questa concezione diciamo così “da camera”, graziosa ma incongrua se applicata alla maestosità del nascente Grand-Opéra, altri interpreti quali il Walter di Alex Esposito e l’Edwige di Laura Polverelli, che malgrado i contorcimenti e le smorfie ben di rado risultano udibili in assolo (e figuriamoci nei concertati).
Una bella sorpresa è Ellie Dehn quale Jemmy: una voce leggera e cristallina, non pastosissima al centro, che però salendo acquista spessore e armonici, stagliandosi senza patemi sui più densi “pieni” orchestrali, per giunta attenta a contenere il più possibile quei bamboleggiamenti che sono, per il personaggio, semplicemente letali. Una segnalazione merita anche Celso Albelo, che dopo un esordio incerto (eufemismo: era proprio una stecca) regala al suo Pescatore una voce ben proiettata e salda soprattutto in acuto, conferendo al cameo la rustica eleganza richiesta.
A Norah Amsellem, Matilde (sic), il programma di sala attribuisce, con involontaria e micidiale ironia, “un posto unico nel panorama operistico catturando il pubblico con la sua padronanza tecnica ed intensità drammatica”. Della padronanza tecnica abbiamo avuto ampia e incontrovertibile dimostrazione fin dalla sortita, cantata con voce intubata, fiati corti corti, coloratura dilettantesca e una tenuta assolutamente aleatoria dei pianissimi (talvolta discreti, più spesso spoggiati): quanto all’intensità drammatica, il top si è raggiunto, dopo un faticoso riassunto dell’aria del terzo atto, con l’invettiva inserita nel quadro della piazza d’Altorf, punteggiata da urla, pianti e stridore di denti.
Della direzione di Antonio Pappano ci piace sottolineare l’aspetto pimpante e solare, che riduce un po’ troppo spesso la romantica cornice elvetica a placido scenario disneyano, cui si aggiunge il fatto che la forma di concerto non è l’ideale, per un’opera come questa che tanto giovamento trae da una grandiosa realizzazione visiva. È un Tell gagliardo, ben suonato (ottoni a parte) e con interventi corali di livello, ma la monumentalità e il mistero dimorano altrove (vedi soprattutto la scena della congiura, qui ridotta ad agreste merenda notturna sulle rive del lago dei Quattro Cantoni). È proprio questa mancanza d’incisività e tensione drammatica, al di là dei consistenti tagli, ad appannare il risultato complessivo.

2 pensieri su “John Osborn fa furore nel Tell romano… (ma i sogni svaniscono all’alba… vedi commenti)

  1. Spiace constatare che Osborn ha ballato una sola notte… o due al massimo… la diretta radiofonica della terza recita sottolinea una volta di più la pesantezza micidiale della parte. Il tenore risulta semplicemente irriconoscibile rispetto alla prima sera. Stanchezza? Crisi di nervi? Incapacità di governarsi? Direi un mix delle tre cose. Il Tell torna sugli scaffali… e ci eravamo illusi… ben ci sta.

  2. Ma c’è anche da dire che i tempi di Pappano erano micidiali e pazzi a Santa Cecilia nel programmare recite così ravvicinate… oltretutto senza il tempo di riposo che i balletti, tagliati, avrebbero fornito alla gola…

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