Airs d’Opéras Italiens, Natalie Dessay e il manierismo di una "primadonna"

Ho da poco concluso l’ascolto dell’ultima fatica discografica di Natalie Dessay: Airs d’Opéras Italiens. L’elegante cd, prodotto e distribuito dalla Virgin e già da qualche mese disponibile per il mercato europeo (almeno quello tedesco), verrà tra breve commercializzato anche in Italia: ben presto, quindi, ciascuno potrà verificare la bontà o meno di queste mie anticipazioni. L’ho ascoltato, dicevo, con “orecchie vergini”, senza pregiudizi, cioè, dovuti ad una certa antipatia personale o al fastidio per taluni atteggiamenti e vezzi interpretativi, in cui la diva ama indulgere assai frequentemente in questa che continuo a considerare una fase declinante della sua carriera.

Programma ambizioso, quello proposto dalla Dessay, solo a scorrere la track-list, infatti, “tremano le vene ai polsi”: si va da Violetta a Lucia, da Gilda a Elvira, da Maria Stuarda a Giulietta. Programma che tradisce da una parte un fine squisitamente promozionale, in quanto prodromico all’imminente debutto in Traviata, e quindi volto ad anticiparne la cifra interpretativa e a preparare l’ascoltatore futuro; dall’altra – ed è l’aspetto più interessante – vuole richiamare i grandi recitals delle primedonne assolute del recente passato (Sutherland, Caballè, Sills..), nel cui alveo la Dessay vuole (o spera o crede) essere annoverata. Aspirazione legittima, ma, a mio parere e per i motivi che di seguito esporrò, non giustificata.

Ho ascoltato con molta attenzione il cd e prima di dare un resoconto dettagliato dei brani proposti, voglio trarre due considerazioni preliminari. La prima è quella di una sensazione di generale gradevolezza del prodotto (che può essere una qualità e che non intendo negare). La seconda è che questa piacevolezza oltre che generale è alquanto generica: l’ascolto evidenzia, infatti, una certa piattezza interpretativa che dalla Dessay non mi sarei mai aspettato. Ogni personaggio è qui affrontato dal medesimo punto di vista, senza alcuna differenziazione psicologica (prima ancora che vocale): sembra che la diva utilizzi un’unica formula che riduce, nei fatti, Violetta ed Elvira, Lucia o Giulietta (personaggi tra loro diversissimi e che richiedono vocalità, temperamento e stili assai differenti) ad un solo prototipo che si può individuare in quello di una “desperate housewife” anzitempo. Una reductio alla quotidianità che non può avere alcuna efficacia se confrontato alla disperata sensualità di una Madamigella Valery, che vorrebbe addirittura “di voluttà nei vortici perire”, o all’orgogliosa nobiltà di una Stuarda prossima a scagliarsi rabbiosa contro la “figlia impura di Bolena” (per far solo un paio d’esempi). Ora applicare il medesimo approccio, il medesimo atteggiamento ad ogni ruolo affrontato, tramuta la personalità interpretativa (anche la più singolare e rivoluzionaria, come pretendono i suoi più fedeli ammiratori) in manierismo che, nel perpetuarsi identico a sé stesso, risulta scontato e noioso. Ecco, al termine dell’ascolto di Airs d’Opéras Italiens, il sentimento che prevale è la monotonia. Una monotonia ben confezionata, ben ripulita (anche se deve scontare l’accompagnamento talvolta greve del solito Pidò, che si è ormai conquistato – senza molte giustificazioni, secondo me – lo scettro di direttore belcantista), ma pur sempre noiosa.

