Firenze: “Farnace” di Vivaldi. “Io, mammeta e tu!”

“Io, mammeta e tu”. Già! Non mi riferisco solo alla canzone di Domenico Modugno, e nemmeno al triangolo familiare che contrappone la coppia Farnace-Tamiri alla furia della madre di quest’ultima, Berenice: mi riferisco a quanti sono accorsi ad assistere alla prima assoluta italiana del “Farnace” di Vivaldi, nell’edizione di Ferrara 1738-39.
Un teatro, il Comunale, mezzo vuoto, che ha chiuso le due gallerie per riempire la platea ed i palchi laterali, lasciando anche in questo caso molti posti vacanti.
E’ il segno dei tempi! Il segno della disaffezione che il pubblico prova nei confronti del Maggio Musicale Fiorentino, una dispendiosissima macchina ormai rotta, che delude da anni a causa di sperperi voluti, cercati e bassa qualità, nonostante i proclami alla carità ed alla cultura.
Una macchina pronta per essere messa all’asta nell’attesa di trasformarsi in un centro commerciale o in un condominio, mentre si termina l’infinito mastodonte che giace nel parco delle Cascine e si taglia sul personale per salvare, forse, la faccia.
Guardando la sala in questo stato, sembrava di assistere agli ultimi fuochi (fatui) di questa degradata istituzione; un addio, forse, o un arrivederci ad una data che si colloca lontana, mentre la stagione, e quello che resta, termina boccheggiando tra sostituzioni, forfait, striscioni, drammatici appelli e direttori che si esibiscono gratis. Che amarezza.

Intanto va in scena “Farnace”, opera estrema di Vivaldi, che torna a Firenze dopo una fugace apparizione avvenuta nel 1733  e che testimonia la sua rapida affermazione e diffusione in Italia ed all’estero.
L’opera, già musicata da Caldara su libretto di Lorenzo Moroni, e successivamente da Vinci, Corselli, Piccinni, Traetta, Pescetti, Myslivecek, Sarti su libretto di Antonio Maria Lucchini, il medesimo utilizzato da Vivaldi, ebbe al suo apparire nel febbraio del 1727 a Venezia un successo strepitoso, forse il maggiore del Prete Rosso, tale da garantirgli un ampio giro nei teatri europei.
Questo sollecitò Vivaldi ad approntare modifiche, anche sostanziali rispetto all’originale, in base alle esigenze della città che ospitava il suo capolavoro e dei nuovi interpreti interpellati.
Si contano così almeno otto versioni differenti dello stesso lavoro: Venezia 1727, Livorno 1729, Praga 1730 con l’aggiunta di un personaggio comico, Pavia 1731, Milano-Mantova 1732, Firenze 1733, Treviso 1737 e Ferrara 1738-39.
Di queste sono giunte fino a noi solo l’edizione di Pavia e quella incompiuta o mutila del III atto di Ferrara, confrontando le quali, si comprende come la seconda sia una revisione del tutto innovativa rispetto alla precedente, soprattutto del finale primo e di tutto il secondo atto, contando ben dieci arie nuove, o prese e rimaneggiate da precedenti lavori, ed una sostanziale revisione di tutti i recitativi con il basso continuo: prima di tutto il protagonista, Farnace, passa dalla corda tenorile (come veniva inteso nel settecento) a quella contraltile, registro affidato anche alle voci di Tamiri, Berenice e Selinda; spariscono gli evirati cantori in favore di due tenori per i ruoli del Proconsole Pompeo ed Aquilio; Gilade resta invece confinato alla corda sopranile.
A causa delle cabale del legato Pontificio a Ferrara, il Cardinale Tommaso Ruffo, Vivaldi visse l’onta dell’allontanamento dalla città, del rifiuto della sua opera, boicottata addirittura nell’impianto dei recitativi, e del fiasco programmato del “Siroe”, poiché “non diceva messa” e a causa della sua intima e chiacchierata amicizia con Anna Maddalena Giraud (Girò), destinataria del ruolo di Tamiri e indivisibile musa ispiratrice del compositore soprattutto nel genere eroico-patetico.

Il Maestro Federico Maria Sardelli opta per l’edizione di Ferrara così come ci è giunta nella sua purissima incompiutezza, concludendola di fatto al termine del II atto (duettino Selinda-Aquilio, più aggiunta dell’aria “Gelido in ogni vena” dall’edizione di Pavia), ricusando per sua stessa ammissione, una ipotetica ricostruzione del III atto, così come proposta da Fréderic Dalamea e Diego Fasolis nell’ incisione ufficiale, nella quale è inclusa l’aria di Berenice “Non trova mai riposo” che principia l’ultimo atto fondendola con l’edizione pavese, oppure attraverso l’imprestito musicale da altre opere così come si è fatto con “Motezuma”, “Armida” e “Catone”.

