Firenze: il Cavaliere della Rosa

“Meraviglioso… Struggente… Serata straordinaria… Magico… Esecuzione di grande bellezza… Magnifico… Mehta in stato di grazia… Orchestra del Maggio al meglio… Cantanti superbi… Spettacolo emozionante… Da non perdere… Una grande edizione… Fantastico… Tutto molto bello… Grande.. Incantevole… Entusiasta della rappresentazione… Coinvolgente…”

State tranquilli signori lettori, la vostra Marianne non si è bevuta il cervello e non sta leggendo le recensioni dei più quotati giornaletti per teenagers dell’ultimo film della saga di “Twilight”; riportavo soltanto le prime testimonianze apparse sui social network e sui forum dei “fortunati” che hanno potuto assistere al “Rosenkavalier” che ha aperto il Festival del Maggio Musicale Fiorentino!
Che grande festa per loro poter condividere praticamente all’unanimità tale girandola di emozioni così intense, commosse e travolgenti, ma soprattutto quante aspettative ha in me suscitato un così caloroso plebiscito di consensi: come minimo si saranno reincarnate nei corpi della Denoke, della Hulcup, della Schwartz e di Sigmundsson le anime della Teschemacher, della Hongen, della Cebotari, di Bohme (il cast della prima fiorentina del 1942 diretta da Karl Bohm)!
Munita di simili aspettative e colma di una indescrivibile ottimismo mi sono recata a teatro.
Già… il teatro: mezzo vuoto, o meglio, molti posti vacanti in platea e prima galleria, quasi piena la seconda ed il pubblico, quello presente, non proprio di primo pelo; pochi i giovani ed i giovanissimi se escludiamo le scolaresche dell’ultima recita (se non fosse stato per loro la prima galleria sarebbe stata un tragico deserto).
Ma come? Una tal “meraviglia” snobbata dal pubblico fiorentino? Non vogliono più bene al loro teatro in “crisi permanente” da venti anni? Non hanno accolto tutte quelle promozioni pubblicizzate a tamburo battente su Facebook e Twitter onde “svendere” la rimanenza dei biglietti?
Si era quasi giunti, oltre a distribuirli nelle scuole, a lanciarli da Piazzale Michelangelo, in puro stile volantinaggio estremo, pur di riempire il teatro; che, ahimè, è rimasto mezzo vuoto.
La verità è che una istituzione come il Maggio Musicale Fiorentino aveva bisogno, e urgente, di un successo, un trionfo unanime che potesse far dimenticare presto le recenti figuracce:
l’attuale gestione semifallimentare; lo sciopero dei lavoratori che ha colpito non l’inaugurazione del Festival, ma il titolo di punta, Anna Bolena, che aveva realizzato l’unico “tutto esaurito” della stagione e che poteva fregiarsi della registrazione in DVD e della messa in onda nei cinema! Gaffe solenne e colpo bassissimo al pubblico giustamente furioso; le assunzioni ed i licenziamenti folli; l’immondo sperpero di denaro pubblico per la costruzione del megateatro ancora abbondantemente da terminare, ma già inaugurato, come buona cafona tradizione “all’italiana” prevede; “l’elemosina” per salvare il salvabile sotto la rassicurante bandiera della “cultura” (quale poi???).
Complimenti, avete davvero capito come funzionano le cose e come sempre non avete risolto un bel niente, perché tra meno di un anno ricomincerete, ormai è tradizione, con gli stessi buchi nel bilancio, le stesse crisi, gli stessi sperperi, gli stessi licenziamenti, gli stessi favoritismi e intrallazzi piangendo fame e miseria come da copione da almeno quindici anni, appunto!

