Spigolature: Italiana in Algeri a Bologna

Sabato 19 maggio si è tenuta a Bologna l’ultima rappresentazione di Italiana in Algeri, penultimo titolo prima della pausa estiva.
A volte anche gli spettacoli, che sulla carta appaiono trascurabili, e alla prova dei fatti si risolvono in prestazioni per le quali non varrebbe neppure la pena sprecare lo spazio di queste riflessioni (e ciò non per superbia o acredine, ma perché il tempo è un bene prezioso in quanto scarso e, quindi, meritevole di ben meditato dispendio), risultano, però, utili per le riflessioni cui inducono. Riflessioni cui dovrebbero seguire, da parte dei soggetti a ciò deputati, urgenti provvedimenti.
Il primo riguarda la scelta dell’allestimento. Posto che il teatro ha proposto non più tardi di cinque anni fa, per il medesimo titolo, un allestimento, brutto quanto si vuole (non più di molti altri, in effetti) ma non certo fatiscente, quale necessità, in periodo di crisi e conseguente attenzione al risparmio, di importarne uno differente da altro teatro? Ciò premesso lo spettacolo di Francesco Esposito, garbato ed elegante (soprattutto in ragione della bella scena fissa di Nicola Rubertelli), funziona discretamente e altrettanto si può dire della direzione di Paolo Olmi, non raffinatissima nel gioco degli impasti timbrici, ma sempre sufficientemente puntuale nel coordinare buca e palcoscenico. Nella precedente edizione la bacchetta era stata affidata al direttore musicale allora in pectore, ed oggi effettivo, del teatro, che a dispetto della consolidata frequentazione rossiniana aveva rivelato non pochi margini di miglioramento. Apprezziamo quindi che non abbia prevalso, nell’occasione, la solita necessità di ritenere insuperate e insuperabili prestazioni di livello assai inferiore alla pubblicità e alle aspettative dalla medesima legittimate.
Ciò che non è avvenuto per la protagonista femminile, che era, oggi come nel 2007, Marianna Pizzolato. Provo una sincera simpatia per la cantante palermitana, che nell’attuale deserto del canto rossiniano tenta faticosamente di trovare la propria strada, mentre il festival deputato alla difesa e valorizzazione del repertorio del Pesarese si balocca con improbabili debuttanti, dive discografiche e altri soggetti costituzionalmente predisposti al forfait last minute.  Forfait per ovviare ai quali gli illuminati organizzatori adriatici devono poi ricorrere, magari, proprio alla Pizzolato. Tutto ciò premesso, la prova felsinea è risultata tutt’altro che ideale, perché la voce è poco voluminosa e soprattutto poco sonora, specie all’ottava bassa che risulta ora afona, ora gutturale. Al centro compaiono, segnatamente nell’esecuzione dei passi di agilità (finale primo “in gabbia è già il merlotto”), suoni tutt’altro che precisi sotto il profilo dell’intonazione e quando ad esempio nel recitativo che precede il rondò “alle vicende della volubil sorte” la cantante tenta la puntatura di tradizione al la nat acuto rivela i propri limiti, non di estensione, ma di organizzazione vocale. Sempre nel rondò la coloratura, faticosa in tutta la recita, si è fatta, probabile concausa la stanchezza accumulata, assai simile a quella d’imposto baroccaro, con fioriture maldestramente cempennate e un bel (si fa per dire!) bercio piazzato sul si nat in chiusa. L’inconsistenza dell’ottava bassa porta a sospettare che la Pizzolato non sia, ad onta del repertorio praticato, un autentico contralto, semmai un mezzo acuto, che se risolvesse i problemi nella zona alta della voce potrebbe cantare Rosina e Cenerentola, non già Isabella e, a maggior ragione, le parti scritte per la Schiassetti e la Pisaroni. Del resto, la scelta del repertorio è sovente guidata, o traviata, dall’offerta di scritture disponibile sul mercato, che allo stato attuale colloca sulle parti di Gertrude Righetti Giorgi o soprani di coloratura (alla faccia della filologia!) o soprani lirici non sfogati in acuti (gli stessi che poi, magari, azzardano i ruoli che furono di Isabella Colbran). Questo non per scusare la Pizzolato o giustificarne gli evidenti limiti, ma per inquadrare una situazione che è, del resto, sotto gli occhi e a portata delle orecchie di tutti gli ascoltatori degni di questo nome.
Ascoltando il prescelto Lindoro pare davvero che la Rossini-Renaissance sia trascorsa invano. Dalle funamboliche, e oggi censurate, esibizioni di un Blake o di un più nostrano, ma non meno funambolico, Matteuzzi siamo tornati come per miracolo agli anni Cinquanta, quando la parte del giovane schiavo italiano veniva per il solito affidata a tenori di grazia di limitato cabotaggio e cui era malagevole l’esecuzione persino dei più abbordabili passi di agilità. Anche se poi magari un Nicola Monti o un Valletti proponevano se non altro un’esecuzione garbata dei cantabili, contrassegnata da un legato di scuola e aliena da suoni rauchi e afonoidi. Quelli che compaiono nel canto (se così vogliamo definirlo) di Enrico Iviglia ogni qual volta sia chiamata in causa la zona della voce che prepara il passaggio agli acuti. Peccato che proprio in quella zona Lindoro sia chiamato a esprimersi, fin dalla sortita. Il risultato è che la voce, di consistenza accettabile nel registro medio a onta di un timbro non certo privilegiato, spoggia e va indietro, risultando poco udibile e caratterizzata da stonature sistematiche e, specie nell’aria del secondo atto, suoni chévrotanti e “tirati”. Deficitaria anche l’esecuzione della coloratura, per produrre la quale il cantante è costretto a contorcersi con effetto non proprio gradevole alla vista, oltre che all’udito.
Un poco meglio Paolo Bordogna, che dà come sempre l’impressione di non essere un buffo o un basso cantante, ma un tenore che, non sapendo salire agli acuti, canta da buffo con voce legnosa, legato perfettibile e una considerevole dose di brio. Anche se poi i sol acuti di “Pappataci” sono risolti meglio da Michele Pertusi, autentico sopravvissuto di una generazione rossiniana oggi quasi del tutto scomparsa (nella più fausta delle ipotesi, per raggiunti limiti d’età) e forte di una frequentazione ormai ultraventennale del titolo. Superata una sortita un poco faticosa, in cui si avverte una marcata instabilità nelle note tenute (complici il trascorrere del tempo e la cospicua frequentazione di un repertorio spesso troppo oneroso), il basso emiliano si riprende e offre la prova migliore della serata, cantando con voce non torrenziale ma che si espande senza problemi nella sala, impartendo lezioni a tutti i colleghi presenti quanto a fluidità delle ornamentazioni, gestione dei fiati e, appunto, sicurezza in acuto. Viene da pensare che, se si limitasse al repertorio rossiniano buffo e di mezzo carattere (abbordando magari, sull’esempio di Filippo Galli, un ruolo come quello di don Magnifico), Pertusi potrebbe aspirare ad almeno un altro lustro abbondante (decennio?) di grande carriera e soprattutto successi congrui ai propri trascorsi e alla meritata fama accumulata. In fondo Michele Pertusi, ad onta dell’età, è professionalmente parlando uno degli ultimi sopravvissuti di un modo di fare il cantante d’opera oggi perso e che consente ai pochi detentori (per lo più signore intorno ai sessanta) di essere sempre pronte, sempre fresche ad onta degli acciacchi del tempo.
I comprimari provenivano per due terzi, com’è costume, dalla cosiddetta Scuola dell’Opera. Un anno fa, al momento dell’insediamento, il nuovo sovrintendente del Comunale aveva annunciato un ripensamento del rapporto che lega il teatro all’accademia o scuola di perfezionamento tenacemente voluta e difesa dal suo predecessore. Di quelle generose dichiarazioni d’intento ben poco si è concretizzato, e i cadetti della Scuola dell’Opera sono ancora al loro posto. Anche qui i risultati, in primis un’Elvira che strilla i suoi quattro – di numero – acuti (e anche tralasciando l’apporto esterno di un Haly che non riesce a farsi applaudire nella sua arietta solistica), sono evidenti e tali da rendere la riflessione, e la conseguente azione in merito, non più procrastinabile.