Ma veniamo ora ai singoli brani. Si apre con Traviata: la grande scena che chiude il primo atto, anticipazione di come sarà la Violetta della Dessay. Dico subito che mi ha deluso. La sua lettura mostra, infatti, come sia ben diversa la vocalità verdiana rispetto a quella belcantista e come la voce della diva si trovi a disagio, come in un vestito di qualche taglia più grande. Corpo e potenza (necessari a reggere le ampie arcate verdiane) latitano, e non possono essere riscattati dalla pur presente accuratezza di emissione e dall’innegabile cura nel fraseggio. L’aria – che è il luogo che soffre maggiormente di questa mancanza – risulta così, impoverita, secca, minimale, “da salotto” direi. La Dessay gioca con pianissimi e rallentando (forse un pensiero alla Caballè?), ma non riesce a mascherare l’inadeguatezza verso una scrittura evidentemente troppo impegnativa. Gli acuti, così scoperti e scomodi, sono stirati, faticosi (e rimpiango qui la stessa cantante che nel ’95 interpretava un “Popoli di Tessaglia” superbo e di una sicurezza quasi insultante), ma è tutto il brano che denuncia una sensazione di affanno. L’abbandono lirico di “ah quell’amor..” è del tutto assente, sostituito da una freddezza intellettualistica, derivato da una lettura artificiosamente psichiatrica di Violetta, che fa a pugni con la musica di Verdi, che suggerirebbe l’insinuarsi della passione amorosa in una vita dedicata al vizio, piuttosto che un algido calcolo delle probabilità di un’affinità di coppia, fatto da una borghesotta di provincia che ha letto troppo Strindberg (come pare ascoltando la diva francese). La cabaletta invece, dove la Dessay può sfoggiare le sue innegabili doti tecniche e un approccio più belcantista, è decisamente migliore (anche se, purtroppo, inframezzata dalle urla di un Alagna che sbraca Alfredo come se fosse un compare Turiddu ancora più trucibaldo del solito), ma in più d’un’occasione si riscontra un certo effetto “coccodè” che ci riporta ad un nostalgico passato di leziosità salottiere che si credeva ormai estinto. Le stesse valutazioni possono essere riferite a Gilda e al suo “Gualtier Maldè…Caro Nome”. La Dessay riporta indietro nel tempo le lancette della storia interpretativa, segnando il ritorno a quelle Gilde evanescenti usignoli, prive di corpo e tutte protese ai ricami nell’acuto e ai picchettati, con poco o niente appena sotto. Nulla di male, ma certamente nulla di straordinario. Anche qui poi l’approccio al personaggio è esclusivamente psichiatrico: innocenza ed illusione vengono sostituiti, al solito, da una specie di delirio paranoide.

Se quindi, l’approdo a Verdi appare più un capriccio da diva e un azzardo, il rifugio nel repertorio più propriamente belcantista, seppur più sicuro, non risulta più convincente (ovviamente mi sto limitando a questo prodotto discografico, non sto giudicando la carriera della cantante). In particolare ne soffre Bellini: non c’è nulla, in realtà, di brutto o sbagliato o sgradevole, semplicemente non c’è proprio nulla. E’ un Bellini insipido ed innocuo, piacevole, ma per niente appagante. Elvira e Giulietta passano quasi inosservate, modeste, dimesse. Nella ricerca ossessiva di una lettura intellettualistica, di un “non detto” psicologico, che vorrebbe alludere a chissà quali problemi esistenziali (quasi fosse un copione di Bergman), si perde la centralità del canto e l’astrattezza della pura vocalità. Anche il virtuosismo, sempre misurato, è vittima di questo atteggiamento: variazioni minimaliste ed evocative di drammi e psicosi – dirà qualcuno – troppo comoda! – dico io: se il virtuosismo c’è, ha da essere “esibizionista”, ossia mostrare capacità tecniche spregiudicate e non comuni (come erano quelle della Dessay che più apprezzo). Poi potrà assumere caratteri differenti: da quello sfacciato e funambolico della Sills, a quello astratto e metafisico della Sutherland, diversi, ma pur sempre accomunati dall’elevato tasso acrobatico: la meraviglia del belcanto (e poi scusate: a che serve ripetere una cabaletta se non per mostrare tecnica trascendentale? Che valore psicologico volete che abbia un “da capo”?). Ancora una volta i personaggi scelti appaiono fuori misura e troppo gravosi (un conto è Sonnambula con la sua atmosfera agreste e la vena larmoyante, un altro conto Puritani, per cui si esige un ben diverso corpo, tonnellaggio e tempra) sia per gli aspetti vocali sia per l’interpretazione drammatica. Non si discute la capacità, teorica, di eseguire la parte integralmente (nessuno la può negare), piuttosto il problema è quello di renderla credibile. E qui l’ambizione della Dessay (legittima e comprensibile) deve pagare il conto alla realtà di uno strumento con dei limiti (umani, com’è ovvio) e all’incoscienza di voler cantare tutto. Ma tutto non si può o non si deve.