Veniamo ai “cantanti superbi”.
A leggere certa “critica ufficiale” la Denoke avrebbe uno strumento potente, una forte presenza scenica, una emissione migliore di quella dimostrata nella sua incarnazione di Emilia Marty, sempre qui al MMF, una cura della parola sbalorditiva, un fraseggio insinuante e sensuale, una statura interpretativa talmente potente da rivaleggiare, vincendo addirittura, con le grandi Marescialle del passato…
Mi chiedo leggendo tale profluvio di ingenuità, se i “critici” che hanno redatto tale ammasso di superlativi hanno mai sentito anche solo nominare, già l’ascolto mi pare più difficile visto il livello di dabbenaggine di cui tali “articoli” sono ricolmi, Marescialle del calibro di Lotte Lehmann, Elizabeth Schwarzkopf, Lisa della Casa, Christa Ludwig, Eleanor Steber, Maria Reining, Elisabeth Grummer, Evelyn Lear, Régine Crespin, Sena Jurinac o anche Margarete Siems, la prima interprete del ruolo scelta appositamente da Strauss in persona e verso la quale non lesinava elogi, a ben ragione, paragonabili a quelli dei “critici” di cui sopra!
Una cantante, la Siems, che malgrado qualche fissità, non disdegnava alternare Margherita di Valois, Mimì e Butterfly, Chrysothemis e Zerbinetta (ruoli creati da lei), il Verdi maturo di Aida, Amelia, Violetta, il Wagner spinto di Elisabeth e Venus, Isolde, Sieglinde, ma anche Carmen, fino alle vette “belcantiste” di Marie della “Fille” e Lucia di Lammermoor, Adalgisa, Philine e Astrifiammante! Un tale virtuosismo, un tale eclettismo, credo sia precluso ad una cantante problematica come la Denoke!
Intendiamoci, non è solo questione di passatismo o di fare i tombaroli, è questioni di fatti, ed i fatti sono questi:
la Denoke strimpella con la sua voce sopranile (?) il solo monologo del primo atto e tutto il suo intervento al terzo dopo la “mascherata viennese”: per il resto della recita il soprano dimostrerà di possedere una proiezione del suono altalenante che non potrà mascherare l’esigigutà del suo strumento tanto da sparire ingoiata dall’orchestra , tra l’altro, da Mehta su un mezzo-forte ben poco invasivo, ma molto accomodante, oppure dai colleghi nel terzetto finale, in cui è coperta addirittura da Sylvia Schwartz.
La voce è bloccata in bocca, il registro grave è un sibilo appena percettibile, gli acuti, nelle poche volte in cui il soprano è sollecitato ad utilizzarli, sono o appena toccati e lasciati andare o, peggio ancora, fissi come ululati e poi fatti oscillare: ciò dimostra ancora una volta come l’estensione della Denoke tocchi il suo limite nel Sol e che il suo canto deve limitarsi al solo registro centrale, che fa capolino ogni tanto, e la cui dizione è circoscritta alle lettere “A”, “E”, “O” quasi priva com’è della pronuncia delle consonanti.
Borghese nell’accento, il fraseggio azzecca due frasi commoventi nel monologo e nell’addio a Octavian, la Denoke riesce a far apparire una Kiri Te Kanawa un vortice di passionalità indomabile, mentre scenicamente anche una Anna Tomowa-Sintow (ultima Marescialla a Firenze) immobile polverizzerebbe il carisma del soprano; se poi ancheggiare e portare la taglia 42 è sinonimo di carisma e presenza scenica, allora cambia tutto!
Ma vorrei ricordare al pubblico ed alla “critica”, che sono andate in visibilio  per queste due virtù della cantante, che non siamo a Pitti-Donna, ma all’Opera e che quegli aggettivi di cui sopra farebbero meglio ad utilizzarli per le cantanti che la Denoke avrebbe secondo loro superato: si eviterebbero certe figuracce. Insomma, restano ancora oscure le cause della presunta grandezza della Denoke… ed una voce così avrebbe voluto cantare Brunnhilde?! Almeno ha avuto un po’ di umiltà nel ritirarsi da tale follia!

Ogni stagione il Maestro Mehta deve infliggere al proprio pubblico una sua nuova scoperta che non si capisce bene da quale fiorente vivaio peschi: quest’anno è stata scelta la giovane Caitlin Hulcup a cui è stato affidato il ruolo centrale di Octavian.
A questo punto dovrei scrivere qualcosa sulla Hulcup, sulla sua performance e soprattutto sulla voce: se solo l’avessi sentita!
La voce è piccolissima e non possiede proiezione e nelle rarissime volte in cui si percepisce, ovvero quando l’orchestra tace o è in pianissimo, ciò che giunge all’orecchio è un suono completamente intubato al centro, dotato di acutini da sopranino leggero e oltre ad affermare che porta discretamente i suoi abiti in giro per la scena, non so di cos’altro dovrei parlare visto che di fraseggio non ne ho percepito l’esistenza e solo al terzo atto nei panni di Mariandel, quando per esigenze sceniche camuffava la voce emettendo note ingolate o fisse, si sentiva qualcosina in più, e non era granché bello. Inesistente.