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96 pensieri su “Spigolature: Italiana in Algeri a Bologna

  1. Grazie per la recensione, Antonio, leggo sempre di buon grado quelle di Rossini, essendo un forte “patito” (preferisco appasionato) del suddetto compositore. Non ho assistito a recita alcuna di questa Italiana alla bolognese, ma in linea di massima conoscendo la Pizzolato credo proprio che tu abbia pienamente ragione su di lei. Infatti anche secondo me è una cantante già di per se non eccelsa, che poi si va a rovinare la voce pretendendo (e quanto pare è molto sicura di se, dato che interpreta solo quello) di mascherare un chiaro mezzosoprano neanche tanto di agilità con un mezzocontralto (e alle volte anche contralto) Rossiniano. Credo che se riuscisse anche solo a cantare delle cose adatte a lei risulterebbe anche più gradevole di tecnica e di voce. Credo, da ultimo, che dovrebbe anche un po’ abbandonare tutto il Rossini (solo per un po’), perchè secondo me fatica anche in Cenerentola e in Rosina. Infine un piccolo post scriptum sul video: ho sempre trovato Blake un mistero vocale: la tecnica c’è, ma anche dal vivo avevo sempre l’impressione che urlasse, non mi faceva impazzire. Devo dire, invece, che quell’interpretazione della cavatina di Lindoro è proprio ben riuscita! sarà che ormai sono abituato a certe profanazioni rossiniane (e non solo)? alla prossima.

    • Blake urlava? La Sutherland era afonoide nei centri?? Fischer-Dieskau non sapeva far “girare” la voce???
      Su questo Corriere spira un vento maligno….
      Ridatemi Celletti!!!

      :::::::::::::complimenti per l’incapacità (ottusità?) di non voler recensire le opere di Britten date alla Scala. Almeno in questo vedo una certa coerenza .
      A proposito: Ticciati è eccezionale.
      Saluti
      Billy Budd

      • Hai problemi con la ricerca in archivio? I Britten e gli Janacek che Mamma Scala, dedita all’edificazione culturale del “suo” pubblico (un pubblico che peraltro professa e dimostra assoluta e arrogante ignoranza, anche e soprattutto delle regole della convivenza civile), ha proposto nelle recenti stagioni sono sempre stati recensiti. Non preoccuparti, scriveremo anche di questo “eccezionale” Grimes, passato in televisione questa sera… non voglio rubare spazio ai colleghi che lo recensiranno “in teatro”. Qualcuno però dovrebbe spiegare al signor Jones che non basta accostare colori a caso per fare della pop art, e ai cantanti (tutti, immagino, “specialisti” della declamazione) che eseguire musica del Novecento non è una buona scusa per emettere suoni rochi e afonoidi per tutta la sera.

          • per comprendere questo <Britten Scala, basta ascoltare e vedere in DVD la versione di Vickers. Dalla sua interpretazione, alla direzione di Colin Davis sembra un'opera assoltamente diversa dall'edizione vociante scaligera.

          • Ecco! Infatti se voglio ascoltare il Grimes preferisco rivolgermi a Pears, Vickers e Langridge piuttosto che Graham-Hall (ed alla Gritton)

          • non sono assoltamente d’accordo su Dieskau. Puo’ non piacerti ma certamente non muggiva. Anzi, cantava con grande tecnica e buon gusto.
            Credo che si debba stare attenti prima di tranciare giudizi su cantanti ritenuti “grandi” nel mondo.

          • caro domenico, esistono anche grandi luoghi comuni nell’opera.
            Oggi riteniamo grandi cantanti che non esistono, dunque l’opinione corrente si può discutere.
            A me FD piace poco, di fondo non mi piace la sua emissione dura e il suo intellettualismo forzoso da tedesco cerebrale …..dopo un po’ mi stufa. E con lui la Schwarzkopf, altro mito che mi convince poco.
            Oggi ci permettiamo di dire che Bergonzi è una mezza tacca, dunque …possiamo ben parlare, no?

          • sono d’accordo con la grisi sui luoghi comuni.

            cioè ragazzi basta vedere la gente che apre bocca in teatro oggi giorno.

            siamo nell’epoca più bieca per l’opera lirica, e ormai tutto quello che è considerato ” grandi nomi” al 90% hanno lobby dietro o parrocchio o altro ci siamo capiti, senza andare nella polemica.
            è però di estremo conforto che (anche se i gusti sono ovviamente SOGGETTIVI) quando torno a casa mi metto in cuffia e mi ascolto l’italiana con william e compagnia bella…

            povera italia comunque veramente.
            av salut !

      • Stai tranquillo Billy Budd: come vedi qui da noi non ci sono “linee di condotta” o censure (preventive o successive). Capisco che ti possa sembrare insolito, inconsueto, strabiliante…soprattutto se lo confronti ad altri luoghi del “web”.

        Quanto al Peter Grimes scaligero ti voglio tranquillizzare: andrò a vederlo il 5 di giugno (ahimé prima non posso) e sarò lieto di recensirlo e di ascoltare Ticciati: direttore che conosco solo per una buona incisione della Sinfonia Fantastica di Berlioz

      • “Death in Venice” lo scorso anno in Scala lo recensii io stessa http://www.ilcorrieredellagrisi.eu/2011/03/death-in-venice-in-scala-la-non-vita-di-aschenbach/ e andò a vederlo anche la nostra Carlotta!
        Prima che ti venga in mente altro, Janacek lo abbiamo recensito quasi tutti quando è capitato e troverai ampia documentazione in archivio, facilissimo da utilizzare (scorri e basta un click), mentre mi sono risparmiata “Jakob Lenz” perchè, nonostante ripetuti ascolti, la trovo, per mio gusto, una tortura evitabile.
        Anche questo “Peter Grimes” verrà recensito e leggerai 😉 pazienza mio caro ed i britteniani saranno accontentati 😉

      • Su dai Billy, cattivo vento? Tutti i giorni c’e’ qualche articolo nuovo. Puoi negarlo? Ognuno dice cio’ che pensa, puoi negarlo? E per per quanto riguarda Celletti, che ho conosciuto, non ha mai fatto mistero riguardo all’incapacita’ del baritono tedesco ad eseguire correttamente il passaggio di registro, (chi ha conosciuto Celletti mi smentisca) che, immagino sia il “girare” la voce, credimi. E poi c’e’ la Brandt che si trasforma in Rottenmeier se diciamo le parolacce… cattivo vento?

