I venerdì di G.B. Mancini: impariamo ad ascoltare. Tredicesima puntata: Placido Domingo in Otello.

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Placido Domingo è l’emblema della svolta subita dall’arte del canto nel Ventesimo Secolo come conseguenza della diffusione del disco. Il trionfo del colore, del timbro, la voce fonogenica – indispensabile per fare carriera discografica – come attributi fondamentali ed intrinseche fonti di espressività, non più semplici valori aggiunti, perlomeno stando alle parole di quella critica che non distingue l’arte dalla cosmetica. Per inciso, trionfo del timbro non significa certo trionfo delle grandi voci, si pensi per esempio ad un colosso vocale come Del Monaco cui il disco non riesce a rendere piena giustizia. Ad una analisi attenta del canto di Domingo risulta poi evidente che la sua oramai proverbiale “morbida brunitura” nel centro altro non è che la conseguenza di una emissione assai artefatta, molto indietro ed ingolata. Il suono cioè non si forma “fuori”, libero, ma resta volutamente invischiato in gola mediante le contrazioni della stessa. Ne sia prova l’ascolto di questo brano, la cui scrittura centralissima e articolata tutta sulla continua ribattitura di una stessa nota suggerisce un approccio che al canto privilegi il “dire”, e con esso la più semplice naturalezza di emissione. E invece fin dal primo attacco iniziamo già a sentire una emissione bassa, morchiosa, che contamina la pronuncia (la “i” di “Dio”, tanto per cominciare). I tentavi di cantare a mezzavoce si traducono in suoni la cui intensità non è regolata dal controllo del fiato ma solo dalla maggiore o minore arretratezza e mollezza di posizione (“ma o pianto o duol…”). Il centro così artificiosamente annerito rende poi necessario l’escamotage di risolvere il settore acuto su un suono intervocalico molto schiacciato che tende alla E, basti ascoltare –osservando la posa sguaiata della bocca – la salita al sib di “quel sorriso quel raggio”, dove già sulla O di “sOrriso” – sol3 –  si rende necessario rifugiarsi in una posizione aperta e schiacciata che trasfigura la O in una specie di e: la matematica conseguenza della pesantezza di emissione nel centro. Lascio dire il resto ai lettori.

G.B. Mancini

22 pensieri su “I venerdì di G.B. Mancini: impariamo ad ascoltare. Tredicesima puntata: Placido Domingo in Otello.

  1. Vorrei fare un gioco: scrivo una ipotetica voce enciclopedica per Placido Domingo.

    Placido Domingo (Madrid, 1941 – in vita) – tenore e direttore d’orchestra.
    Ancora attivo sulla scena, ha debuttato nel campo zarzuelesco compiendo delle tourné in Messico, per poi approdare all’opera negli anni ’60 e cantare in tutti i maggiori teatri del mondo con tutti maggiori interpreti dell’opera del dopoguerra.
    Guidato da una forte professionalità e ferrea personalità ha cantato un vastissimo repertorio, spesso superiore alle sue modeste doti vocali, costituite da una voce corta, poco potente e proiettata, guidata da scarsa perizia negli acuti – non rare le stecche superato il la3 – che l’avrebbero reso un ottimo interprete di personaggi secondari dell’opera ottocentesca quali Ismaele, Fenton, Carlo, e per l’opera handeliana.
    Ha fortemente curato la sua immagine mediatica lungo tutta la sua carriera, portandolo inizialmente alla registrazione audiovisiva di opere integrali – non prive di aggiustamenti tecnici (cfr. Trovatore, 1978) – per poi approdare al successo mondiale con i colleghi Luciano Pavarotti e José Carreras nella manifestazione “I tre Tenori”, concerti operistici e di arie classiche all’aperto in tutte le più grandi città del mondo.
    Attualmente prosegue la sua carriera di cantante in ruoli baritonali con esiti alterni e di direttore d’orchestra sopratutto in America, ed inoltre presiede in qualità di ideatore e mentore il concorso vocale Operalia che ha avuto quali partecipanti molti cantanti oggi attivi quali Carmen Giannattasio, Dimitra Theodossiou, Joyce di Donato, Joseph Calleja, José Cura, Giuseppe Filianoti, John Osborn, Rolando Villazon, Simone Alberghini, Erwin Schrott, Orlin Anastassov, nei diversi anni di vita.