Donizetti è presente con Maria Stuarda e Lucia di Lammermoor (ruoli tra i più antitetici del catalogo del compositore bergamasco: stupisce l’accostamento). Stuarda è parte difficile e problematica, da maneggiare con estrema cautela (persino la Sutherland vi si avvicinò con riserbo), che richiede un centro pieno e corposo e dei bassi sicuri e consistenti. E’ parte, poi, che non può essere risolta con il solo virtuosismo (peraltro assai limitato), ma deve trovare la sua ragion d’essere nell’accento nobile, nella tenuta drammatica, nel temperamento. Qui la Dessay non appare affatto una regina orgogliosa e ferita, ma solo una donnetta pia e spaesata che si abbandona, salmodiando nenie e cantilene, ad una provvidenza quasi manzoniana. Un’esecuzione bonsai, quindi ridotta ai minimi termini: un pensiero debole del belcanto. Taccio poi dell’imperdonabile caduta di gusto nel piazzare quel paio di puntature nel bel mezzo della cabaletta, più prossime al fischio che al canto. Il cd si chiude, infine, con uno dei cavalli di battaglia della cantante francese: la pazzia di Lucia. Non c’è da soffermarsi molto su di una interpretazione già ampiamente conosciuta e discussa (e discutibile). Spiace constatare la presenza (incomprensibile qui, lontana dal palco e dalle consuete accette insanguinate e vasche per abluzioni) del solito urlo belluino prima della cabaletta. Sempre brutto, sempre inutile, sempre offensivo. Detto questo, devo dire che la diva si trova molto più a suo agio qui che in Verdi o Bellini. Soprattutto, senza certe degenerazioni sceniche, vengono evitati gli eccessi attoriali che generano quei suoni non proprio belli e poco ortodossi che spesso ci è dato ascoltare nelle sue esecuzioni live. Null’altro da aggiungere, direi, se non l’utilizzo della glass-harmonica e la presenza della cadenza di tradizione (ma stranamente non vi è alcun inserto strumentale: è la Dessay stessa a sostituirsi al flauto solista all’inizio della cadenza in un improbabile e un tantino grottesco “duetto a uno”).

Un cenno lo merita però l’orchestra. Pidò dirige i complessi “filologici” del Concerto Köln (già utilizzati dal baroccaro Jacobs) che dimostrano tutta l’assurdità dell’uso di strumenti finto originali per un repertorio di questo genere: ora, se già sono discutibili in Mozart, figuriamoci come possono “suonare” nel melodramma di metà ‘800. Rigoletto e Traviata sono datate rispettivamente 1851 e 1853, negli stessi anni Wagner rappresentava Lohengrin, Meyerbeer metteva in scena Le Prophéte e Dinorah, Berlioz scriveva Les Troyens. Che ragioni ci sono quindi per suoni secchi e stimbrati, privi di vibrato e dalla dinamica poverissima? Perchè quei violini fissi e stridenti come gesso sulla lavagna? Che c’entrano i fiati naturali e incontrollabili con Verdi? A nessuno, dotato di ragione, verrebbe in mente di usare strumenti barocchi per accompagnare “Nun sei bedankt, mein lieber Schwan” (oppure, tanto per rendere l’idea, eseguire gli Studi Trascendentali di Liszt su di un “bel” fortepiano), eppure Pidò dirige copie di violini della metà del ‘700 per “Sempre libera degg’io”. Il risultato è necessariamente grottesco e orribile allo stesso tempo. Ma qui mi fermo perchè di filologia e period instruments ho già parlato e diffusamente in altre sedi.

In conclusione: un cd piacevole e ben confenzionato, ma sostanzialmente inutile e che non segna alcuna rivoluzione o svolta. Che avrebbe, forse, potuto avere un senso con la Dessay di 10 anni fa (e pure allora sarebbe comunque risultato una curiosità ed un fuori repertorio), ma che adesso non aggiunge proprio nulla alla sua carriera. Una scelta di brani troppo ambiziosa rispetto alle caratteristiche vocali, reali e attuali, della diva, e che pone più di un dubbio sull’imminente approdo verdiano.