      • un poco di obiettività , signor(a) opera di britten, l’opinione di uno non è l’opinione di tutti, altrimenti non avremmo avuto la qualità e quantità di dibattito in punto sutherland o DFD. Anzi con riferimento a quest’ultimo , credo, tu erri perchè abbiamo (nel tempo record di un’ora dalla notizia ufficiale della morte) pubblicato due opinioni piuttosto distanti. Non credo lo abbia fatto alcun altro sito o blog.
        Quanto alla recensione, sempre per uno sforzo di obiettività,avrai notato come le nozze di figaro scaligere non siano state recensite. Colpa della Pasqua, colpa dello spettacolo che persino i plauditores hanno dovuto riconoscere obtorto collo pessimo ma è andata così.
        Il Peter Grimes ulteriore stazione della culturalizzazione del pubblico scaligero, sarà recensito. Credo. E se per caso non lo fosse qualcuno, che altrove riesce a riempire tre paginette del morente suo sito con insulti e contumelie nei nostri confronti ( e ne ho dolore perchè prova di pochezza intellettuale, altrui, per fortuna) verrà smentito circa il nostro comportamento.
        Quanto a Blake talvolta nei teatri grandi forzava e dava l’idea di cantare aperto, ma di Blake, nel bene molto e nel male pochissimo ne abbiamo avuto uno solo e lo rimpiango e molto. Non solo come cantante, ma come professionista. Soprattutto. ciao ed alla prossima
        dd

        • Mi meraviglio di alcune cose comunque:
          tutti si affannano a dichiarare che le voci ci sono, che ci sono i fuoriclasse, che si vive in un momento d’oro per l’opera, il belcanto, Wagner, il barocco, il ‘900 e chi pare a voi… giusto?
          Bene.
          Basta poi questo povero “Peter Grimes” per ammettere che “si… tutto sommato, non essendoci questi grandi cantanti… è meglio preferire la musica del ‘900 che comunque non è che vada tutta cantata (??? Ah no???), è tutta frammentazione schizofrenica (Ah si????), c’è poco di melodico (Ma pensa!!!)… rispetto poi a certi compositori dell’ ‘800 vuoi mettere (Eh, già…che orrore!)… meglio, per dire, Stockhausen…”
          Poi però se cantano certi pseudo-beniamini-fuoriclasse, i grandi cantanti di cui sopra appunto, le stesse persone iniziano a innalzare grandi preghiere di ringraziamento al Cielo.
          Guai a contraddirli, sei da TSO!
          E allora mi domando:
          questi presunti “grandi cantanti” che ci fanno vivere un periodo d’oro, lo sono per modo di dire secondo tale illuminato ragionamento: meglio Britten, che i compositori dell’ ‘800, GIUSTO? 😉
          sanno lor signori che i compositori del ‘900 per le loro opere chiamavano gente che sapeva cantare e non ATTORI-cantanti più o meno ammaestrati?
          Conoscono lor signori la produzione musicale e operistica del ‘900 in maniera approfondita?
          Conoscono lor signori la produzione musicale e operistica dell’ ‘800 in maniera approfondita?
          Oppure è più facile recensire qualcosa che non si conosce in modo approfondito, parlandone magari bene, trovando le giustificazioni di cui sopra (“tanto mica va cantato”) così da sembrare colti, fini e intellettuali che “ne capiscono”?
          Insomma, in questo periodo d’oro, non ci credono tanto nemmeno loro, suvvia!

          Magari approfondiremo questo discorso nella recensione del “Peter Grimes” evitando di togliere spazio ai commenti di questa “Italiana in Algeri” 😉

      • Caro/a Billy, io sono andato alla prima del Peter Grimes, e credimi, non mi serve che mi venga tu a dire che Ticciati è eccezionale, lo penso già di mio. E ti pregherei di rispettare i pareri altrui, sei liberissimo/a di contestarli, ma ti ricordo che ne la mia ne la tua sono verità assolute. Complimenti per l’ottusità nel pensare di sapere tutto. Saluti anche a te, Stefix

    • Del Grimes si parlerà a tempo debito (mi accodo all’invito rivolto da Marianne di non occupare questo spazio con discussioni relative a Britten), solo alcune precisazioni:
      1) è sacrosanto che un teatro offra una programmazione varia e non incentrata solo sull’800 (magari solo italiano): e non credo sia rieducazione (anche se taluni vorrebbero che lo fosse, almeno a leggere certa carta stampata). Poi il resto appartiene al gusto personale: dal mio legittimo punto di vista è “punitivo” un qualsiasi allestimento delle opere di Massenet (che trovo intollerabili) o l’annuale Gounod che viene imposto al pubblico (e spero che poi non si passi a Thomas…). Ma, altrettanto legittimamente, altri possono non gradire Britten (o chiunque) senza dover essere per questo trattati da “minus habentes”;
      2) l’opera è opera e la prosa è prosa: tale distinzione era presente tanto a Bellini quanto a Britten o a Henze. Che poi le modalità esecutive cambino o che prevalgono altri aspetti extraformali, non ci piove: ma musica è e rimane;
      3) sulla vocalità della Governante nel Turn of screw: attenzione…Britten non è Mozart, così come anche Strauss non è Mozart: quando quest’ultimo si riferiva alle Nozze di Figaro o allo Zauberflote per, rispettivamente, Rosenkavalier e Frau ohne Schatten, è ovvio che musicalmente non sono paragonabili (lo dovrebbero essere per altro). Quindi non ha senso un parallelo tecnico tra Contessa e Governante, magari basato sul cantante…anche perché almeno da metà ‘800 il compositore scriveva NON per compiacere l’interprete: prima c’era la musica, poi si sceglieva il cantante…con eccezioni dovute a motivazioni differenti però (il caso di Pears proprio con Britten);
      4) quel che si scrive e si dice in altri luoghi, non rientra tra i miei interessi.

          • Possiamo farci un’idea se pensiamo che in quel periodo si avvicendavano cantanti come Alda Noni (che interpretò e registrò Zerbinetta dal vivo presente Strauss) oppure Giuseppina Cobelli, Iva Pacetti, Emilia Corsi, Amelia Pinto, Teresina Burchi, Maria Carbone, Cecilia Gagliardi, Ester Mazzoleni, la Pasini Vitale e tutte quelle cantanti della prima metà del ‘900 che avevano dimestichezza anche con il repertorio tedesco e non solo; oppure di sapore italiano come la leggendaria Salomea Kruszelnicka o l’amatissima Margarethe Siems, per fare qualche nome.

          • facciamo i nomi e ci siamo già capiti: margerete siems, selma kurz, maria jeritza cantavano e fraseggiavano all’italiana la miglior imperatrice la solita Eleanor Steber

          • Proprio lui parlava, che operisticamente parlando sembrava la reclame del Valium.

          • ….à chacun son gout.. :)
            Io non ho dubbi su chi preferire tra i due…

          • Ma si, Duprez, ognuno hai suoi gusti. Ho capito, dico soltanto che fra tanto che ci sarebbe da far conscere e sentire ascoltiamo sempre solo cose cosichiamate colte. Il sopportare Masenet e’ questione che posso comprendere, a me piace, a te no, e fin qui’ tutto bene, ma io ne sento proprio tanti di titolli dati e poi dati e dati decine di volte, molti anche belli, per carita’, ma non ci sono solo quelli. Frequento anch’io delle persone, e molte di loro, gradirebbero il repertorio del quale abbiamo parlato, non solo questo,ma anche questo. Credimi. E Santo cielo. E poi vorrei sapere chi ti ha detto che non mi piacciono Wagner e Mussorgsky, e tutto sommato anche Berg. E se per te alcuni giudizi sono inaccettabili, continua a farmelo sapere come hai fatto ora. E poi, alla fine, non ci vuole molto a capire che non sono una persona colta, cerca di capire le esigenze e le possibilita’ limitate degli altri . Un abbraccio.