  2. Fuor di biografia quanto meno schierata, Domingo è stato un cantante arrogante e poco umile che ha cantato di tutto e di più con mezzi veramente modesti; ha “corrotto” il pubblico portandolo a sorbirsi delle vere e proprie eresie vocali come i falsetti al finale di “Celeste Aida” http://www.youtube.com/watch?v=bTpWFz1Qnd4, delle stecche allucinanti in tutto quello che superava il la3 (per fare due esempi Turandot al Met http://www.youtube.com/watch?v=UQqT7GqiJ0I, Otello al Met http://www.youtube.com/watch?v=gTnj0VOZ7Cg), e sopratutto prendere parte a ruoli in cui scompariva in vece di colleghe dal volume strabordante http://www.youtube.com/watch?v=cOeN_H4JLhI e http://www.youtube.com/watch?v=MBxIbJ1Ju84 solo per dire di esserci stato!
    Insomma, DOMINGO, IL TENORE PIU’ SOPRAVVALUTATO DI TUTTO IL XX SECOLO!

  3. Non proprio sempre. L'”Oberon” diretto da Kubelik e il “Don Carlo” diretto da Giulini sono interpretazioni splendide. Idem per i “Meistersinger” diretti da Jochum e il “Lohengrin” diretto da Solti.
    Marco Ninci

  4. Non so come mai, ma quando penso a Domingo mi viene sempre in mente Klingsor, il grande incantatore: da oltre cinquant’anni regna incontrastato nel mondo dell’opera, avendo, davvero non so come, convinto mezzo mondo e più di essere un grande cantante – davvero un incantesimo.
    Certo, la preparazione musicale è solida e gli ha permesso di apprendere molto rapidamente ruoli assai complessi; l’attore è notevole, quasi sempre. E il cantante? Beh, il cantante è quello che descrive Mancini con esattezza: mediocre.
    Fra l’altro, in questa specifica esibizione, a mio avviso viene meno anche il mito del Domingo grande interprete, mito che i suoi sostenitori – evidentemente affetti da sordità selettiva – mettono sempre avanti, di solito dopo aver affermato che sì Pavarotti, Corelli, Del Monaco erano grandi cantanti ma Domingo, appunto, è un grande interprete (viene in mente ciò che rispose Slezak alla figlia di non so quale tenore che lo accusava di essere solo un cantante, mentre il padre era un artista: “Se suo padre avesse i do acuti che ho io, forse avrebbe fatto il cantante anche lui… “). E viene meno perché Domingo dimostra di aver compreso ben poco del momento scenico e del perché Verdi abbia messo in musica il testo così come ha fatto. So che non è l’unico a non seguire il dettato verdiano, ma siccome stiamo parlando di lui a lui mi limito. Ora, per tutta la prima parte Verdi prescrive un “voce soffocata” e ben quattro p su un la bemolle2 ribattuto, alternato a tre discese al mi bemolle2; tutto questo su un accompagnamento con una figurazione ostinata dei violini. Perché? Perché Otello, il condottiero, il guerriero invitto, è totalmente annichilito da quello che crede essere l’orrendo tradimento di Desdemona; talmente annichilito che non riesce a esprimersi se non attraverto frasi spezzate e ripetitive, con la figurazione in orchestra che rappresenta il contorcersi su se stessa di una grande anima ferita mortalmente (incidentalmente: straordinario il momento in cui Verdi prescrive al tenore il solito la bemolle quando in orchestra c’è un si doppio bemolle sulle parole “d’angosce”: dissonanza fortissima che accentua ancora di più l’annichilimento del Moro). Ora, non cantare quello che ha scritto Verdi vuol dire non aver capito nulla della scena, perché è solo quando Otello pensa all’amore che crede avere perduto, che allora il canto si apre, si spiega (“cantabile”, prescrive Verdi all’attacco di “Ma, o pianto, o duol”) salendo fino al si bemolle. E questo perché l’Otello di Verdi è soprattutto un uomo innamorato – e non è un caso che muoia sul tema del bacio – o meglio, è un uomo che difronte alla fine del proprio amore non riesce a farsi scudo del suo essere un grande guerriero, perché “che ti resta, perduto l’amor?”. E allora, perché non cantare ciò che quel povero Verdi aveva scritto definendo così attentamente la psicologia del personaggio, e sostituirlo con un parlato a tratti gridato del tutto inopportuno? Non scriveva le note a caso, il grande Giuseppe. Non organizzava le dinamiche interne a una pagina a caso. Insomma, come dice Renata Scotto, espressivi sempre ma nelle note. Per cui, per me questa pagina non solo è cantata malissimo, e anche interpretata malissimo.
    Eppure, il grande incantatore è riuscito a convicere il mondo di aver finalmente sottratto il ruolo del Moro ai tenori vocianti e orcheschi che lo hanno preceduto. In ciò, ma solo in ciò, Domingo è davvero il più grande di tutti. E sarà contento chi ama le illusioni.