A parte questa necessaria (?) mutilazione, Sardelli punta sulla teatralità dei sentimenti, sull’emotività del dramma, sul rispetto delle forme musicali vivaldiani, sul belcanto orchestrale.
Il virtuosismo, e le differenziazioni dei caratteri invano si cercheranno sul proscenio; al contrario sono presenti, tutti, nella lettura del direttore.
Una lettura che privilegia gli effetti spettacolari del virtuosismo strumentale, i colori vividi delle prescrizioni espressive, mai così minuziose, suggerite da Vivaldi stesso: Sardelli suggestiona con un clima che riesce a bilanciare l’eroicità col patetismo, la sensualità col furore, la disperazione con la dolcezza, attraverso una puntuale alternanza di piani sonori in cui il suono si presenta morbido e trasparente, capace di onorare il costante “piano”, “mezzoforte” e le lunghe arcate sonore cercate con raffinatezza.
I recitativi, eseguiti con il continuo del cembalo, sono tesi ad esaltare il dramma della parola in un clima minaccioso; le arie come “Non trema senza stella”, “Roma invitta”, “Quell’usignolo”, “Quel tuo ciglio languidetto”, “Nell’intimo del petto”, “Da quel ferro che ha svenato”, “Al Tribunal d’amore”, tutte le splendide arie di Tamiri, di fatto protagonista, sottolineano il descrittivismo virtuosistico, la declamazione eroica, grazie ad una puntuale realizzazione di quel “tenero sublime” settecentesco, così amato in Francia ed Italia, a causa delle varietà delle emozioni portate sulla scena, che solo una perfetta fusione tra canto e musica riusciva a comporre.
Ottimi gli archi che suonano all’unisono senza sbavature, solo una lieve incrinatura nell’accompagnamento dell’aria “Gelido in ogni vena” che guarda all’ “Inverno” vivaldiano; musicalissimi i due oboi, il timpano ed il cambalo che assecondano degnamente il direttore; pessimi i due corni naturali e le due trombe naturali, dal suono spesso fisso, stridulo, crescente o calante con effetti sgradevolissimi soprattutto rispetto ai loro colleghi.

Si ha l’impressione, ascoltando la compagnia scelta per questa importante occasione, di assistere ad una sorta di saggio di fine semestre degli allievi di qualche malfamata accademia di “canto”: letteralmente dilettanti allo sbaraglio scelti a casaccio e mandati beatamente in scena, solo perché sanno leggere di sfuggita il pentagramma.
E’ la distruzione del Belcanto e di ogni minima decenza canora.
Mentre ascoltavo tale sanguinoso massacro ai danni delle note, della tecnica e del fraseggio immaginavo un cast ideale che avrebbe potuto esaltare le mille trovate escogitate da Sardelli e rendere un ottimo servizio a Vivaldi ed all’opera: FARNACE – Teresa Berganza/Martine Dupuy, BERENICE – Grace Bumbry/Fiorenza Cossotto, TAMIRI – Marilyn Horne/Ewa Podles, SELINDA – Frederica von Stade, GILADE – Edita Gruberova/Mariella Devia, POMPEO – Rockwell Blake, AQUILIO – Dano Raffanti.
Un sogno, purtroppo, visto che non si può disporre oggi di tali esemplari professionisti: al loro posto, però, abbiamo gli specialisti del “canto” barocco, creature intercambiabili tra loro dalle voci piccole e sterili, secche e rattrappite, stonate, fisse oltre ogni umana idea e poggiate sul nulla se non sulla natura delle fragili corde vocali, sulle vene del collo che schizzano all’inverosimile sottoposte a sforzi inumani, sulla capacità di disarticolare la mandibola spingendola tutta in avanti, mentre il corpo si contorce in improbabili pose da lap-dance (manca giusto il palo su cui strusciarsi) pur di proiettare inutilmente una voce dura, indietro e priva di duttilità o estensione che spappola le colorature rapide trasformandole in gorgoglii degni delle abissali divinità di Lovecraft.
Il fraseggio, che nelle arie dovrebbe essere sempre sublime, aulico, teso e drammatico, e dovrebbe ben differenziare i caratteri (il Re eroico e gemente; la Regina disperata, ma nobile; la rivale furiosa; il Tiranno benevolo; la dama intrigante; l’innamorato ricambiato; il rivale in amore) a Firenze viene sostituito o da una piattezza compulsiva oppure dai suoi eccessi più a buon mercato e granguignoleschi (Prina-Galou, soprattutto), annullando di fatto le volontà della poetica vivaldiana.
Tali sono questi “specialisti” del Non-canto Barocco; dalla grigiastra e spenta Mary-Ellen Nesi (Farnace), a  Delphine Galou (Berenice) la cui voce sembra l’imitazione di un pessimo controtenore che ha inghiottito un tubo arrugginito; da Sonia Prina (Tamiri) con la voce spaccata in almeno dieci tronconi diversi e tutti malmessi e gutturali per giunta, alla fragilissima Loriana Castellano (Selinda); dall’applauditissima Roberta Mameli (Gilade), fissa come un fischietto, ma un gradino sopra gli altri per proiezione, e graziata dall’aria più bella dell’opera, la sfrenata per coloratura “Quell’usignolo che innamorato” nella quale se fosse stato davvero un soprano di coloratura educato alla bisogna avrebbe potuto dare maggiore fierezza ai salti di ottava, ai picchettati, ai mordenti etc. ai due tenori Emanuele D’Aguanno (Pompeo) e Magnus Staveland (Aquilio), il primo troppo nasale, il secondo troppo ingolato.