          • Ahahaha! Ho letto adesso la lista degli spettacoli che hai in mente, ma, se non si riesce a mettere insieme una Bohème decente, dove e come pensi di poetr fare una cosa del genere, Magari! Sono completamente d’accordo, mi accontenterei anche di un quarto dei titoli elencati, in questo caso si potrebbe anche non pensare alla Mignon o alla Marta, ma almeno non avremmo visto il millesimo Tristano o la millesima Tosca. P:S: Per quanto riguarda Glinka, preferirei Russlan a Susanin, e’ una delle opere piu’ belle, secondo me, e non solo del repertorio russo.

        • Ahhhh vedo che non è un’ossessione tutta mia, quella di MIGNON. E già che ci siamo io venderei l’anima al diavolo (che poi in realtà non la vorrebbe nemmeno) per una MARTA, possibilmente entrambe in italiano. Ma mi rassegno, non sono opere di moda, come si dice ora … trendy!

          • Se le dovessero dare bene, caro robusto, sarebbero molto piu’ che di moda, s’inizierebbe semplicemente ad ascoltare di nuovo, lavori scritti espressamente per essere cantati (bene), e ti assicuro, riempirebbero quei desolanti vuoti che a teatro si notano quando ci sono i lavori kulturali, mi raccomando la dieresi sulle due u. Son d’accordo con te, e mi van bene in italiano, in francese, in tedesco. Ciao, chissa’ quando potremo rivedere le tanto vituperate Lakme’, Pescatori, Rusalka…oltre ovviamente alla Marta, chiaro. Pernici, pernici, sempre pernici…c’e’ anche la gallina ripiena.

          • pare che attila a roma sia andato in scena con un terzo del teatro vuoto……..bello eh? ….ma adesso cominciano anche a metterci numeri sulle braccia per distinguerci e schedarci in eterno, cosi riempiranno ancora di piu…..

          • A parte il fatto che il proprio perchè vecchio i primi Janacek ed i primi Britten ho avuto la fortuna -sottolineo FORTUNA- di sentirli in italiano (e aggiungiamoci pure l’ONIEGHIN e LA DAMA DI PICCHE ed il BORIS ed il LOHENGRIN) ritengo che sia la MIGNON che la MARTA da noi si debbano perentoriamente fare in italiano.
            E datemi pure dello “snob alla rovescia” Ahahahahahaha!!! :-)
            Ma io credo che si potrebbe fare anche una MARINA di Arrieta, in italiano? Pur di vederla eseguire qui da noi, perchè no? 😉
            Il discorso è che il “genere melodico” non è più di moda, come non lo era la gelosia per il Trio Lescano.
            Certo è che questa smania di fare un Britten ogni stagione e di ripetere il GRIMES ogni due per tre, datemi pure dello zotico, non la capisco …

          • Caro Miguelito, LAKME, PESCATORI e RUSALKE se ne vedono e sentono ogni tanto in giro :-)
            Ma MARTA, tolta l’edizione che curò Celletti a Martina Franca -io ai tempi non frequentavo, in quanto studente e povero- non s’è data da tempi immemorabili.
            Un po’ più di fortuna la ha avuta MIGNON che circolò in provincia a fine anni Sessanta (io la beccai a Trieste con la Casoni e Lucia Cappellino) e quindi la memorabile edizione fiorentina con la Valentini e la Serra.
            Io riporterei in scena anche LE CAMPANE DI CORNEVILLE di Planquette, VERONIQUE di Messager o piuttosto I MOSCHETTIERI AL CONVENTO di Audran, ma mi rendo conto che sto rintuzzandomi in una nichhia più buia dell’antro oscuro in cui si era rifugiato l’Angelotti calandosi nel pozzo del giardino hihihihihihihi 😀

          • Esattamente come non capirebbe chi magari non ama il melodramma italiano o l’opera francese, o Wagner o Verdi: siamo seri…non si facciano elucubrazioni sulla scelta dei titoli. Ciascuno di noi ha opere che vorrebbe sentire e altre che non ascolterebbe manco in catene… Una stagione non può riflettere i gusti di tutti: nessuno è obbligato a sentire Britten o Massenet o Flotow…

          • Certo che le fanno, ma io abito a Milano, non sono ricco e non posso piu’ permettermi come in gioventu’ d’andare allo sbaraglio: ho bisogno di un’albergo di un buon ristorante e anche di altro. E comunque alcuni titoli sono troppo poco rappresentati rispetto a quella che sarebbe la richiesta. Chi va a teatro, e possibilmente in vari teatri, sente che il pubblico farebbe volentieri a meno di qualche capolavoro, almeno ogni tanto. Ho buttato li’ tre titoli che mi son venuti in mente, ce ne sono tantissimi altri. La Mignon l’ho vista anch’io sia a Treviso che a Firenze. E non ho trovato fossero recite memorabili. La Rusalka quest’anno e’ rappresentata a Praga e in Francia non so dove…qui’ da noi da quanto tempo non si sente? Al di la’, tu dici Marta, ok, e tutte le altre opere di Nicolai, Marschner, Flotow etc. etc. quando le senti? Invece si danno settemila rappresentazioni ogni anno delle stesse opere. Una noia, se permetti. Tutto comincio’ , per lo meno qui’ a Milano con il famoso festival Berg, e giu’ cultura, e subito dopo il festival Mussorgsky (cantato malissimo e rigorosamente in russo), e giu’ cultura. Ed infatti guarda che belli gli spettacoli che ci siamo ridotti a vedere, e, come son cantati bene…ma se dici qualcosa di popolare, guai al cielo…e giu’ cultura, i ragazzi poi non ti dico, coltissimi. I trattati di canto li hanno letti solo loro, non puoi dire be’ che ti dicono quante volte andava al gabinetto Wagner…e giu’ cultura.