G. Verdi – Rigoletto

Caro nomeLina Pagliughi
Sì, vendetta, tremenda vendettaCarlo Tagliabue & Lina Pagliughi

7 pensieri su “Airs d’Opéras Italiens, Natalie Dessay e il manierismo di una "primadonna"

  1. Per un Otello con strumenti “antichi” non ci sarà molto da aspettare visto e considerato che l’etichetta francese zig-zag ha già publicato composizioni di Ravel e Rimsky-Korsakof diretti dal baroccaro e fortepianista Immersel alla guida della sua orchestruccia scalcinata che ha la pretesa di chiamarsi niente meno che Anima Eterna. Già un Vascello fantasma era stato inciso anni fa’ da Bruno Weil su strumenti “antichi”. Comunque non sono stati usati strumenti barocchi bensì strumenti dell’ottocento, come penso abbiano usato strumenti dell’ottocento, e non del settecento, i membri del Concerto Köln in questa registrazione. Si deve pensare che gli strumenti come li conosciamo oggi datano del periodo che è situato fra le due guerre, gli strumenti dell’ottocento hanno caratteristiche diverse da quelli barocchi, ma sono anche diversi da quelli di oggi. Come è stato rilevato, in questo tipo di “prestazioni”, si avverte una povertà della dinamica, essa dipende molto (ma non solo) dagli strumenti perchè, contrariamente a quello che professano i baroccanti (e per baroccanti intendo coloro che sono fissati con gli strumnti “antichi” qualunque sia l’epoca), gli strumenti musicali hanno subito, attraverso i secoli, cambiamenti che coincidono con miglioramenti proprio per poterne aumentare la prestazione a livello di tenuta dell’intonazione, omogeneità del suono, bellezza e richezza timbrica e grandi possibilità dinamiche ed espressive. Invece il fatto che il suono risulti duro, fisso e stimbrato è dovuto più che altro al modo di suonarli : Roger Norrington (“musicista” di gusto baroccante e mentalità baroccara), coll’orchestra della radio di Stoccarda, ottiene gli stessi suoni duri, fissi, stimbrati ed inespressivi con strumenti moderni allorché Kreisler, che suonava su corde di budello come si è sempre fatto fino alla seconda guerra, otteneva un suono morbido, timbrato ed espressivo. Il suono miserabile e il modo di suonare meccanico delle orchestrine baroccare non è solo dovuto dagli strumenti ma è proprio dal modo di suonarli, poichè vibrato e articolazione sono opera dello strumentista e non dello strumento e questo perchè i baroccanti hanno studiato (dicono loro) i trattati antichi più che altro per interpretarli a loro modo, spesso travisandoli, collo scopo di trovarci una giustificazione al loro gusto personalissimo e di estrazione anglo-olandese e in parte anche francese, che ha in orrore i suoni timbrati e ricchi di vibrazioni.
    Per ritornare alla prestazione del Concerto Köln in questo recital specifico personalmente penso che si addica benissimo alla prestazione della Dessay. La Dessay, anche prima della sua fase declinante, quando cantava Popoli di Tessaglia in maniera sfrontata (ma anche vocalmente arida e lontana da quella italianità che è tipica della musica vocale mozartiana), era comunque una voce bianca, priva di colori e di rotondità, quindi inadatta al repertorio italiano. Persino sui fori francesi si puo leggere spesso che i suoi compatrioti la considerano molto brava nel repertorio francese ma assolutamente estranea, come vocalità, al repertorio italiano, proprio per questa mancanza di calore, di rotondità e di colori.