Sylvia Schwartz, nei panni di Sophie, è anch’essa una vocina da camera, chiarissima, vetrosa e oscillante; e se negli anni ’80 e ’90 si storceva un po’ il naso per una Bonney o, peggio ancora, una Hendricks, con lei dovremmo alzare al cielo svariati strali!
Il problema è che nell’economia di un cast di questo tipo la minuscola voce della Schwartz rappresenta l’unica, insieme a quella di pochi altri, che si sentisse in ogni occasione, arrivando paradossalmente a coprire la Denoke e la Hulcup nel terzetto finale!
In più era l’unica che malgrado tutto avesse un’idea del personaggio donando a Sophie una forza d’animo piena di vitalità nel secondo atto, un fraseggio pieno di tenero nervosismo giovanile nei bellissimo duetti con Octavian e diventando addirittura la Nemesi di Ochs nel terzo. Accontentiamoci di questo!

Kristinn Sigmundsson con la sua emissione plebea, un timbro qualunque da baritono buffo avanti con gli anni e fraseggio greve e grossolano scambia Ochs per un anonimo anziano un po’ laido.
Capisco perfettamente che Ochs sia un rozzo nuovo ricco dai modi spicci, bruschi, sbrigativi, ma non è scritto da nessuna parte che debba rinunciare alla linea di canto, non c’è scritto da nessuna parte che debba avere la voce sgangherata, stomacale e inudibile in basso, granulosa in alto, faticosa e accennata ovunque!

Il ruolo del Cantante Italiano è ostico nonostante la sua brevità poiché la sua costruzione si basa sul passaggio superiore e sugli acuti presi di forza.
Celso Albelo possiede un timbro sicuramente fascinoso nel suo lirismo, ma è come se fosse bloccato, rigido nell’emissione, mentre gli acuti certamente presenti, vengono emessi perennemente sotto sforzo; aggiungiamo anche che trattasi di voce piccolina.
Se la voce fosse più libera, smagliante e girasse meglio negli acuti avremmo un ottimo elemento, per ora cercherei di risolvere queste debolezze già dimostrate in maniera discutibile in altri ruoli come Nemorino (Venezia) o del calibro di Arturo dei “Puritani”.

L’anziano e valente veterano Eike Wilm Schulte “parla” sonoramente il ruolo di Fanimal con mestiere, dando una lezione ai suoi colleghi, e caratterizzandolo come un nobile ironicamente dominato dalle sue paure e dai complessi: la Marianne Leitmetzerin di Ingrid Kaiserfeld gorgoglia amabilmente; la coppia di caratteristi Valzacchi Niklas Björling Rygert e Annina Anna Maria Chiuri sono scenicamente godibili pur facendo ascoltare suoni nasali e traballanti; gutturale il commissario di Pawel Izdebski; stonacchiante il Primo maggiordomo di Faninal / Un oste di Kurt Azesberger; al contrario risulta quello con maggiore volume e proiezione di tutto il cast il Primo maggiordomo della Marescialla interpretato da Alexander Kaimbacher.