          • adesso con lissner facciamo il repertorio piu comune in forma kulturale…….kultuaida, kultutosca, kulturdongiovanni e ci siamo lasciato scappare un bell’allestimento kulturale di rigoletto…..in attesa del lohengrin piu kulturale della storia, dove dalla kazzuola e dai mattoni kulturali passerano a qualche new tech in attesa dell’archistar kulturale dell’anno prossimo. Una vera indigestione. Avete letto Micheli oggi su Corsera..? Ha scoperto che la acala sta diventando un teatro per turisti……adesso……

          • Perdonami Miguel, ma trovo che siano considerazioni INACCETTABILI: Berg non è un lusso, Musorgskij non è un lusso, Wagner non è un lusso. Che a te e ad altri, non piacciano…beh, francamente chissenefrega (e altrettanto dico di quel che piace a me, naturalmente): cioè non è che se qualcosa non ci piace allora è roba per “intellettualoidi” e “culturame vario” (espressioni orribili, Giulia…ancora qui siamo? A fare la classifica dei buoni e dei cattivi?). A parte che in una stagione che su 13 titoli (quasi tutti scelti nel repertorio più vasto e consueto), parlare di “inopportunità” per un’opera una di Britten, mi sembra davvero esagerato… Il fatto è che i tuoi gusti sono legittimi come i miei e come quelli di ciascun altro…diventa un problema, però, quando qualcuno ritiene che i propri gusti siano “giusti” e quelli degli altri “sbagliati”. Ora che dovrebbe dire chi detesta – come il sottoscritto – Massenet, Gounod e compagnia bella e che ogni anno si vede infliggere uno dei loro “capolavori” tra capo e collo? A me questi sembrano discorsi da bar sport, dove tutti, in occasione dei Mondiali, danno lezioni su quali giocatori convocare, naturalmente dicendo che la scelta degli altri è una fesseria: la realtà è che la tua stagione ideale è differente dalla mia (e non ti dico quali opere metterei), come è differente da quella di Giulia. Nessuna però è giusta o sbagliata. Così come nessuno mi punta la baionetta alla schiena per costringermi a vedere quella “robaccia” (a mio insindacabile gusto s’intende) di Massenet, così nessuno la mette a te per obbligarti a vedere Berg o Britten.

            Ps: le espressioni come “culturame” però, lasciamole a indegni ex ministri della repubblica…disonorano, più che altro, chi le usa.

          • Anzi…te la dico proprio la mia stagione ideale :)
            1) niente di Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi (non perché non mi piacciono, ma perché siamo all’overdose o al dilettantismo);
            2) un bel Matrimonio segreto…che sono anni che non si vede in scena; il Barbiere di Paisiello e ti lascio la scelta per un altro titolo “napoletano” (magari la Nina ogli Orazi e i Curiazi di Cimarosa);
            3) un paio di titoli da scegliere tra Handel e il sommo Telemann;
            4) per l’opera francese: Pelleas et Melisande, Benvenuto Cellini, Samson et Dalila o Lakme, e, soprattutto, una bella “opera-bouffe” di Offenbach (che sono capolavori, ma qui da noi vengono ritenute “operette” da nulla);
            5) Spohr (magari Jessonda), Lortzing (sono tutti capolavori), Weber (Euryanthe), Schubert (Alfonso und Estrella);
            6) Meistersinger di Wagner, Moses und Aron e (mio sogno) Palestrina di Pfitzner;
            7) spazio al ‘900 italiano: una Fanciulla del West come si deve però, Francesca da Rimini e Parisina di Mascagni (magari integrale e scelto come spettacolo inaugurale);
            8 ) naturalmente Boris Godunov e un’altra opera russa (Glinka o Rimsky-Korsakov)
            9) Il Ratto del Serraglio e Così fan tutte

          • ….e queste invece a chi le fai cantare?….il problema cantanti è lo stesso di rossini etc…una bella fanciulla con quale urlante signora?…la dalila poi mi interessa sapere come si chiamerebbe…..assieme alle due signore degli orazi e curiazi….Non è che se i titoli sono meno frequanti, i cantanti sono migliori che in verdo o rosssini….

          • Giulia, io facevo solo un elenco di titoli: dal momento che si parlava di scelte “snob” o meno, di titoli “alla moda” e dell’inopportunità di Berg, Musorgskij o Britten etc…

      • Concordo totalmente sul primo punto. Basta scegliere.
        Concordo sul secondo punto.
        Sul terzo punto dico solo che: abbiamo la possibilità di poter ascoltare la vocalità dei prime interpreti, possiamo leggere spartito e partitura, abbiamo i mezzi storici per poter analizzare il contesto, le vocalità, i repertori dei cantanti e quindi farci più di una idea per quanto riguarda le pretese di Britten o Strauss (ad esempio), possiamo quindi far tesoro e applicare tutte queste informazioni.
        Magari potessimo avere questo materiale per conoscere la voce degli interpreti di Donizetti, Bellini, Rossini, Wagner, Verdi, Mozart e su fino a Monteverdi; ci sarebebro in giro meno pasticci e “reincarnazioni”.
        Poter ascoltare la voce dei primi interpreti, conoscere il loro repertorio, leggere la musica possono servire come ottimo punto di partenza per applicare tali stilemi o esplorare nuove interessanti strade.
        Sull’ultimo punto: a me interessa tutto quello che si scrive in giro, senza distinzione, aiuta molto a conoscere le idee degli altri ed a farsene delle proprie… e magari rispondere 😉

        • Non credo che il fattore “primi interpreti” possa valere per tutti: certamente potrebbe valere per il melodramma (a patto di saper distinguere lo sghiribizzo del cantante, la disponibilità dell’autore a modificare, la contingenza, la fretta e gli abusi da parte di impresari e teatri), ma va presa con le pinze per compositori che non scrivono più per il cantante, ma scrivono musica secondo la loro ispirazione (ed è ovvio che sia così, in un mondo che cambia e in cui il processo compositivo non si riduce alle 2 settimane del Barbiere, ma occupa mesi e anni). Prendi il caso di Elektra: la prima Klytaemnestra fu la Schumann-Heink di cui Strauss fu sempre insoddisfatto, tanto da invitare gli ottoni a suonare il più forte possibile per non far sentire la sua voce…
          Allo stesso modo diffido dal repertorio di un cantante ottocentesco per identificare un personaggio, dato che – lo sappiamo tutti – all’epoca i ruoli venivano adattati (anche pesantemente): l’unico riferimento – per inquadrare la vocalità – è e deve essere la musica scritta (che è poco contestabile), le eventuali lettere dell’autore in merito e le testimonianza d’epoca.

          • ma sempre strauss riguardo la prima crisotemide frau siems ( parente strettissima come vocalista di ernestine) e prima marescialla nel 1917 chiedeva ad hoffmastall se la siems fosse sempre la siems e godeva della costante salute vocale del soprano. Oggi noi alle due affideremmo profeta orfeo semiramide….. e cantavano strauss. Quanto al rapporto ocn la schumann-heink l’invito di strauss te la dice lunga sulla qualità sonora della signora. E poi l’orchestrale sotto Klytemnestra non è dei più straussiani, anzi un po’ come l’imperatrice di frau.

          • Per dire che l’equivalenza ruolo/primo interprete non sempre è fondamentale, né d’aiuto, né importante… :)

    • Concordo con tutto quanto scritto da Antonio Tamburini.L ‘approccio di Olmi e’ sicuramente piu’ riflessivo di quello di Mariotti, ma il finale primo mi e’ parso vagamente Beethoveniano e alla fine, veramente virtuosistico per velocita’ e accenti.Alle prime recite pero’ il ruolo di Lindoro era cantato dal giovane Yijie Shi, gia’ sentito a Pesaro e a Firenze. Qui pero’ il ragazzo e’ letteralmente esploso:reso forse piu’ sicuro da una bella produzione di Italiana a Nancy ( trasmessa dalla televisione francese il 12 maggio) con lo stesso direttore Olmi ,
      ha sfoggiato acuti, agilita’,buon timbro generoso( a volte forse troppo) e presenza scenica accattivante.
      E’ stato per me il vero protagonista della produzione di Bologna.
      Quando l’Italiana in Algeri bolognese sara’ trasmessa in tv e disponibile in dvd( io l’lho vista ianche il 15 maggio al cinema) credo si potra’ verificare quanto dico.

