Fratello Streaming. Don Carlo a Salzburg

doncarlo01Il Don Carlo salisburghese, che sta andando in scena in questi giorni propone una miscela di novità e di elementi “rodati” che hanno già caratterizzato alcune delle produzioni verdiane andate in scena negli ultimi mesi, a Monaco di Baviera e a Londra in particolare. Mi riferisco alla nuova coppia d’oro della lirica che la sta facendo da mattatrice nelle celebrazioni wagnerianverdiane, ossia il duo Harteros-Kaufmann, (come negli anni Trenta a Vienna quella Muller-Volker) nonché il maestro Antonio Pappano sul podio. Quest’ultimo con la fama di maggior esperto di voci nonché di direttore – accompagnatore in grado di trarre il meglio dalle proprie compagini vocali; i primi due esponenti dello star system tedesco, con la fama di grandi eclettici, voci eccellenti, cantanti in grado di coniugare tecnica e fraseggio (leggere le recensioni in lingua tedesca per credere!) al pari delle leggendarie voci documentate dai 78 giri. Il cast imbastito dall’uscente sovrintendente Pereira è stato completato dall’ex direttore della sezione di prosa del festival, Peter Stein, figura di primo piano del teatro di regia tedesco, a gestire l’impianto scenico della produzione, e da alcune presenze stabili nel teatro di Zurigo, il baritono americano Thomas Hampson, recentemente datosi, anima a corpo, a Verdi e l’anziano basso wagneriano Matti Salminen. A completare la parte principale della locandina il mezzosoprano Ekaterina Semenchuk, in compagnia di Erik Halfvarson quale Gran Inquisitore ed il cammeo, o quasi di  Robert Lloyd quale frate/Carlo V. Operazione ambiziosa e centrale nella programmazione di questa edizione del Festival, che proponeva di fatto la versione italiana in cinque dell’opera corredata da alcuni inserti, come già era avvenuto con Claudio Abbado alla Scala. Naturalmente la inneggiante critica italiana ha già annunciato che fra due anni questa splendida realizzazione verrà offerta alla Scala, ovvero nel teatro che Pereira ha conquistato di recente. Poi dobbiamo anche guardare dentro il prodotto confezionato per Salisburgo secondo i migliori dettati del vigente star system.

Anni fa, quando il pachiderma dello star system cominciava pesantemente ad insinuarsi nel mondo dell’opera, Rodolfo Celletti coniò due termini cantare in “itangliano” ovvero in “gnerico”. Facile capire la storpiatura di tali termini e la loro origine. La profezia si è pienamente avverata e, confesso di non avere dubbi nel dire che questo spettacolo sia sotto il profilo  visivo che musicale  è la tomba delle celebrazioni verdiane ed il grido VERGOGNA, trasmesso in mondovisione all’inizio del quarto atto rappresenta il più esaustivo commento a questa produzione sotto ciascun profilo. E potrebbe bastare. All’epoca di Celletti si cantava in itangliano, ma spesso sul podio si trovavano direttori, che sapevano cogliere la cifra stilistica e storica del melodramma rappresentato ad onta dei limito delle compagnie di canto. Oggi questo non accade più perché la prova più deludente è venuta dalla bacchetta, benché incensata e ritenuta di grande sensibilità e cultura, assolutamente idonea al melodramma italiano. Peccato che qualificare melodramma italiano Don Carlo è un grave errore. Don Carlo, in quattro ed a maggior ragione in cinque atti, è un grand-opéra, quindi grandioso ed altisonante affresco storico a far da contorno alle situazione di amore, di odio, di lotta di classe e di potere che il titolo verdiano porta in scena  con la stessa ricchezza e magniloquenza degli Ugonotti. Invece il maestro Pappano, oltre tutto alla guida di  una delle più prestigiose compagini orchestrali, riesce ad essere fragoroso e pesante ed oltre non va. Passando lo