Mese di agosto VI – Cenerentola dal ROF

La terza ripresa di Cenerentola nell’allestimento di Luca Ronconi con camini, grattacieli e cicogne che trasportano infelici fanciulle alle feste, nonché trzo spettacolo dell’edizione 2010 del ROF è stato lo spettacolo meglio riusciuto. Questo secondo il principio, oggi di frequente realizzato che la fortuna non aiuta gli audaci ma gli incompetenti. Mi spiego con una incompetenza , che non sa solo di incapacità, ma anche di altro la dirigenza del festival aveva scritturato dopo la mediocre pretazione quale protagonista di Zelmira dell’anno passato Kate Aldrich. Errare humanun est perseverare demoniacum, adagio assai realizzato in Pesaro bastando pensare alla protagonista del Demetrio, pessima Adele e disastrosa Lisinga.

Sicchè a prove iniziate o quasi dopo una stagione almeno nei teatri italiani disastrosa (Elisabetta Tudor a Palermo e due recite di Rosina in Scala salutate da sonori fischi) la prescelta, ufficialmente in dolce attesa ha gettato la spugna (gesto che sul ring compete anche all’allenatore, però!) ed è arrivata a sostituirla Marianna Pizzolato, mezzosoprano spesso utilizzata a Pesaro e per sostituzioni dell’ultim’ora ( Tancredi del 2004) e per ruoli di contralto come Andromaca di Ermione ed Emma di Zelmira, che incentivano i suoi limiti, anziché indurla a superarli. E la scelta dell’ultima ora, a conti fatti e difetti pur esistenti, è stata di gran lunga superiore all’originale e, tanto per completezza il miglior mezzo soprano schierato in quest’edizione dal festival.
Nella nostra chat, sempre attiva e stimolante durante le trasmissioni che contano, qualcuno ha parlato di una direzione d’orchestra pesante e rumorosa oltre che troppo veloce. Non sono affatto d’accordo. E mi spiego. Cenerentola è l’ultimo titolo ufficialmente comico di Rossini, i personaggi, però, parlano anzi cantano il linguaggio del dramma serio e credo che proprio da questa caratteristica nasca buona parte della componente comica, che poi spetta a Dandini e don Magnifico, del titolo rossiniano. Il che significa che toni e colori debbono essere quelli del magniloquente dramma serio rossiniano. In questo il direttore ha fatto centro pienamente. Solo che oggi e lo abbiamo sentito nelle due serate precedenti il dramma serio rossiniano viene eseguito con sonorità e colori, che competono alla farsa e agli intermezzi napoletani di cent’anni precedenti. Chiaro che chi sia abituato a questa distorsione viva come distorsione le sonorità ed i tempi scelti da Abel. Tanto per richiamare qualche momento della realizzazione l’introduzione a Dandini travestito, il must della parodia dell’opera seria, giustamente solenne e pomposa, vibrante e pulsante la sezione centrale del quintetto “nel volto estatico”, scatenata, anche se un poco pesante, la stretta e pure la scena di don Magnifico cantiniere, mentre il duettino Dandini don Ramiro è vivacissimo, anche se non leggero, il concertato finale atto primo è velocissimo e mozzafiato, al secondo atto l’accompagnamento del duetto fra i buffi è sostenuto e vibrante, anche se i cantanti sono, Dandini in primis, impari al compito, il famoso temporale è veramente procelloso alla faccia del fatto che l’opera sia qualificata comica. In questo la scelta è veramente rossiniana, credo, perché l’arte tutta ideale del maestro non può certo patire la differenza fra il temporale in un titolo comico o in uno tragico Trattasi nell’ottica rossiniana sempre e solo di temporale.
In più devo aggiungere che Abel ha tenuto sempre in pugno l’orchestra non l’ha mai persa nei numerosi assieme contenuti nel dramma, che al di là delle scelte di dinamica, non hanno evidenziato i problemi che hanno, invece, afflitto le altre direzioni e concertazioni, quella di Michele Mariotti in particolare e, quel che più rileva con la medesima orchestra. Scusate coi tempi che corrono e con la politica delle scelte del ROF siamo davanti ad una cospicua realizzazione del testo rossiniano.