  2. Che sia la Pizzolato la prescelta Cenerentola di Andermann-Verdone prevista per il 3-4 giugno prossimi? A proposito, a due settimane dall’evento non si sa ancora nulla, in TV manco se parla…
    Comunque tanto di cappello a Pertusi!

  3. MiguelFleta, Giulia…ricomincio da qui sotto: c’è un groviglio tale nelle risposte che per inserire il mio ultimo commento ho dovuto usare una piantina….

    Ps: Miguel, io non credo esistano titoli “culturali” e titoli “triviali”… E’ solo questione di gusti: “inaccettabile” era riferito non al preferire una cosa all’altra, ma il ritenere – come mi pareva dall’andazzo della discussione – alcuni repertori “appannaggio” di sedicenti “intellettualoidi”. Secondo me non è così. Tra l’altro la Marta di Flotow è opera molto bella (insieme al suo Alessandro Stradella, che ho scoperto da poco) che vedrei volentieri (certamente più dell’ennesimo Barbiere, Tosca, Lucia o Italiana in Algeri). Anche io preferirei Ruslan (che è un’opera straordinaria).

    • Bene, un’ultima cosa, forse non sono stato chiaro : Festival Mussorgsky cantato e dato male, nonostante la grandezza dell’autore, e spacciato per evento non solo culturale ma imperdibile, (idem dicasi del Festival Berg) , questo di Berg forse prima non l’ho scritto, è miserrima cosa rispetto ad una qualsiasi rappresentazione di qualsiasi autore. Me le ricordo bene le facce degli spettatori all’uscita di quegli eventi culturali…e la Giulia dice bene quando afferma che ora tutto viene spacciato per cultura… parti’ da quei festivals. Prima si andava semplicemente a teatro, caro Duprez, a vedere uno spettacolo, e a volte si vedevano pure cose egregie. E avrei potuto usare qualsiasi musicista al posto di Wagner. Wagner non c’entra proprio niente. Ma che ci siano oramai centinaia di persone con le quali e’ divenuto quasi impossibile dialogare di musica o di canto o di teatro in modo sereno, e’ secondo me vero, e la maggior parte di quelle persone, esibenti conoscenze o a volte anche limiti a seconda dei casi, sono proprio quelle che di solito sanno quante volte alla settimana Vivaldi cambiava la sottana. Ciao Duprez. A presto.

  4. Felicissimo di sentire proporre un’opera secondo me tra le più grandi del ‘900 italiano come Parisina (benissimo anche solo rammentarla, anche se decisamente poco adatta a essere digerita dal neo pubblico di turisti e presenzialisti una tantum). Una cosa è sicura: se ci studiamo i cartelloni (non solo italiani) si ha la desolante impressione di vedere ripetuti all’infinito e inesorabilmente sempre gli stessi titoli. Magari, per ovviare alla noia della perenne iterazione, con allestimenti dove si reinventa tutto tradendo le intenzioni dell’autore e completando la frittata. E’ anche così che il teatro d’opera perde cultutalmente terreno. Dando l’impressione che si tratta del luogo in cui la massima tensione culturale sia quella di voler ascoltare per la 400a volta Traviata. ( Come scrissero qualche tempo fa Ceronetti e Cacciari accendendo una polemica nemmeno troppo peregrina ). Allora meglio esplorare un titolo che sia anche minore ma sconosciuto o poco conosciuto (e andrebbe benissimo anche Massenet o – avendo gli interpreti – Meyerbeer. Per non parlare dell’auspicabilissima esplorazione di tanti autori italiani che hanno composto prima e dopo i soliti in repertorio).

    • Discorso pacato e pieno di buon senso, caro Gianmario, ma ciò che sfugge ai non appassionati di teatro d’opera (Cacciari? Ceronetti? Tanti, quasi tutti) – e che li porta a formulare l’accusa di perenne iterazione e quindi di conservatorismo – è che in ballo non c’è solo il racconto nel tempo delle partiture che ne formano il corpus, ma anche quello della loro interpretazione ed esecuzione.

      Lo spettatore accorto dispone di un bagaglio di esperienze che lo guida nel districarsi attraverso la selva delle esecuzioni verso un giudizio CRITICO, che è raggiunto non solo in base a quanto ha studiato ma soprattuto a quanto ha visto e sentito in precedenza.

      Provo a dare un esempio. La nota soul nella voce di Leontyne Price (vista in Ernani, Trovatore, Ballo, Forza, Aida) aggiunta a tutto ciò che è richiesto per un canto “verdiano”, me la rende molto cara. E tanto vale per tutti i grandi: rispetto e consapevolezza della tradizione uniti a un che di individuale. Certo, il gusto personale c’entra, ma bisognerebbe essere molto cauti a non cadere nella trappola delle “emozzzzioni”.

      Il repertorio esiste e resiste, e va allargato ogni volta che se ne presenta l’occasione (ricordate gli Ugonotti della Scala?), e l’occasione è legata a una certa stimmung e soprattutto alla disponibilità di interpreti ideali o quasi.

      Purtroppo la mia impressione è che un mefitico vento mediatico si sia abbattuto, con conseguenze disastrose, sulla nostra forma d’arte preferita, portandoci sulle sue ali tante Manon (per me tanto più squinzia della sua omonima pucciniana), Fille, ecc. con cantanti ai limiti del pop e in produzioni insensate, e altri eventi grotteschi, come le imprese di Andermann che, secondo loro, dovrebbero avere un impatto più forte della prima di “Salome” a Graz. Ma non funzionerà.

    • Parisina sarebbe una bella sfida: di intelligenza soprattutto. Un decisivo passo avanti per dimostrare che – come al solito – la realtà è più complessa delle sue teorizzazioni e che non ha più senso ridurre il ‘900 italiano al termine “verismo” (usato sempre in tono sprezzante), alle ingenuità del romanzo d’appendice o alla mielosità stucchevole dei “buoni sentimenti”. Parisina è opera ambiziosa e testimonia un consapevolezza nell’uso di determinati stilemi compositivi che non corrispondono all’immagine che la vulgata ha voluto trasmetterci di Mascagni (trattato come i cultori del cinema “d’essai” trattano i cinepanettoni).

    • E peraltro ricorrendo e rincorrendo sempre e solo gli stessi titoli di entrambi i compositori (mi piacerebbe, a giochi fatti, fare una tabella comparativa e vedere quali opere verranno replicate in tutti i teatri “del Regno”). Ho sempre creduto che nel caso di compositori che già occupano la maggior parte dei cartelloni di ogni teatro e ogni anno, le ricorrenze “ufficiali” dovrebbero servire come occasione per esplorare i pochissimi angoli oscuri del loro catalogo (ad esempio il Wagner pre canone), offrire versioni particolari di opere già di repertorio (le prime versioni di Macbeth, Forza del Destino, Simon Boccanegra, Don Carlos) oppure esplorare il mondo musicale meno noto che ha influito sullo stile del compositore o che rappresentava la quotidianità (l’opera romantica tedesca: Marschner, Lortzing e pure Hoffmann; l’opera italiana di consumo: penso sempre a “I Goti” di Gobatti che tanto scaldarono gli animi degli scapigliati italiani, o l’ “Amleto” di Faccio). Altrimenti che senso ha “celebrare” gli autori più eseguiti al mondo con la 400a edizione di Traviata o il solito Tannhauser (magari nella consueta “edizione Bayreuth” con il mix indigesto di Parigi e Dresda)? Così si fa davvero “cultura”….non trasformando Lohengrin in un dirigente di banca in crisi coniugale!