Vergognoso l’allestimento pensato da Marco Gandini, ennesimo esempio di spreco di denaro nei confronti di un’opera precedentemente pensata per essere rappresentata in forma di concerto nel più contenuto Teatro Goldoni e traslata orribilmente nel più ampio Comunale.
Un finto allestimento in realtà, una installazione in stile museo moderno: in pratica una inutile versione semiscenica.
Il palcoscenico è vuoto, illuminato da luci di taglio che provengono un po’ dappertutto, senza criterio, e riflesse da una enorme tenda di plastica (tipo doccia) posta sullo sfondo; da un lato una struttura di ferro contorta messa a riempire la scena per non si sa bene quale scopo; pedane mobili portate a spasso dai tecnici in maniera imbarazzante sulle quali si arrampicano Berenice, Pompeo e Gilade; luci al neon che feriscono gli occhi dello spettatore; ponti di ferro della torre scenica che si alzano e si abbassano senza pudore; l’immancabile ponte che circonda ad anello il golfo mistico (sia maledetto il duo Ronconi-Pizzi), il quale ha l’utilità di porre i cantanti a contatto con il pubblico nella speranza che si possano sentire; abiti più o meno da sera con qualche armatura accennata; leggii ovunque per ripassare la parte o leggerla come se fosse la prima volta; gente che passeggia da destra a sinistra; il povero Dario Shikhmiri costretto a fare da baby-sitter al figlio di Farnace; proiezioni di volti imbambolati. Stop.
Un’atrocità, una bruttura punita dal pubblico.
Spero che Gandini, a cui non piace classificare le cose o dare loro dei nomi, abbia collaborato gratis ed inizi a cambiare idea sull’identità delle opere che mette in scena.

Sei i minuti di applausi finali, segno inequivocabile dei tempi odierni e della situazione attuale.

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12 pensieri su “Firenze: “Farnace” di Vivaldi. “Io, mammeta e tu!”

  1. spero non sia off-topic però ho bisogno di alcune vostre opinioni sul “Longe Mala Umbrae Terrores”.
    anche solo ascoltando il primo minuto e mezzo a me sembra meglio (sotto il profilo tecnico) Teresa Berganza che Laura Polverelli:

    http://www.youtube.com/watch?v=9qrTWb1fug0

    cosa mi dite? ho le orecchie a posto? (una persona mi ha detto che la berganza sembra una lavatrice oO, non mi sembra corretta come affermazione :))

    • Caro Aurelio,
      a quella persona che ha paragonato la Berganza ad una lavatrice consiglio in maniera spassionata un prodotto utilissimo per purificare le orecchie: si chiama Boral, le disinfetta anche e dopo senti anche i topi attraverso i muri.
      Prima però una bella siringata dall’otorinolaringoiatra va sempre fatta, per liberare i padiglioni da quei fastidiosi tappi che falsano la realtà. 😉

      Detto questo, si, dai ascolto alle tue orecchie, la Berganza è molte, ma tante volte migliore della Polverelli, sulla quale non me la sento di infierire oltre dopo averla, purtroppo, ascoltata in un paio di tragiche occasioni.