Con riferimento ai cantanti devo cominciare con la segnalazione del “pezzo migliore” schierato dalla dirigenza del festival, la quale, proseguendo da trent’anni nella propria politica di scelte che con il canto e lo stile rossiniano hanno rapporti men che occasionali, ossia la signora Manon Strauss, cui è stato affidato il ruolo di Clorinda con tanto di esecuzione dell’aria del sorbetto di Luca Agolini, detto Luca lo zoppo. Qui il sorbetto era da ricovero per intossicazione alimentare e di zoppo c’era l’esecuzione. Credo di non avere mai sentito una siffatta presa in giro e parodia del canto professionale (Maria Jose Moreno esclusa) composta di urletti, strepiti, suoni che con il canto professionale nulla hanno a che vedere.
Siffatta prestazione, tanto per schiarire le idee, è il prodotto dell’accademia rossiniana.
E di questi prodotti avariati, che richiederebbero l’intervento dei NAS, la direzione del Festival ne ammanisce ogni anno atteso che le scelte devono essere o divi ( ma ci sono ancora?) o cantanti della cosiddetta accademia . Il resto non cale.
Vergogna è la sola parola che sorge spontanea e che il loggione scaligero avrebbe gridato al termine dell’aria di questo sorbetto rancido ossia la sera precedente dopo le funamboliche urla della Lisinga di turno.
Il resto, a parte la Tisbe di degna sorella della precedente, era un po’ meglio.
E comincio dai voti bassi, come facevano un tempo i professori durante la distribuzione dei compiti in classe corretti.
Quindi a pari insufficiente voto Alex Esposito e Nicola Alaimo. Al primo, applaudito e mi chiedo da sempre la motivazione, è stata affidata la parte del tutore e deus ex machina Alidoro cui Rossini compose per una ripresa del titolo la difficile aria “Là del cielo l’arcano profondo”, in luogo della “Vasta teatro è il mondo” composta dall’Agolini. Allora in una edizione che propone l’aria di Clorinda, il coro di apertura del secondo atto, tutte di mano dell’Agolini e che non dispone di un Alidoro degno della grande aria sarebbe ben giusto e opportuno, per rispetto a pubblico ed autore, proporre il numero composto per la prima rappresentazione. Soprattutto in considerazione che il cantante prescelto sia privo di ampiezza della voce, di risonanza nella maschera, preferendo quella di gola, si chè si sente la fibra della voce, vuoto in zona grave perché la voce in natura non è di vero basso, in difficoltà nei passi di agilità, semplificati nel da capo, come pur troppo accade oggi, attese la qualità dei cantanti prescelti, e per concludere l’acuto alla chiusa dell’aria è duro e fisso. Qualcuno ha detto che il tempo prescelto per la cabaletta fosse troppo veloce. Vero, ma con un simile Alidoro la scelta era obbligata pena non arrivare in fondo all’aria stessa.
Oltre tutto un Alidoro che non sia un basso crea cospicui problemi di differenziazione fra i tre bassi nei concertati, come accaduto puntualmente nel quintetto del primo atto “nel volto estatico”.
Del pari Nicola Alaimo. La scelta di Dandini baritono è esatta in quanto la scrittura è piuttosto elevata, prevede subito la salita al fa acuto, nota da baritono o almeno da basso cantante alla Filippo Galli (che, però, in Cenerentola, cantava don Magnifico) passi vocalizzati da cantante serio “a finir della nostra commedia” con tanto di ribattiture, prevede, però, anche passi sillabati, tipici del buffo parlante. In entrambi i casi Alaimo è impari al compito falsetta le agilità della sortita,dopo aver ben bitumato la voce per sembrare un basso, che Dandini non è, peggio ancora quelle dell’ingresso di Cenerentola alla festa; le cose non vanno meglio al duetto con don Magnifico dove questo Dandini esibisce voce legnosa e dal colore addirittura tenorile. Gusto poco ed è il numero dell’opera, che nonostante la cospicua carica teatrale, ha lucrato i più fiacchi applausi.