      • Ma magari si facessero le tre opere “fuori canone”, dando la possibilità ad autentiche giovani promesse del canto wagneriano di mettersi in gioco con “Das Liebesverbot”; magari si mettesse in scena un “Tannhauser” versione Dresda, ma col finale originario, oppure versione Parigi in francese, oppure versione integrale con le modifiche successive (Vienna e oltre per intenderci), è un’opera talmente ricca che ci si può sbizzarrire; magari si mettessero in scena le prime versioni dei drammi verdiani; oppure esplorare le versioni Grand Opera come Don Carlos INTEGRALE ed in francese, un Trouviere, o Les Vepres…
        certo, valli a trovare cantanti capaci di simili prodezze…

      • In realtà di “canto wagneriano” vero e proprio nelle prime tre opere non v’è traccia alcuna 😉

        Quanto a Tannhauser: in francese mi pare scelta bizzarra e non necessaria…mi basterebbe che si scegliesse la versione di Dresda o quella di Parigi, senza inutili mix.

        Non credo, però, si tratti di “prodezze” (neppure credo che il Verdi francese sia più complesso…anzi, forse è vero il contrario: io poi – che reputo il grand opéra un carrozzone – preferisco le versioni italiane…il Don Carlo per me è quello in 4 atti). Basterebbe avere una più seria programmazione: più ragionata e più professionale.

        • Posso capire Die Feen (prima opera giovanile e postuma) e Das Liebesverbot (interpretata da cantanti di terza scelta), ma se prendi il Rienzi, per quanto si rifaccia ai modelli francesi, possiamo parlare dei due cantanti, Tichatscheck e la Schroder-Devrient, che influenzarono maggiormente il gusto wagneriano e la composizione dei successivi ruoli, assieme a Niemann ed ai coniugi von Carolsfeld e Vogl 😉
          Sono d’accordo per gli inutili mix, ma anche esplorare le varie edizioni/forme del Tannhauser trovo sia una cosa molto stimolante e del massimo interesse, anche per capire quanto le modifiche ed i mutamenti d’epoca e di gusto di Wagner abbiano influito a cambiare i connotati musicali dell’opera nei vari passaggi.
          Il Don Carlo è per certo quello in 4 atti, così come Verdi lo ha voluto, ma il Don Carlos è in 5 e mi piacerebbe assistere ed una sua versione scenica integrale, ovvero con tutti gli inserti espunti alla prima parigina, e che fortunatamente si conoscono… sempre a patto di avere a disposizione le voci 😉

        • Ma il Rienzi è un puro e semplice grand opéra in stile francese (con inserti di romanticismo tedesco, ovviamente), debitore di Meyerbeer, Spontini, Mendelssohn… Vocalmente c’entra assia poco con il “canto wagneriano” del canone. Rienzi – per me – è opera francamente dimenticabile, ma affascinante. L’ouverture è l’unica parte che salverei (e che ritengo uno dei capolavori musicali di Wagner).

          E’ una scelta difficile quella della versione di Tannhauser: Dresda è senz’altro più compatta (e la coda dell’ouverture è straordinaria), ma rinunciare alla revisione del Venusberg e al baccanale è davvero difficile. Lo stesso vale per l’Hollander: prima o seconda versione? Ballata gotica e lugubre o redenzione morale? Forse preferisco la prima (come Klemperer).

          Sul Don Carlos in 5 atti: pure a me piacerebbe sentirlo, prima o poi, nella sua forma originale (con tutto il bric-à-brac e le cianfrusaglie da grand opéra: brutto balletto compreso). Non trovo però che sia più arduo della revisione, anzi…mi sembra vero il contrario.

          • Proprioin questi giorni sto approfondendola cosa, e mi sembrache il Don Carlo in soli quattro atti presenti delle notevolicarenzedi logica narrativa rispettoalla versione in cinque atti… Anche la psicologia dei personaggi, e il loro agire, vengono in qualchemodo compromessi dalla soppressione dell’atto – per altro bellissimo – di Fontainbleau. Poi mi sembradi ricordare che fu lo stesso Verdi ad approvare l’esecuzione dell’atto di Fontainbleau a Modena nel 1884, quindi non sarei così perentorio nel sostenere che il Don Carlo “è” quello in quattro atti…

          • Non trovo alcuna carenza logica: tutt’altro. La versione in 4 atti è più compatta, claustrofobica, tragica, senza l’inutile prologo nel parco di Fontainbleau. Verdi disse che era “solo musica” non necessaria al dramma. Certo è più cupo e pessimista, ma assai più misterioso e meno frivolo.

          • ma dai, Fontaibleau è bellissimo!…perchè vuoi compattezza, azione, claustrofobia da un gran operà, perchè il don carlos è un gran operà…..mica è il rigoletto…

          • Non dimenticando che COMUNQUE l’atto di Fontainebleau fa parte della versione francese in 5 atti e che Verdi stesso licenziò la versione in 4 apposta per ottenere gli effetti descritti da Duprez..
            Eppure, quando a Firenze vidi la versione in 4 atti con l’aggiunta dell’atto di Fontainebleau, devo dire, che l’effetto fu drammaturgicamente diverso e più emotivamente trascinante.
            Poi l’atto di Fontainebleau è musicalmente uno splendore e psicologicamente, affrontando cioè l’innamoramento di due adolescenti con delicatezza paterna, una gemma.
            Piuttosto resta sempre la “zeppa” della scena nei giardini della Regina: in quella in 5 si capisce perfettamente l’equivoco in cui cadono Eboli e Don Carlo, nella versione in 4 Eboli piomba in scena non si sa bene come e perchè travestita da Elisabetta… ed è solo un esempio 😉

          • Solo il Don Carlo del ’67 era un grand-opéra…quello dell’84 no: è un’opera completamente diversa (a mio giudizio superiore). Appiccicare un atto di grand-opéra (con le sue frivolezze) ad un corpo completamente differente, produce una specie di sfinge.

            Marianne, tu però ti riferisci alla versione del ’67, perché Modena ’86 è la versione in 4 atti più il prologo del ’67.

            Ps: io non trovo così riuscito l’atto di Fontainbleau – soprattutto nella sua versione originale con la processione di boscaioli, reduci, vedove, madri, figlie, cacciatori, artigiani etc… – lo trovo musicalmente estraneo a tutto il resto. L’inizio della versione in 4 atti è straordinario, invece…e la romanza di Carlo acquista tutto un altro valore. Così come il preludio al terzo atto.

          • Quella di Firenze era la versione modenese (senza i cori delle madri e dei “lavoratori” e la scena del rosario) alternata a quella “verdiana” in 4 atti.

    • In realtà Verdi non approvò un bel nulla :) …semplicemente non si oppose, ma non gli interessò affatto quella ripresa, dato che neppure si spostò da Genova per seguire il nuovo allestimento. Ci sono lettere molto interessanti al riguardo.

      • Senza dubbio la versione in quattro atti è più cupa, pessimistica, etc. Ma non me la sentirei di definire “inutile” o “frivolo” l’atto di Fontainbleau, la cui assenza mi sembra al contrario rendere quasi incomprensibili alcune delle scene degli atti successivi, in particolare per quanto riguarda il rapporto Carlo-Elisabetta-Filippo (senza contare che alcune situazioni, come il duetto tenore-soprano nel chiostro di San Giusto, risultano molto meno calzanti e d’effetto se private del loro contraltare “gioioso”). Personalmente, poi, mi sono sempre domandato cosa capisca della vicenda in quattro atti lo spettatore che vada a teatro senza sapere nulla del Don Carlo.