spartito introduzione e coro dei boscaioli (aggiunto rispetto alla versione italiana come già fecero per il chiaro contenuto di critica sociale Abbado e Ronconi alla Scala nel 1977)  greve e pesante oltre che cantato molto male, pesante  e fracassona la chiusa dell’atto e me la spiccio dicendo che tutte le chiuse di quadro o di atto sono state risolte a suon di grancassa e piatti; senza nessun mistero ed ispirazione l’introduzione al convento di San Giusto ed anche il coro dei frati molto monotono, poi, entra don Carlos, disperato e siamo ai soliti clangori per esprimere la disperazione dell’Infante. Per contro nessun “coquetterie” o verve salottiera alla scena di Eboli, passa via il terzetto Eboli-Elisabetta- Posa e l’arioso di quest’ultimo. Nessuna notazione di fraseggio, ovvio con gli elementi –pessimi-  di cui disponeva (Salminen ed Hampson) al duetto Filippo-Posa, ma neppure, e qui sta l’errore del direttore, il tentativo di emendare il mal parlato di Salminen (“Ma ti guarda dal grande Inquisitore”) o di Hampson (il bercio, ormai  di tradizione, ad “orrenda, orrenda pace”). Al primo quadro del terzo atto manca la verve nel dipingere la nota di colore dei cori. Siamo passati nella storia della direzione d’orchestra da maestri assoluti della scena di colore (il primo che mi viene alla mente è Walter alle prese con il terzo atto de “La forza del destino” in un live del Met 1943) perché da buoni figli dell’800 legati al desiderio di descrivere ad asettici e precisi amministratori della scena di colore (l’Abbado scaligero nel medesimo passo o il Muti della Forza) a bacchette assolutamente incapaci di cogliere questa componente essenziale del melodramma ottocentesco, più evidente se del genere grand-opéra. Lo stesso vale per l’incipit della scena dell’autodafè dove la constante pesantezza impedisce di distinguere il coro dei popolani da quello, sì schiacciante ed ossessivo, dei domenicani della Santa Inquisizione ed anche nel concertato che segue l’ingresso dei deputati fiamminghi le sezioni e gli interventi dei personaggi non sono ben scanditi. Funziona meglio –dopo il “vergogna”- l’introduzione nello studio di Filippo all’Escorial (ricostruito con precisione quasi calligrafica) anche perché i violoncelli dei Wiener sono tali, mentre latita la regia vocale nell’incontro Filippo-Inquisitore. Ma qui opererebbe l’attenuante dei cantanti proposti, opererebbe perché un direttore della fama di Pappano, credo, abbia voce in capitolo circa la scelta della compagnia di canto, o almeno di parte di essa. Come non posso non credere che il direttore non sia il vero responsabile della decisione di inserire la trenodia di Filippo sul cadavere di Posa, che affidata a Salminen diviene straziante. L’esecuzione della pagina dipende dalla qualità dell’interprete. Fatto ben noto a Verdi, che ebbe occasione di scriverlo più volte e che, al contrario, oggi sembra essere diventato un arcano. doncarlo02Del resto non si può considerare grande direttore da opera  chi, come Pappano tolleri e fors’anche incentivi, all’addio dei due impossibili amanti i falsettini afoni di Kaufmann e la serie di suoni fissi della Harteros, aggravati dal tempo lentissimo del “ma lassù”. Splendido, ma che imporrebbe per una realizzazione  congrua le voci e soprattutto le tecniche complete di un Volker e di una Muller, tanto per restare nell’ambito della scuola vocale tedesca od austro-ungarica. I cantanti anche ora che il buonismo imperversa nei teatri italiani non credo assurdo ritenere che sarebbero stati  riprovati, almeno alcuni di essi. La migliore in campo Ekaterina Semenchuck nel ruolo di Eboli. Migliore dal raffronto con il resto della compagnia di canto perché il velo è rappezzato e aggirato