  5. Caro Mancini,tra Domingo, Vickers, Merli e Lauri Volpi abbiamo quattro timbri vocali diversi, (non per essere ipercritico, ma quello di Domingo mi sembra un po’ “bovino”) e percio’ vorrei chiederti, che ruolo pensi abbiano avuto le differenze timbriche prima dell’avvento delle pop-star (lo avete chiarito benissimo tante volte: pretesto per costruire l’attuale remunerativo sistema di “mal canto”). Faccio un esempio: nell’Andrea Chenier mi pare che “Passa la vita mia …”debba essere attaccato a mezza voce, cerca di farlo Corelli,e tanti altri, ma la mezza voce “timbrata” di Gigli (cosi’ definita da un musicologo) mi sembra renda meglio di altri i sentimenti di Chenier ingiustamente giudicato.Insomma, avere un bel timbro e’ usato prevalentemente (ripeto, non mi riferisco al presente)per “farsi perdonare” difetti di tecnica (azzardo: Di Stefano ?) o puo’ e deve essere usato per approfondire e rendere piu’credibile ed affascinante il personaggio interpretato ? quali sono gli eventuali esempi da studiare ? metto le mani avanti : lo so , Pertile aveva un timbro diciamo non affascinante ma il suo Chenier…

  6. Io distinguerei tra timbro vocale e voce timbrata, che vuol dire uguale e ricca di armonici in tutta la gamma. Il timbro da solo serve a poco. Di Stefano aveva un bel timbro, ma dopo mezzo minuto mi annoia. Schipa non aveva un timbro di voce prezioso o attraente, ma dopo pochi istanti di ascolto la voce sembra bellissima, tale è la perizia tecnica con cui manovra il suo mezzo. Domingo, per stare al caso in esame, avrebbe un bel colore naturale ma lo rende artificiosamente scuro e morchioso per carenze tecniche e di conseguenza non lo mette in rilievo, anzi lo imbruttisce.

    • Lo rende artificiosamente scuro e morchioso non per carenze tecniche, ma per sua ignoranza perché vuole “far la voce grossa” e scimmiottare il predecessore Del Monaco e contemporaneo Martinucci, ovviamente il signor Domingo avendo un quinto del volume e proiezione dei due citati 😉

  7. Bel timbro

    Pienamente d’accordo Mozart, bel timbro, o bel colore che sia, te li ritrovi, voce timbrata e’ altra cosa. Anche un asino puo’ avere una bella voce o un timbro, o un bel colore. Ne e’ pieno il mondo. Mentre una voce di colore non proprio sopraffino, puo’ essere resa timbratissima. (Friant, Olivero, Pertile, Lipkowska, Strienz, Moscona per esempio), ne ERA pieno il mondo.

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