        Non conosco le lettere da te menzionate, però il fatto che un autore come Verdi, così attento alle cose drammaturgiche e alla gelosa tutela del proprio operato, NON SI SIA OPPOSTO, non mi sembra poi un dettaglio così trascurabile.

        • Credo si capisca tutto perfettamente: semplicemente la vicenda precedente resta distante…e l’effetto straniante della romanza di Carlo (nella nuova collocazione) è molto più efficace.

          Del resto è lo stesso Verdi a ritenere la versione in 4 atti “migliore” perché più compatta…e priva delle cianfrusaglie del grand-opéra (che Verdi sempre disprezzò: basta leggere le sue lettere).

          La versione di Moden non interessò minimamente a Verdi, non si oppose al reinserimento del primo atto, certo, ma non significa che lo approvasse…anche perché non fu lui a curare il ripristino. Considera poi che è improbabile che Verdi – che aveva revisionato ogni singola battuta dell’opera nella sua versione in 4 atti – si sarebbe limitato ad appiccicare musica di 20 anni precedente (e stilisticamente meno matura e rifinita) in un contesto completamente rinnovato: probabilmente Verdi lasciò fare…ormai pensava ad Otello.

          Per me la versione Modena 1886 è la peggiore dell’opera, nel suo tentativo di salvare capra e cavoli, ottiene l’effetto contrario: il primo atto (che pure contiene musica pregevole) appare incoerente con il resto, e gli altri quattro perdono di concisione drammatica. Oltre ad allungare inutilmente il brodo.

          • Va bene, sarà come dici tu… Posto che di cianfrusaglie particolarmente pacchiane nel primo atto (Fontainbleau) non ne vedo (allora l’auto da fé che cos’è?),non vorrei che la discussione diventasse una dimostrazione della superiorità del don Carlo in 5 atti su quello in 4, o viceversa…

          • Un’ultima cosa, Gilbert-Louis. Ovviamente non voglio convincerti di alcunché, ma faccio notare che probabilmente nella versione in 4 atti tutto sembraestremamentechiaro per chi abbia già assimilato l’atto di Fontainebleau e lo dia per scontato. Voglio dire, tu ricordi sicuramente le vicendee i duetti che si svolgono in Franciaquandoascolti i quattro atti, tutti spagnoli, della revisione, e puoi fare collegamenti, noti la ripresa di temi… L’ascoltatore o lo spettatore che non abbiano tali basi saranno per forza più spaesati e quindi meno coinvolti in una vicendache non si sa bene come si sia sviluppata.

  5. Giulia e Marianne hanno capito quello che volevo dire, e hanno espresso delle argomentazioni che a me erano rimaste “nella tastiera”.
    Voglio dire che nella versione in 4 atti ci sono davvero tanti particolari che restano oscuri, e poco comprensibili, qualora non si conosca il primo (ad esempio, ascoltare “Tu che le vanità” senza conoscere Fontainebleau, è un po’ come ascoltare la scena della pazzia di Lucia di Lammermoor senza aver mai ascoltato “Verranno a te sull’aure”: resta un momento altissimo, ma c’è qualcosa che non possiamo cogliere fino in fondo).
    Tu, Gilbert-Louis, sei sicuramente molto più informato di me sulla faccenda, e non metto in dubbio che ci siano delle lettere di Verdi dalle quali si capisce che per lui il Don Carlo fosse ormai quello in quattro atti. Però l’assenso che egli diede al reinserimento di Fontainebleau a Modena e l’assenza (?) di documenti in cui Verdi definisca il Don Carlo in cinque atti un abominio da evitare come la peste, mi fanno pensare che quest’opera sia in qualche modo un lavoro “aperto”, e che la scelta di rappresentarla in 5 atti possa avere una sua pertinenza da un punto di vista filologico.
    Poi, tu dici che la soppressione dell’atto di Fontainebleau rappresenta l’eliminazione di cianfrusaglie da grand-opéra, però a me sembra che di cianfrusaglie ce ne siano anche in ciò che Verdi ha lasciato, come la canzone del velo o l’auto-da-fé, che, se eliminati, nulla toglierebbero – quelli sì – all’impatto della vicenda narrata…

  6. tanto avremo tempo e luogo per discutere di don Carlos. O più in generale di discutere si Verdi e grand- opera atteso che Jerusalem è poco più che un assaggio del genere per Verdi. Premesso che lo ritengo uno dei lavori meglio riusciti di Verdi (i cui capolavori lo dico subito per l’amico Duprez NON sono ne Otelo nè, tanto meno quella menata insopportabile di Falstaff) si ain quattro che in cinque atti. Quello in quattro mi sembra un po’ ridotto e stringato (poi mi domando, caro Duprez come mai ti piacciano assai più Martyres chenon Poliuto, che hanno lo stesso rapporto) quello in cinque (tagli o non tagli) un po’ sbrodolato e poco grand-opera. Ma qui devo confessare che noi del genere abbiamo l’idea mutuata dai primi e paradigmatici titoli ossia Ebrea, Muta, Roberto ed Ugonotti e, forse nel 1867 il genere era già molto molto modificato rispetto al paradigma. Sono solo spunti per il futuro ossia per le puntate di Verdi Edission di là da venire

    • Ti rispondo volentieri, caro Domenico, rimandando ad altro luogo una discussione più approfondita su Don Carlo/Don Carlos.
      1) innanzitutto voglio distinguere nettamente le due versioni dell’opera: il grand-opéra del 1866/67 (con tutte le concessioni alle esigenze di genere: balli, scene di massa, marce, processioni e presenza di elementi “leggeri”) e l’opera del 1884 (che Verdi reinventa del tutto, intervenendo su ogni singola battuta, eliminando ogni elemento decorativo e ricercando compattezza e nerbo). Tenuto conto di questa fondamentale distinzione – aldilà delle personali preferenze – trovo “insensato” unire l’atto di Fontainbleau (che risale ad una determinata fase verdiana, fortemente “costretta” dalle imposizioni del grand-opèra) ad un corpo musicale completamente riscritto che risente della successiva esperienza musicale dell’autore (maturata in 20 anni di ulteriore carriera). In questo senso la versione Modena 1886 è debole e mal assemblata: Verdi la tollerò (era uomo pratico e, pare, molto attaccato allo “sterco del demonio”), ma se ne disinteressò completamente, non presenziando alle prove e neppure alla prima e non intervenendo sul tessuto musicale.
      2) trovo i Martyres superiori al Poliuto non per la divisione in 5 atti o per la trasformazione in grand-opéra (nonostante appartenga all’epoca d’oro del genere: più vitale e attuale rispetto a Don Carlos che risente di un certo manierismo), ma per la superiorità musicale dell’opera, profondamente rivista dall’autore (che ebbe modo, finalmente, di esprimersi con più libertà e costruzione).
      3) dici bene: nel ’67 il genere si trascinava e non convinceva più nessuno (Verdi in primis: basta leggere i suoi gustosi resoconti dall’Opéra).
      Ma ne riparleremo.

      Ps: per me Falstaff è il capolavoro di Verdi :)

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