nelle sue difficoltà con ricorso a falsetti e suoni di petto mal messi, nel terzetto con Posa e Carlo la natura di soprano lirico spinto emerge e “il pedale” che Eboli dovrebbe fare al canto del tenore manca. Funziona meglio, come sempre accade per cantanti di tecnica e gusto veristi il Don fatale, a maggior ragione perché nella pagina è chiamato in causa soprattutto il registro acuto, che è facile sino al si nat. Siamo davanti ad una cantante che riveduta e corretta tecnicamente ed anche nel gusto potrebbe essere un valido soprano lirico spinto da Chenier, Manon di Puccini. Del mezzo soprano nulla e si sente pure in una parte rubricata quale Falcon, spesso cantata anche da soprani. Impresentabile, improponibile Matti Salminen quale Filippo. Tralascio l’incongruenza storica di presentare un Filippo, che sembri un vegliardo fuggito dal più vicino ricovero, tralascio quella registica, di fargli fare sorrisetti di compatimento allorquando Elisabetta difende il proprio rapporto con il figliastro, come se l’ironia fosse una peculiarità del funereo sovrano spagnolo, ma quando apre la bocca siamo dinnanzi ad un vecchio (mi risulta anagraficamente ultrasettantenne) svociato a tal punto da gridare al duetto con Posa e da mancare di netto le note dell’incipit del monologo (“aMOr per me non ha”). In queste condizioni in un teatro decoroso non si canta neppure don Pasquale, al più -se mai sussistessero i meriti- si possono ritirare premi, targhe e commende. Per altro suo degno padre ombra di sua suo padre è l’ombra della voce di Robert Lloyd, mediocre in età da carriera, oggi impresentabile. Bello il trucco per l’apparizione nel finale quinto. Quella di presentare vecchie glorie è sempre stata una peculiarità dei teatro di lingua tedesca. La prossima stagione scaligera ci servirà parecchi “monumenta”. Mi sembra che tale scelta fosse già stata  denominata dal Corriere cucinare con gli avanzi, ma qui siamo all’obbligo di intervento dei nuclei anti frode alimentare, Chi, invece, se fosse mai stato un vero baritono e non un tenore potrebbe oggi cantare don Pasquale o don Geronio è Thomas Hampson. Non capisco per quale motivo al duetto con don Carlos gli siamo state fatte cantare quattro o cinque battute della versione di Parigi. In coppia con Kaufmann ha proposto la peggior versione del duetto “Dio che nell’alma” dove stonature, fiati corti, suoni falsettati l’hanno fatta da protagonisti. Le cose non sono andate meglio all’arioso “Carlo che è sol” con fiato corto, voce dura e legnosa e suoni aperti e spinti alla ripetizione a riprova che Hampson era un tenore, che non ha mai imparato a “girare” la voce. Come già detto ci ha ammannito la variante urlata della “pace dei sepolcri”, dopo  avere stonato l’unica frase cantabile di tessitura acuta ovvero “sia benedetto Iddio”. Arrivato alla scena della morte, in una scenografia da stazione di provincia ha dato il suo peggio perché nella prima sezione “Per me giunto” la scrittura è centrale e un tenore non può che uscirne male e la seconda, invece, è piuttosto acuta e chi non sappia gestire il passaggio di registro non può che vociferare. Per giunta  privo dello strumento copioso, che è la  condicio sine qua non del baritono becero. Insomma non è rimasto neanche lo stile o pseudo tale e quanto alla prestanza fisica come dice Lucrezia  Borgia “il tempo vola”. Mi sono anche chiesto se per proporre questo Posa non fosse più opportuno chiamare qualche vociatore nostrano, che almeno –ribadisco almeno- presti al marchese giovinezza,  freschezza e resistenza vocale. Resistenza vocale che è l’unica nota positiva di Kaufmann. Non esiste cantante più monotono di questo perché ha due corde o il bercio da affondista, con tanto di acuti