Il Maestro  Zubin Mehta al suo arrivo sul podio viene travolto da una valanga di applausi pieni d’affetto e devozione.
La sua direzione d’orchestra è in pratica un work in progress che è andata raffinandosi nel corso delle recite; la prima ad esempio caratterizzata da una scansione dei tempi confusi e vistosi scollamenti tra buca e orchestra che già alla domenicale ed all’ultima recita erano stati assorbiti fino a giungere ad una buonissima interpretazione, molto più precisa e con una propria identità.
Il Direttore sceglie inizialmente un tempo vitale, ricchissimo di brillantezza per l’ouverture: gli archi suonano scintillanti, le arpe sono puro cristallo, le percussioni sono nette, sonore, senza sbavature.
Sono piuttosto soddisfatta; ma improvvisamente accade qualcosa che mi disturba: una serie di suoni alieni, fissi e calanti, sfibrati o schiacciati fanno capolino dal Golfo Mistico: sono gli ottoni, i legni, i fiati che per un crudele gioco del destino iniziano a rodere la rotondità ottenuta per farla degenerare verso il caos. Già nell’ultima recita, queste sbavature erano meno marcate e sicuramente meno invasive, ma purtroppo ancora ben presenti.
La direzione di Mehta, dunque, è spezzata in due tronconi: i la prima mezz’ora dei primi due atti è diretta in maniera splendida (a parte le sbavature ed i cali di intonazione degli strumenti di cui sopra) con un suono rotondo, lieve, tenuto su un morbido mezzo-forte ed una interpretazione che, come hanno sottolineato molti critici, verte più sui toni del grottesco e della farsa romantica che sull’esaltazione della raffinata malinconia, della elegante malizia, del conflitto tra vecchio e nuovo che si respira in partitura (nulla di male, tutt’altro); sono le ultime mezz’ore degli atti a funzionare meno, poichè, pur mantenendo una certa tensione narrativa, i tempi si dilatano in estenuanti lentezze, in staticità sonore esasperanti; se, ad esempio, il dialogo tra la Marescialla ed Octavian sprigiona quella naturale spontaneità colta nell’intimità della coppia, tutta la scena successiva con il Barone Ochs ed i comprimari è faticosa nella sua disorganizzazione tra palco e buca, con quegli archi sempre più grevi e gonfi; se il monologo della Marescialla è di inezia espressiva, vocale e musicale micidiali, come il successivo dialogo tra Marescialla e Octavian in cui uno struggente addio, quel sublime groviglio di non detto, si trasforma in una ninna nanna densa e macignosa, la presentazione del personaggio di Sophie, la scena della consegna della rosa magnificamente onirica nelle sonorità sospese e cristalline dell’orchestra, tutti i dialoghi con Octavian possiedono quella levigatezza richiesta che purtroppo ripiomba nel disordine musicale appena giunge Ochs, ma inarcandosi finalemente all’arrivo del valzerino che conclude l’atto diretto con la giusta dose di ironico cinismo.
Meglio dunque il terzo atto, la cui colorata vitalità da farsa settecentesca si spegne soltando all’arrivo della Marescialla: i tempi indugiano, la pesantezza prende il sopravvento e per fortuna con l’uscita di Ochs durante il folle valzer collettivo ed il successivo terzetto si torna a grandi livelli; e finalemente l’orchestra racconta ciò che manca al canto, ovvero quello struggimento che rappresenta la fine di un’amore e l’inizio di un altro più fresco, i sentimenti di un tempo sostituiti dall’accettazione e dalla rassegnazione del cambiamento, la commozione di vivere qualcosa di nuovo, puro e spontaneo, il dolore della perdita fino a quel finale crepuscolare eppure ottimistico, con un sorriso sulle labbra.

Il nuovo allestimento di Eike Gramss con le scene curate da Hans Schavernoch ed i costumi di Catherine Voeffray, che se va tutto bene finirà come tutti i nuovi spettacoli del Maggio, ovvero dimenticato in un magazzino nell’attesa forse vana che qualcuno si decida a riprenderlo, ricalca per certi versi la regia di Herbert Wernicke.
Non è affatto un’allestimento “sontuoso” come molti, troppi, hanno voluto far credere (ignorando cosa sia il vero fasto): una parete decorata con un bellissimo Trompe-l’oeil della vienna architettonica settecentesca sulla sinistra dotata di una serie di porte, il solito specchione semovente sulla destra, pavimento riflettente, qualche sedia, un paio di tavolini, molti cuscini, una serie di mobili lignei per il terzo atto.
Tutto molto gradevole ed elegante per l’occhio e valorizzato dalle discrete luci di Manfred Voss.
L’ambientazione è ovviamente contemporanea alla composizione dell’opera (1911), il che andrebbe contro l’entità della musica, gli intenti di Strauss e lo stesso contenuto del libretto: ma a chi volete che importi? Basta scrivere che è alle porte la Prima Guerra Mondiale e tutto funziona!
I francamenti brutti costumi saltano da un’epoca all’altra (‘700 alternato al ‘900) in una confusione stilistica francamente evitabile; la regia si mantiene su binari lineari, molto narrativi, improntata su una gestualità naturale e coerente. Nel finale la scenografia si spalancherà lasciando intravedere una Vienna albeggiante con i ponti sul Danubio blu, mentre il piccolo servo nero omaggerà il prode Mehta con il lancio di tre rose rosse prima della chiusura del sipario.