  2. Non posso che essere d’accordo con te, Semolino. Sia per ciò che concerne l’evoluzione degli strumenti musicali (che coincise con un vero e proprio “miglioramento” checchè ne dicano i fanatici del “period instrument), sia per ciò che dici circa il modo di suonare gli strumenti, antichi o moderni che siano. E’ verissimo che Norrington anche con un’orchestra “moderna” produrrà un suono arido, così come Uto Ughi, con un Guarneri del Gesù, saprà esprimere sfumature e morbidezze. Il tipo di strumento è, quindi, solo una parte del problema. Pure per quel che riguarda la Dessay sono sostanzialmente d’accordo con te: anche se ritengo il suo disco mozartiano (parlo delle arie da concerto) un grande disco. La Dessay lì (pur con la freddezza che le è tipica) dava una lettura plausibile ed astratta di quei brani (ad esempio “Popoli di Tessaglia”), complice – naturalmente – il magistero tecnico che, allora, suppliva a certe innegabili durezze. Del resto si inseriva perfettamente in una certa tradizione “tedesca” del canto mozartiano (in cui farei rientrare la Gruberova – anch’essa artefice di un incredibile “Popoli di Tessaglia”, per mio conto il migliore mai inciso). Certo suona poco “italiano”, ma finchè c’era la tecnica e la spericolatezza di agilità ed acuti, suonava un gran bene. Ora che la spregiudicatezza e la sicurezza è venuta meno, e la voce si è alleggerita, l’aridità si percepisce maggiormente (ed in Verdi la fa naufragare, mancando anche corpo e fiati). Circa le incisioni di Anima Eterna: mi hanno sempre suscitato grande ilarità per l’altisonanza degli intenti e l’estrema povertà dei risultati. Sull’Olandese di Bruno Weill “on period instrument” ci sarebbe da aprire un lungo ragionamento che abbraccerebbe oltre alla scelta grottesca di strumenti originali (non importa se ottocenteschi e pertinenti, ma comunque suonati come se si trattasse di Telemann, ignorando ogni slancio romantico), anche la scelta testuale (Weill recupera, sostanzialmente, la prima stesura di Wagner, un abbozzo mai pubblicato o licenziato dall’autore…insomma con questo il direttore/pseudo filologo si arroga il diritto di spulciare nel “cestino degli scarti” di Wagner e recuperare ciò che egli ha deliberatamente scartato). Infine su Concerto Koln. Tu scrivi che in effetti avrebbero utilizzato non strumenti settecenteschi – come ho scritto io polemicamente – ma copie ottocentesche. Può essere (purtroppo non ho l’elenco degli strumenti suonati, come accade invece spesso per altre incisioni), ma dalla mia esperienza può anche non essere. Ti faccio un esempio chiarificatore: la Lucia di Lammermoor incisa da Mackerras per la Sony, su strumenti originali. Scorrendo il libretto d’accompagnamento si incappa in una pagina dedicata all’orchestra dove vengono elencati gli strumenti utilizzati con relativa datazione. Ebbene, le scoperte sono “interessanti”. Tenuto conto che la Lucia è datata 1835, si trovano quasi esclusivamente violini della metà del ‘700, una viola addirittura del 1690 (le altre tutte del ‘700), idem violoncelli e contrabbassi, i legni e i corni arrivano al 1810, con le trombe siamo al 1820 (ma una è datata 1720), e poi il capolavoro, un’arpa del 1920! Ora tutto questo cosa c’entra con il periodo in cui fu composta Lucia? Ritengo davvero che lo strumento originale sia più un’ideologia che una seria ricerca filologica.