duri e bitumati (ad onor del vero azzecca il “sarò tuo salvator”) e falsetti bianchi ed afoni quando vuole dar senso al canto d’amore ed elegiaco. Tutto questo impedisce la benché minima realizzazione di un canto legato e minimamente sfumato. Gli esempi si possono sprecare a partire  dall’aria, che può essere definita “sussurri e grida”, per arrivare alle urla scomposte di Carlo, che entra al chiostro di San Giusto, alla difficoltà di reggere le frasi impervie che chiudono il quadro “ei sua la fè ah ei sua la fè”, all’attacco bitumato del duetto (il secondo) con Elisabetta ed alla teoria di falsettini per tutto il duetto finale. doncarlo03Una chiosa, in coppia con Anja Harteros, al di là del pessimo metodo di canto e dei risultati artistici, si impone. Questi cantanti privi dell’imposto tradizionale nella maschera oltre ad essere in affanno quali vocalisti sono sempre  inattendibili come interpreti perché il loro sistema di canto impedisce la risonanza, la solennità e l’aulicità che al personaggio storico e di rango compete. Elisabetta e Don Carlos sono due amanti infelici e sfortunati, ma non sono  Mimì   e Rodolfo, costretti all’addio per non riuscire “ a mettere insieme il pranzo con la cena”. Nulla è realistico in queste storie ed il tentativo sia vocale che registico di renderle tali è metodo sicuro per distruggere questo genere musicale e letterario. Quanto ad Anja Harteros che per repertorio  sembra essere una novella Maria Reining o Margarethe Teschemacher, di cui offriamo la realizzazione della regina la voce è assolutamente inadatta al ruolo perché la cantante stenta in basso, zona della voce dove Elisabetta, scritta per Marie Sass, insiste, e suona stonata e fissa in alto. Basta la prima frasetta di Elisabetta, dopo l’episodio dei boscaioli, “oh come stanca sono” per sentirla annaspare in basso e questa difficoltà accompagna la protagonista per tutta la serata (vedi duetto secondo alla frase “compi l’opra a svenar corri il padre”, l’attacco di “non pianger mia compagna”) accompagnata, ovvia conseguenza del non sapere cantare in basso dalla difficoltà a legare non appena la tessitura sale ossia ad emettere suoni  duri e fissi (vedi la frase “ti seguirà il mio cor”, “Francia nobil suol si caro”), il tutto senza nessun colore, nessuna ispirazione di fraseggio. Quelle che consentivano a voci inidonee ad Elisabetta come la Caballè od anche la declinante Scotto di risolvere (e come!!) il personaggio.

E veniamo all’allestimento di Peter Stein, genio del berlinese Schaubühne am Halleschen. Altra delusione che possiamo affiancare a quella di Pappano, dal cui abbinamento ci si sarebbe aspettato che centrassero la cifra del grand-opéra. Che si scegliesse la via oleografica o quella della stilizzazione dell’apparato scenografico, il regista avrebbe, comunque, dovuto rispettare nei gesti il rango dei protagonisti ed il significato profondo della vicenda storica ed amorosa. Un profilo che dovrebbe essere altro e ben diverso da quella parodia dei modi Actor’s studio che abbiamo visto praticare dal due Harteros-Kaufmann, tutto mossette e caccole parahollywoodiane. Un continuo articolare con maniera la mimica facciale, lui a spalle strette, lo sguardo assorto, un James Dean tedesco, fintamente fragile ed in questo in contraddizione col suo vociferare stentoreo, in odore di machismo; lei, tutta mossette, strusciamenti sulle pareti, rotolamenti per terra, faccine e faccette, che francamente stanno più a Bette Davis o a Vivien Leigh nel finale alcoolico del mitico Tram. Imbarazzante la scena d’amore del primo atto, dove i principi si rotolano a terra abbozzando travolgenti e carnali passioni, per attraversare di corsa a due il palcoscenico ed abbracciarsi, stile