La sufficienza spetta a Paolo Bordogna, don Magnifico. Per anni, ho sognato che un basso cantante autentico vestisse i panni del patrigno di Cenerentola, come nell’800 agli italiani accadeva con Filippo Galli e Luigi Lablache, certamente attirati dalla prosopopea del personaggio e dalla carica comica dello stesso. E’ rimasto al rango di sogno l’idea di Ramey ed al limite Michele Pertusi nel ruolo. Andiamo avanti con il buffo caricato e parlante e dopo Enzo Dara abbiamo anche sentito esecuzioni squallide vocalmente e volgari per gusto sì da rimpiangere persino i condannati lazzi di Paolo Montarsolo. Il don Magnifico di questa serata era di gusto contenuto alla cavatina, accompagnata con ampiezza e magniloquenza, un po’ caricato al “servaccia ignorantissima” dell’incipit del quintetto all’atto primo con qualche suono bianco e falsettante nell’attacco di “nel volto estatico”, quanto alle due arie successive se l’è cavata bene pur con qualche caduta di gusto, soprattutto nella scena del secondo atto. Devo, però, dire che rispetto alle proprie abitudini ed a quello che abbiamo sentito negli ultimi anni siamo ad un livello ben più elevato.
I due protagonisti: Don Ramiro ed Angelina. Nel personaggio del principe, anni or sono, Rocky Blake, cantante da opera seria rossiniana, restituì al principe di Salerno una voce di volume e colore ben differente da quelle dei tenorini, cui eravamo abituati con gli Alva, Benelli e de Sica dell’epoca scaligera abbadiana, oltre che ad una esecuzione della coloratura sino ad allora non immaginata per le voci maschili, salvo che per i frequentatori del 78 giri. Del pari l’attacco del “Ah ci lascia proprio il cuore” di Teresa Berganza, piuttosto che l’ingresso alla festa di Martyne Dupuy sono ascolti ed interpretazioni, che segnano e formano il gusto dell’ascoltare, sicchè le esecuzioni successive creano problemi allo stesso.
Con questa premessa le prove di Lawrence Brownlee e Marianna Pizzolato sono state, pur con difetti, sufficienti e le miglior sentite in tutto il festival.
La voce di Brownlee, estesa e facile sino al do acuto, suona, però, come quella di tutti i tenori di oggi non perfettamente collocata nella maschera. Basta sentire l’attacco di “un soave non so che” sul fa diesis, ancora nel finale primo la voce suona nasaleggiante, perché mettere la voce nel naso è, al tempo di oggi il più diffuso sostitutivo del corretto immascheramento. L’operazione riesce spontanea facile in cantanti in natura estesi. Poi l’esecuzione dell’aria con tanto di da capo della cabaletta è scorrevole, mentre la sezione centrale “pegno adorato e caro” non è varia ed ispirata come il brano richiederebbe. Ma per esserlo ci vorrebbe altra tecnica ed altri modelli da imitare, ossia evitare l’imitazione di Florez.
Da ultimo Marianna Pizzolato, la Cenerentola recuperata all’ultimo momento e con fortuna dal festival. Il timbro è bello e di qualità, la voce di vero mezzosoprano, di colore ambrato e spontaneamente morbido e dolce al centro. Nell’espressione è pure elegante e misurata, basta sentire la nenia “una volta c’era un re”, l’attacco del duetto “un soave non so che”, abbastanza fluida nelle agilità come accade nell’entrata di Cenerentola al quintetto “nel volto estatico” piuttosto che al sestetto “Questo è un nodo avviluppato”. In alto, però, le cose non girano, come accade al rondò finale dove Cenerentola emette acuti duri e fissi e credo che il difetto nasca da un insufficiente sostegno della voce, rivelato anche dai suoni alleggeriti oltre misura e “sfarfalleggiati” nelle esecuzione dei passi di agilità che investano la zona medio alta della voce. Il rimedio non è cantare da contralto, anzi è il tipico rimedio peggiore del male perché basterebbe capire l’operazione, che con adeguato sostegno della respirazione, deve fare un mezzo soprano in zona do-re centrale per cantare senza difficoltà anche Cenerentola e non “ingorgarsi” la voce in ruoli di contralto profondo. In questo caso l’imitazione della già citate Teresa Berganza e Martine Dupuy può servire, anche se riguardo queste ed altre cantanti va di moda parlare o con sufficienza o con distacco o, addirittura, con disprezzo, proponendo modelli che col canto e del canto professionale nulla sanno, nonostante le pile di registrazioni . Peccato perché l’imitazione, quella intelligente è uno dei segreti dell’arte del canto.

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