  3. L’articolo sulle arie italiane recentemente incise dalla Dessay e la divagazione sull’uso degli strumenti antichi mi porta ad alcune considerazioni, che cercherò di sintetizzare al massimo (per quanto mi è possibile!!!).
    1. Non ho dubbio sul fatto che la Dessay sia l’unica cantante dei nostri tempi che abbia lasciato una traccia duratura nell’arida (dal punto di vista qualitativo) discografia dei nostri tempi: si è fatto cenno al disco delle arie da concerto di Mozart – a mio parere un capolavoro assoluto – nel quale, però, più che il Popoli di Tessaglia, brilla la splendida “Mia speranza adorata”. Sul Popoli di Tessaglia mi piace sottolineare che il recitativo sta largo anche a una grande come la Gruberova (e a tutte le voci di quella taglia); direi, forse, che la migliore esecuzione dell’aria “medeica” nel suo complesso (al di là dei sol sovracuti), soprattutto per l’aderenza allo spirito che la anima, è quella della Moser (che ha inciso anche una splendida “Sperai vicino il lido”, a mio parere un altro capolavoro assoluto dell’esimia interprete). Ma oltre al cd delle arie da concerto della Dessay, non si possono non ricordare lo splendido album intitolato “Vocalises”, il quale contiene esecuzioni memorabili come il “Les filles de Cadix” (con un finale strabiliante… una Mado Robin moderna, priva degli eccessi nasaleggianti della cantante degli anni 50) e il concerto di Gliere per soprano e orchestra (a mio modesto parere superiore a quello della Sutherland, pur nella minore consistenza dei mezzi vocali della Dessay, se non altro per alcune scelte “ad effetto” di indubbia presa sull’ascoltatore, come ad esempio il fa sovracuto nel finale del III movimento, che si staglia incontrastato, nel panorama delle incisioni del pezzo di Gliere, con la sua superba insolenza, arrotondato alla perfezione come se fosse un sib… Non dimentichiamo che quello di Gliere è un concerto, per cui la voce è come uno strumento che deve “suonare”, “semplicemente” suonare… come se fosse semplice!!!), e il cd di arie francesi, con una splendida esecuzione di Ombre legere, che può veramente stare vicino a quelle, assolutamente storiche, della Callas, della Sutherland e della Sills (il lab sovracuto che la Dessay raggiunge nel finale dell’aria è strabiliante… Mi si permetta di dire che gli strilletti nasali della Robin letteralmente scompaiono di fronte al suono perfettamente arrotondato e tenuto della Dessay… Un lab sovracuto!!! Cose da leggenda!!!), e quella vera e propria gemma che è l’interpretazione dell’aria di Ofelia, vera “estasi” allucinatoria, pur nella sostanziale limitatezza della voce della Dessay, che però imposta, a mio parere giustamente, l’interpretazione di Ofelia tutta su un lato che mi viene da definire “infantile”, il quale si sposa molto bene con la sua voce essenzialmente bianchiccia e monocromatica. Questi pochi esempi bastano, secondo me, a far meritare alla Dessay un posto di rilievo tra i cantanti storici, se non altro perchè l’essenza di un grande cantante, oltre che nell’assoluto dominio del proprio mezzo vocale con la tecnica, sta proprio nel far apparire all’ascoltatore il personaggio che interpreta come “giusto”, ovvero quasi in maniera automatica perfettamente aderente alla musica e all’azione che si svolge sulla scena (Chanel diceva che l’eleganza è tale quando passa inosservata… L’interprete è grande se la sua persona passa inosservata di fronte al personaggio che interpreta; ma bisogna veramente avere una grande personalità per riuscire a far ciò!!!)… E la Dessay in quei cd mi è apparsa proprio così… Per cui se quello che ho cercato di evidenziare fa un grande cantante, posso dire che la Dessay lo è stata (e sorvolo sulle capacità tecniche che emergono dai suoi cd prima del 2002, un miraggio nel desolante deserto dell’oggi).
    2. Voglio ricordare che la Dessay ha subito un intervento molto delicato alle corde vocali, e mi sembra di poter dire che un certo declino vocale è iniziato a manifestarsi dopo quella vicenda… Non voglio speculare troppo, però non so quanti cantanti – dopo un intervento di quel tipo – a livello psicologico (lo sottolineo; sappiamo che a livello fisico le corde vocali nel canto sono l’ultima parte di un processo molto più complesso!!!!) avrebbero retto a un evento del genere… Con questo non voglio mettere da parte un declino vocale che comunque nella Dessay appare in maniera quasi palmare (la sua recente incisione di sonnambula è stata una grande delusione…); ma ogni cantante ha avuto il suo declino, e quello della Dessay non mi sembra meno decoroso di altre, anche grandi (e grandissime) del passato (e qui mi taccio… Ma non posso non ricordare una certa Leyla Gencer, recentemente scomparsa, r.i.p., che ha lasciato memoria di una Elisabetta di Rossini a dir poco scandalosa).
    3. Per quanto concerne l’uso degli strumenti originali, è vero che oggi si assiste a un vero e proprio eccesso. E’ vero che spesso si odono orchestrine smunte e acidule, con archi che grattano maledettamente. Ma questo non può fungere da pretesto per dimenticare gli orrori di quelle epoche che taluni nostalgici definiscono “età dell’oro”. Come dimenticare gli scempi perpetrati ai danni della grandissima musica di un Verdi (i cui accompagnamenti, nella norma dei teatri degli anni 50-60, i De Sabata, i Giulini e i Karajan erano l’eccezione, erano ridotti a tenui valzerini alla um-pa-pa… Ma per favore… Ascoltate quello scempio che è Il trovatore diretto da Previtali a Roma, anno 1958, dove la Gencer e Del Monaco fanno a gara per cercare di trasformare la Spagna trobadorica nella Sicilia di Compare Turiddu, il tutto allegramente avallato dal direttore…). In fondo, al di là dei singoli casi di orchestre più o meno brave, è indubbio che l’uso degli strumenti originali denota comunque una certa attenzione all’orchestra e agli strumenti che la compngono, e tutto ciò perchè si è definitivamente assunto che l’opera non è solo VOCE, ma è un complesso equilibrio, dove tutti gli elementi sono importanti per il risultato finale.
    Purtroppo oggi non si assiste a un uguale sforzo per quanto concerne l’aspetto vocale-interpretativo (li metto insieme perchè nell’opera questi due elementi sono un vero e proprio sinolo): o si privilegia l’aspetto vocale del cantante (e ci troviamo di fronte a vere e proprie macchine, che per giunta vengono “scassate” dopo poco perchè costrette a circuiti da relly, anche se sono delle ferrari), o quello pseudo-interpretativo (gli orrori di regie improponibili, ambientazioni che violentano il testo… Ciò non significa che non si possano attualizzare le opere o creare collegamenti speculari tra diverse epoche storiche… Peter Sellars per me rimane un genio!!!). L’opera è un complesso equilibrio… E solo aderendo a questo equilibrio emerge il capolavoro che è celato nello spartito (si pensi al Macbeth diretto da Abbado alla Scala… Orchestra, coro, solisti, regia… Il tutto in un meraviglioso equilibrio che ha fatto emergere un’opera assoluta, suprema…)
    Chiedo scusa per la lunghezza… Ma le vostre osservazioni stimolano molto… Grazie di cuore