  2. Cosa vuoi che ti si dica Aurelio?
    Ci sono molti bravi, a volte ottimi cantanti che non ci piacciono.
    E’ cosa logica , no?
    Ce ne sono cosi’ , di bravi che non mi piacciono.
    Quello che non riesco a capire e’ la similitudine con la
    lavatrice. Proprio non la capisco.
    Pero’ bisognerebbe sempre distinguere tra il “non mi piace” ed il “non canta bene”, che sono un filino diverse come affermazioni.
    A me non piace la Carmen della Stignani che per altro nella Gran Vestale e’ invece, secondo me, un monumento, e allora?
    Trovo cantata benissimo l’Elektra della Nilsson ma le preferisco quella, senz’altro meno ben cantata della Varnay, e allora?
    Saro’ ben padrone delle mie emozioni, o no?
    L’mportante dovrebbe essere il capire se uno e’ in grado di ben cantare o no, al di la’ che poi questo ben cantare ti soddisfi o meno.
    E’ vero che nel 76 la Teresita non era piu’ al meglio,
    ma, tra le quattro edizioni in mio possesso di Longe Mala
    Umbrae Terrores, il suo rimane il migliore.
    C’e’ qualche fissita’ di troppo, il registro superiore e’ un poco
    indurito e le agilita’ non sono piu’ cosi’ fluide…detto questo la
    Polverelli manco la vede! Ci mancherebbe!
    E comunque fatti dare la marca della lavatrice del tuo conoscente,
    che la compro subito. E, non preoccuparti, le tue orecchie non fallano.
    In fin della fiera, se c’e’ qualcuno che trova Schreier ottimo
    liederista, puo’ anche starci che ci sia qualcuno che non ami la
    Berganza, che negli anni migliori rimane la cantante da me piu’ amata e seguita, almeno sino al 72.
    E, non per questo evito di notare, come nel brano proposto, alcune
    lacune, perche’ cosi’ secondo me si dovrebbe fare, per onesta’,
    anche se questo atteggiamento mi ha sempre procurato una caterba di incomprensioni, sempre, sin da ragazzo.
    E chi se ne frega.
    Comunque, la prossima volta che fai il bucato, ascolta bene….
    E poi chiama il/la tuo/a conoscente.
    Una lavatrice? Ma per favore, di’ che non ti piace e morta la’!
    Ciao caro. Miguel.

    • Infatti, dopo una discussione a un ascolto comparato sono riuscito a ridurre il tutto a un sostanziale ‘non mi piace come canta vivaldi’ da parte del conoscente, senza lavatrici (o peggio, centrifughe di lavatrici!) e mettendo il punto sul fatto che tecnicamente è chiara la differenza tra le due cantanti.

      miguel… ho scritto di getto, in preda all’agitazione, perché non pensavo mi sarebbe mai accaduto di dover difendere berganza contro polverelli :) (e in effetti potevo immaginare le risposte!)

      cmq stupendo questo mottetto di vivaldi.
      ciao!

  3. caro Pasquale é stata la Grisi a dare per prima il cattivo esempio paragonando Cecilia mia (adorata cara del Signore) a una macchina da cucire. Ma lei almeno ha precisato la marca (Singer) e questo le fa onore

  4. Teresa Berganza con la Polverelli ???
    Duprez dice bene quando si riferisce ai gusti personali, tutti noi li abbiamo e io concordo pienamente.
    Detto ciò, Aurelio, mi permetta, dica a quel fenomeno che ha definito la Berganza una lavatrice, che in centrifuga ci stava lui quando l’ha ascoltata.
    …quanto ad Albertoemme – dai che ci divertiamo -, se la sua adorata Cecilia cucisse le pause che fa nella cavatina di Norma come la vecchia Singer di mia madre buonanima, saremmo a…punto.
    Il guaio è che le mancano l’ ago (voce), il filo (fiato), e l..a sensibilità (buon gusto) per evitare di cantare roba che non è per lei.
    Che il signore la conservi lo spero anch’io, mi piacerebbe però che la consigliasse meglio.
    Absit iniuria verbis.

  5. vedi akonkagua non e’ colpa tua ne degli altri grisini se non riuscite ad apprezzare cecilia. E’ quasi certo che siete stati vittima d vaccinazione antibartolosa in vece della consueta antitetanica (in certe zone erano stati mischiati i boccettini). Insomma non dormirei sonni tranquilli soprattutto in caso d timpani arrugginiti

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