Sette i minuti di applausi finali di un pubblico che, in parte, francamente non capisco: un pubblico che resta incredulo di fronte ad uno Strauss compositore di  un’opera bella come il “Rosenkavalier”, così diversa da “Salome” (“Davvero Strauss ha scritto quest’opera??? Non lo sapevo!”); che, impreparato, si  trovava a leggere la trama in corso d’opera quasi rimanendo male che si canti in tedesco e non capendo la differenza tra Sophie e la Marescialla; che circoscrive la “bravura” della Denoke e della Hulcup al “portamento ed al saper stare in scena”; che commenta senza aver ascoltato nemmeno un’edizione precedente… insomma… che pubblico è?
Poi non dobbiamo lamentarci se il teatro è vuoto, se si leggono sciocchezze come “è colpa di Strauss”, “Il Rosenkavalier non è un’opera di repertorio!” (e nel 2012 si contano almeno 22 allestimenti diversi in altrettanti teatri del globo), “Il Maggio Musicale dovrebbe mettere in scena per almeno cinque anni solo Tosca, Aida, Bohéme, Turandot, Traviata, Carmen, Butterfly, Barbiere, Lucia, Cavalleria/Pagliacci, Elisir d’Amore!” in maniera mediocre se non pessima, come ha dimostrato di fare ed, ovviamente, al solo scopo di far entrare denaro, per riempire le voragini di gestioni catastrofiche, salvare il salvabile, tappare buchi imbarazzanti e fare un po’ di elemosina…
Con queste argomentazioni e con quella parte di pubblico evidentemente il Maggio dovrebbe fare solo stagioni da arena estiva a base di chianti, porchetta e lampredotto al solo scopo di battere cassa, ma senza preoccuparsi dell’eccellenza della proposta, del prestigio, degli intenti nobili del Festival, ovvio. Meglio la mediocrità se bisogna far soldi… peccato che non erano questi i principi che mossero due menti illuminate come Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano e Vittorio Guy: ma si sa “l’argent fait tout” e con la cultura, trattata così, non si mangia.

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12 pensieri su “Firenze: il Cavaliere della Rosa

  1. Concordo in pieno con la tua recensione, Marianne: più che uno spettacolo brutto (già di per se lo è) è uno spettacolo che fa rabbia. Perchè spacciare a gente esperta e non questa roba con Strauss, diretta come fosse un bacchanale e intepretata in maniera così noiosa da farmi annoiare già a metà del primo atto non solo è una presa in giro. E’ un segno evidente del fatto che il Maggio Musicale Fiorentino è, ormai come la maggior parte di eventi “culturali” in Italia, un’istituzione caduta in forte diasarmo che ha bisogno di tirarsi su con stupide promozioni per il pubblica pagante (e visto il trionfo concordato da tutti direi anche pagato…) per dire che loro diffondono la cultura a portata di tutti. Sinceramente preferisco rimanere ignorante, piuttosto che sorbirmi questa fesseria. E’ evidente anche il fatto che ormai serata di gala vuol dire serata in cui della musica non ce ne può fregar di meno, perchè pensiamo a fotografare e intervistare le cosiddette “star” presenti, che fingono di essere interessatissime e preparatissime, dicendo che è tutto meraviglioso ed emozionante (ma sul punto non mi dilungo, per non tornar a certe affermazioni sul Rinaldo di Ferrara…). Da ultimo è pure evidente che dopo una serie di scandali del genere il Maggio si è fatto delle domande, si saran chiesti cosa dovevano fare per tirarsi un po’ su, e han deciso di creare sto trionfale “”Rosenkavalier””” (l’opera straniera fa più fighi, mi si passi il termine), così che tutti potessero dire che il Maggio era un grande diffusore di cultura e balle varie. Quello che il Maggio credo che non sappia è che a volte il silenzio è meglio di mille parole (in questo caso, di mille latrati).