  4. caro velluti,
    vedrò di essere in questa risposta sintetico e toscaniniano. Anche se preferisco altri direttori come Mancinelli, Mugnone e Luigi Arditi.
    Quanto a Madame Dessay, che ho applaudito anni or sono Olimpya nei contes prima parigini e poi milanesi, non me la sento di condividere tanto entusiasmo.
    Il fatto noto e risaputo che Madame Dessay sia stata sottoposta ad un intervento chirurgico alle corde vocali (oggi comune a tutti i divi, un tempo assolutamente ignoto anche a veri stakanovisti del palcoscenico come Fiorenza Cossotto o Carlo Bergonzi) è la dimostrazione di una tecnica non ortodossa. Le cui conseguenza tutte vediano e di cui il declino precoce (perchè alla sua età le signore Sutherland, Gruberova e Sills godevano di indiscutibile salute vocale) è la dimostrazione.
    Credo, poi, che il repertorio della signora Dessay non ammetta sgrammaticature e cadute di gusto, spacciate per interpretazione.
    E siccome di suprema interprete si ritiene di parlare con riferimento a Natalie Dessay mi pare che dal confronto con Beverly Sills (non a caso lascio dove sta Joan Sutherland) la Dessay esca sempre ridimensionata, più il tempo passa.
    Quanto poi ai sovracuti un tempo interpolati mi lasciano assolutamente indifferente. Mi fanno molta più impressione nell’acrobazia pure le scale di trilli, le note ribattute, certe serie di staccati eseguiti con voce piena e mordente (penso alla Sutherland nel Legere hirondelle o nella chiusa dell’air du pupé)per tacere, poi, di terzine e quartine vocalizzate o delle volate. Tali forme di virtuosismo, tipiche della vocalità rossiniana o para rossiniana hanno sempre visto una modesta esecuzione da parte della Dessay. Vedi la cavatina di Adele del Conte Ory.
    2) sugli strumenti originali, mi limito a rilevare che è un assoluto non senso riferito ad un’aria di donizetti eseguirla con strumenti del 1750 e poi l’osservazione di un povero ignorante. Quanto i maggiori violinisti o violisti o violoncellisti utilizzano i loro Guarnieri del Gesù, Amati, Stradivari e parlo dei maggiori in carriera e del passato non mi è mai capitato di sentire suoni aciduli, agucchiosi, sfibrati e secchi.
    Delle due o i vari Stern, Oistrack, Ruggero Ricci non utilizzavano lo strumento che dicevano di utilizzare oppure i baroccari non sanno o non vogliono suonare.
    3) quanto alle orchestre, preciso che giro il mondo e l’Italia dal 1980 per vedere l’opera. Se penso alla qualità del suono delle orchestre di Venezia, Genova e Torino di quegli anni la banda d’Affori era i Berliner. Ma parliamo di qualità del suono non di idee direttoriali.
    Con le loro pesantezze, le loro toscaninate, magari le liti con le primedonne (Horne al primo posto) sui tagli e sulle varianti ( le fecero anche Abbado e la sopracitata signora) i loro spettacoli erano coordinati e coerenti, non capitava come è la attuale regola che dal palcoscenico qualche navigata primadonna o qualche altra musicista di rango invitassero a tenere l’orchestra. Seguire il cantante e non schiacciarlo era la aurea (serafiniana) regola.
    grazie veramente tanto dell’intervento.
    attendo il prossimo. A brevissimo
    domenico.