Cafè Momus “Ci lascerem alla stagion dei fior”o roba simile, lei vestita con il peggiore degli abiti mai indossati da una Valois celebre, con tanto di insalatina verde su un cappellino improbabile, il vestito parasettecentesco; lui con la camicia bianca bordata di grigio, che spunta dal giacchino da discoteca alla moda. E’ stato solo l’antipasto di uno spettacolo in cui Filippo II aveva, per parte sua, il look di un anziano non più autosufficiente, un bel Babbo Natale più che un imperatore in abiti notturni alla grande scena del IV atto, mai presente con la recitazione al suo personaggio regale ed austero; una scena del Velo di Eboli ove la principessa, assai poco nobile, in compagnia di ridicole sigaraie di corte che danzano all’unisono come nell’operetta ed un “Don fatale” che era tutto un vai e vieni tra lo scrittoio e la porta di uscita, correndo a braccia alzate. Alle gratuità registiche si sono uniti svarioni, incapacità di formare immagini congruenti all’andamento della storia: una scena del giardino incomprensibile, lo sfondo con una tenda da campo dipinta, davanti transenne di tela rossa e lanterne colorate; un’autodafè spaventoso, che mi rifiuto di descrivere, con una popolazione orientale (mai vista nella Spagna cinquecentesca e controriformista, che bandì Islamici ed Ebrei) vestita in modo sgargiantissimo e cromie ordinarie di abiti e fondali,  vero pugno negli occhi dopo i grigi ed i blu di San Giusto e Fontainebleau. doncarlo04Il tutto davanti alla buca, l’azione schiacciata al proscenio come quando l’azione la dirige il direttore egocentrico e non un regista di griffe; un chiostro stilizzato che poteva essere anche una cripta (e passi), un monumento equestre spoglio con un inginocchiatoio da parrocchiale di paese, la Regina perennemente a lutto, col velo nero in testa ed un abito (bello!) adatto però a Tosca o ad una dama dannunziana, con velo di pizzo nero ripartito francescanamente per metri con le sue dame. Singolare il fatto che il poco che ha funzionato di questa produzione paresse mutuato paro paro dal Don Carlo scaligero di Ronconi, dal popolo del primo atto, la principessa delusa che tiene le mani della gente; il frate che spara a Posa, il baldacchino imperiale e il monumento equestre, tutto falsamente minimal, realmente senza cifra. Certo, mancava la forza dell’idea polemica di Ronconi, e certamente costumista e scenografo ( Woegerbauer e Heinrich ) non possono nemmeno per un attimo competere con il genio assoluto di Luciano Damiani, i suoi baldacchini straordinari, lo sfarzo dei suoi carri e la perfezione dei suoi costumi. Poca cosa questo Don Carlo di Stein, la cui importazione sarà certo l’ennesima operazione inutile e povera di contenuti che andremo ad importare, grazie alla nostra faciloneria, pressapochismo e mania esterofila.

 

 

English Translation by Selma Kurz:

Without a doubt, this was to be Salzburg´s most ambitious and central production this year in celebration of Giuseppe Verdi´s 200th Birthday. We are offered the five-act version in Italian (with some minor changes) used also by Abbado at la Scala. Let´s take a closer look at this package, according to many the best of the best of today´s star system: by now, many years ago, this star system began to take over more and more the world of opera. This Carlo represents ist high- and low-point at the same time – depending on from which way you look at it: if you go for name-dropping and marketing hype, then you will have many of today´s most celebrated names united here. If you are looking for Verdi´s opera to be shown in the best possible light, the only appropriate message is the cry of „VERGOGNA“ by a frustrated spectator at the beginning of the fourth act.