  2. premesso che:

    – per i fiorentini (pubblico e critica) qualsiasi spettacolo del proprio teatro è sempre qualcosa di meraviglioso, di bello, di riuscito;
    – poco mi interessano le reazioni degli “addetti ai lavori” et similia sulla riuscita o meno di uno spettacolo e, soprattutto, di una inaugurazione, non badando molto alle critiche di questo Rosenkavalier;
    – avendo visto il cast di questa produzione, le mie aspettative non erano molto alte;
    – le critiche allo spettacolo ed ai cantanti della vispa Marianne sono, grosso modo, consivisibili (con qualche piccolo distinguo)

    debbo dire che la recita a cui ho assistito, l’ultima, mi ha lasciato comunque abbastanza soddisfatto. Di sicuro, molto meglio rispetto alla sbiadita recita milanese, con tutto il cast indisposto (e con la Nylund….)

    P.S. capisco la stizza della Brandt nei confronti della taglia 42 della Signora Denoke: guardando la foto del contralto, anch’ella poteva indossare il 42…. ma di scarpe 😉

    • guarda davide che dalle foto marianne era una donnina piuttosto piccola di statura e di corporatura normale.
      le autentiche valchirie viennesi si chiamavano amelia materna e lilli lehmann più per la statura !

  3. Io sono andato Domenica 6 e sono rimasto sbalordito dalla nullità dell’interpretazione della Denoke, rispetto alla fama e ai commenti entusiastici e senza riserve (ma anche senza argomentazioni) che spesso l’accompagnano; non riesco a capacitarmi di questo culto per il vuoto astrale.
    Tra l’altro ero molto vicino alla scena e sentivo bene tutti i cantanti, a parte qualche frase della Hulcup e poter sentire non è sempre un bene.

  4. Ho sentito solo la trasmissione radiofonica con tutti i suoi limiti… Senza il “piacere” della vista della signora Denoke la sua voce mi è parsa dura e senescente, stonata e fissa, impossibilitata al fraseggio, non solo inadeguata ma anche indefinibile come Marschallin, non meglio il pallido Octavian della Hulcup, voce opaca ed ingolata, scolastica nel canto, al confronto la passabile Sophie della Schwartz svettava, pur facendo percepire ad ogni acuto la fatica e lo sforzo . La direzione non mi era sembrata un gran che: qualche pasticcio tra buca e palcoscenico, suono nitido ma lento e spesso pesante, elegante ma anche poco rifinito nei dettagli.. una lettura , a mio avviso, eccessivamente contenuta e tendenzialmente un po’ noiosa, perché privata dei guizzi della farsa come delle atmosfere di languore crepuscolare, tutti smussati per tentare la quadratura del fantastico nel classico ! Ciò detto, mi auguro di poter assistere nei teatri Italiani a direzioni di pari livello…basti pensare a quanto recentemente ascoltato alla Scala sotto la guida di Philippe Jordan !

  5. Inoltre, mi sembra difficile concliare fra loro i due giudizi di Olivia. Se l’italiano è ancora l’italiano, una direzione che non è un granché è men che mediocre; quindi è difficile augurarsi di poterla ritrovare in altre occasioni. Io invece penso che, considerando non soltanto l’Italia ma anche l’Europa, un livello tale sia abbastanza difficile da raggiungere. Mi riesce altrettanto incomprensibile come una direzione così misurata (su questo sono stati tutti d’accordo) possa essere vista come l’espressione di un baccanale.
    Marco Ninci

    • Bene Ninci, cercherò di spiegarmi meglio. Il mio “ non è un gran che “ significava non l’ho trovata una lettura straordinaria da affiancare a quelle di Kleiber, Karajan o Solti per citare i primi che mi vengono in mente e, tuttavia, nettamente superiore a quella ascoltata recentemente alla Scala , e sicuramente non mediocre. Per rispondere anche a quello che mi chiedi sopra , non mi è sembrata una direzione di trasparenza assoluta, no, ho trovato il suono compatto e a mio avviso poco dettagliato, o quantomeno ricordo di aver pensato così durante l’ascolto. Non ho letto critica alcuna su giornali o web eccetto l’articolo della Marianne e non so a chi ti riferisci quando parli di baccanale, caramente O.

    • Ammetto che definirlo “suono compatto” sia stato eccessivo da parte mia… come credo che il suono della diretta di Rai 3 non fosse buono e che dal vivo tu abbia ascoltato altro! in verità quella sera ero rimasta assai delusa dalla direzione , mi attendevo più lirismo, più sensualità, ritmi più frizzanti e l avevo trovata troppo controllata e “razionale” o misurata come dice la critica.

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