  5. Capisco il campanilismo italiano, ma paragonare orchestre di provincia con i Berliner degli anni 80 mi sembra davvero eccessivo. Quanto al virtuosismo, voglio sottolineare che quello rossiniano non è l’unico virtuosismo possibile; e non a caso la Dessay interpreta egregiamente Mozart e il repertorio francese, e non mi risulta – al di là del Comte Ory, e in recital – che abbia mai affrontato il repertorio rossiniano. Ma riguardo agli staccati, ti consiglio di ascoltare come la Dessay esegue la splendida aria dell’Ascanio in Alba di Mozart, Dal tuo seno fortunato, con una ripresa piena di staccati ascendenti e (cosa difficile da eseguire) discendenti.
    E’ vero che la Dessay è in precoce declino vocale, ma non si può non ricordare che la stessa Sills, già negli anni 70, non godeva affatto di buona salute vocale, per via di quel vezzo che aveva di cantare con un centrale perennemente aperto, proprio per ovviare al problema di un centro in fondo piccolo e linfatico, a dispetto dello strabiliante registro acuto e sovracuto (almeno fino al re; già il mib della Sills era piuttosto sforzato…). Ti prego di ascoltare incisioni della Sills come Traviata e Rigoletto, dove si assiste all’incedere di una voce tutto sommato grigia e povera di colori, dal timbro anche piuttosto brutto. Capisco che i miti sono miti, e per questo non si dovrebbero toccare… Ma ascoltare la Sills in quelle condizioni (è una cantante che adoro; la sua Elisabetta nel Roberto è un capolavoro assoluto) è un vero strazio. Per quanto concerne le operazioni alle corde vocali della Sills, dire che questo è segno di una tecnica non ortodossa mi sembra puerile… Le incisioni della Dessay degli anni 90 dimostrano che per legato, appoggio sul fiato, immascheramento e emissione la Dessay era assolutamente a posto… Poi non so se tu hai avuto modo di toccarle le costole mentre canta per appurare se la respirazione che mette in atto sia quella “ortodossa” (dovrai spiegarmi però se anche la Gencer era tecnicamente ortodossa… Sentire cantare “la regIUna, la regIUna di Inghilterra” è davvero terribile… Il colpo di glottide è presente nella tradizione di canto ottocentesca, ma solo in determinate condizioni… la Gencer lo usava praticamente sempre per salire agli acuti). Non si può ritenere che il declino precoce sia segno di scarsa tecnica vocale: posso citarti a iosa di esempi che non confermano la regola (in primis Callas, che tutto si può dire, tranne che non avesse grande tecnica, ma anche Scotto, dopo gli anni 70 è un giacomo giacomo continuo sugli acuti, ecc.). Credo che il declino, almeno in alcuni casi, possa dipendere da altri fattori, come predisposizione dell’organo fonico o caduta muscolare…

  6. Concordo pienamente e in ogni particolare con quanto è stato scritto. Vorrei anzi dire che dopo la morte del sempre rimpianto Celletti, il "Corriere della Grisi" è diventato la tribuna dalla quale mi sento mi fedelmente espresso nei miei gusti e nelle mie opinioni. Quindi, complimenti calorosissimi e auguri per il futuro. In un mondo di ciarlatani e di critici improvvisati, fa piacere leggere critiche capillari e fondate su una perfetta cognizione di causa. Adesso vorrei muovere -in tutta modestia- un piccolissimo rilevo linguistico (si tratterà senza dubbio di una svista o di un errore di battitura): la citazione dantesca precisa è "far tremar le vene e i polsi", perché per polsi si intendono le arterie (vene e polsi=vene e arterie) e quindi la frase vale: "far tremare tutto l'organismo, sconvolgere la fabbrica umana nel suo complesso". Chiedo mille volte scusa per questa insignificante puntualizzazione e rinnovo i miei complimenti al "Corriere" che è divenuto la mia stella polare".

Lascia un commento