This star system has been with us for many years now, but what saved many a performance earlier were conductors, who yet knew about the musical and historic aspects of a melodramma. In the world of (Italian) opera, probably the biggest delusion in our days comes from the orchestra pit: from conductors, who have only vague ideas about the Italian „melodramma“ and opera in general. „Melodramma“ is actually the wrong word for „Don Carlo“, even more so for the five-act version, which is much closer to a „Grand-opéra“, to „Les Huguénots“ for example. Inspite of this first-rate orchestra at his disposal Pappano remains mostly loud and heavy. He does not take much trouble in looking for colours and much detail: the initial chorus, for example, other than sounding heavy and crude is simply sung badly. Heavy rumbling and rather uninventive rataplan at the end of act one as well as in all other closure-scenes. Little mystery, little inspiration, hardly any colours in general: no “coquetterie” or verve in Eboli´s first big scene, no noticeable accents of „fraseggio“ in the scene of Filippo-Posa (the singers were no help there at all). And could one not expect from a scrupulous operatic conductor that he would correct Salminen´s badly „spoken“ “Ma ti guarda dal grande Inquisitore” or Hampson´s (as it is customary nowadays) terribly bawled “orrenda, orrenda pace”? After the „Vergogna!“ things were going a little better. The introduction to the big scene of King Filippo benefitted from the gorgeous sound of the Wiener´s celli, while the scene of Filippo and the Grand Inquisitor lacked much orchestral structure.

giuseppeverdiThe best singing in this evening came from Ekaterina Semenchuck – keeping in mind the general level of singing in this performance. In the tricky  „Canzone del velo“ she helps herself with falsetti and chest-notes, in the terzetto with Posa and Carlo she shows certain lirico-spinto soprano qualities while she fails to provide the dark and solid counterpart to the singing of Carlo. Things are going better (as usually with mezzos of verismo style and technique) in the „Don fatale“ which in her case shows a solid high register. If she would have her voice rearranged and her technique corrected (and her vocal taste, too) she could become a valid Maddalena in „Chénier“ or Puccini-Manon. Unpresentable in this vocal state is Matti Salminen´s Filippo. With hardly any voice left he is shouting desperately in the duet with Posa and actually the voice even fails to respond in the beginning of his aria (“aMOr per me non ha”). Robert Lloyd, never more than average during his career is by now unpresentable, too. Nice make-up for his appearance in the final of the last act, though. Together with Kaufmann, Thomas Hampson gave the most dreadful versions of the „Dio che nell’alma” duet, where the main protagonists were not Posa/Carlo, but rather bad intonation, short breaths, falsetto notes and hollow low ones on both sides. Things were not getting any better in the arioso “Carlo che è sol”: short breath, a wooden and hard voice, open and forced singing, no flexibility, no legato. Actually, this was singing from a tenor, who has never learned to master the passaggio area, shouting „pace dei sepolcri” after more than shaky intonation in the only high register/cantabile phrase in this scene “sia benedetto Iddio”. “Per me giunto” lies pretty much in the baritone middle range, uncomfortable for a tenor whereas the tessitura of „Io morrò“ lies uncomfortably high for someone who knows so little about singing in the passaggio area. He does not save himself either with pesudo-stylistic intellect or a splendid stage-appearance – as Lucrezia Borgia says “il tempo vola”…. Vocal endurance is about only positiv thing one can say about Jonas Kaufmann: yet, there hardly is a more monotonous singer. Visceral bellowing, scooping, hardened and „steamrolled“  top notes (he hits right “sarò tuo salvator”, though), pale and colourless falsetti in the love scenes and the more elegiac music. All this is most far away from a real legato line or even vaguely nuanced singing. There are masses of examples, starting with the „Io la vidi“ as a mixture of whispering and shouting arriving at his entrance into San Giusto with uncontrolled cries in difficulty to sustain the phrases “ei sua la fè ah ei sua la fè”. As far as vocal inadeguacy for his role goes, he finds a congenial partner in Anja Harteros. Overburdened really by the vocal demands of this role she fails to expres the regality and solemness of this princess/queen. Elisabetta and Carlo are doomed and unhappy lovers, but they are NOT Mimì and Rodolfo. There is nothing „realistic“ in the music of „Don Carlo“ and if you are singing it as such you will destroy both the musical and literary spirit of this work. Harteros struggles with most of the lower tessitura of this role and sounds strained and tight on the high notes. Her first phrase “oh come stanca sono” reveals her difficulty to grasp a legato line in the lower and higher middle register and goes on thus throughout the second duet („compi l’opra a svenar corri il padre”) and the attack of “non pianger mia compagna” and “ti seguirà il mio cor” or “Francia nobil suol si caro”. Hardly any colours in her singing and little immaginative phrasing. Other singers, vocally little suited to fully live up to the demands of this role like Caballè or even the later Scotto at least did well in defining a character. The final addio of the two lovers was marked by Kaufmann´s soundless falsetti and Harteros´ hardened notes aggravated by the slow tempo of “ma lassù”.

Peter Stein was almost as disappointing as Pappano: one would have expected that he would have grasped the spirit of this grand-opéra and not employ (or let his singers employ) some sort of „Actor’s studio“ parody as we have seen from Harteros-Kaufmann: mannered grimacing, pseudo-fragility, an embarassing rolling-on-the-floor in the first act love duet and, after having separated, running towards each other and embracing again in a Cafè Momus-“Ci lascerem alla stagion dei fior” like style. There is no real congruent development of the work. The little that worked well seems to have been inspired by the Scala-„Don Carlo“ by Ronconi: the princess holding her people´s hands or the monk shooting Posa. Yet the costumes and scenografy (Woegerbauer e Heinrich) could hardly compete with the genius of Luciano Damiani. Little to cherish in this production, which – according to Italian newspapers – will be brought to the Scala by Pereira in two years.

Deutsche Zusammenfassung (von S.K.):

Dieser 5aktige, italienisch gesungene Don Carlo (mit kleinen Änderungen die Fassung von Claudio Abbado an der Mailänder Scala) war wohl unbestritten Salzburgs Prestige-Projekt zum 200. Geburtstag von Giuseppe Verdi. Ob das Resultat das enorme Mediengetöse rechtfertigt oder nicht liegt im Auge des Betrachters: geht es um den „Star System“-Hype und den „Ranglisten-Platz“ der mitwirkenden „Crême de la Crême“-Sänger hätte man von dieser Produktion Wunderdinge erwarten müssen; gilt als Maßstab für einen Erfolg der Anspruch, Verdi´s Musik und deren Anforderungen bestmöglich gerecht zu werden, ist die einzige gerechtfertigte Reaktion das spontane „Vergogna!“ aus dem Publikum zu Beginn der vierten Aktes.  Die beinah größte Enttäuschung kommt in diesem Fall (wie in vielen anderen Opernvorstellungen heutzutage) aus dem Orchestergraben: wenig überzeugende „Star System“ Sänger gibt es schon lange – was sie damals allerdings in vielen Fällen rettete war meist ein Dirigent, der mit den musik-historischen Aspekten der Partitur vertraut war und um die stilistischen Besonderheiten des jeweiligen Werkes  wusste. Nun ist vor allem der 5aktige „Don Carlo“ kein ausgesprochenes „melodramma“, sondern fällt eher in die Kategorie „Grand Opéra“, wie es etwa „Die Hugenotten“ sind. Obwohl Pappano ein erstklassiges Orchester an der Hand hat klingt es zumeist bloß laut und schwerfällig. Vergeblich wartet man auf Farben, Feinheiten und musikalische Details: schon der Chor in der Eingangs-Szene klingt nicht nur schleppend und schwerfällig, sondern ist einfach schlecht gesungen. Düsterer „Trommelwirbel“ und schweres Gepoltere kennzeichnet die jeweiligen Akt-Enden. Wenig ist hier an Mystik, an musikalischer Fantasie und spezifischer Farbgebung zu finden. Kaum Verve in der Eboli-Szene noch musikalische Struktur in den Duetten  Filippo/Posa und Filippo/Großinquisitor. Hervorzuheben ist im Grunde einzig das Cello-Vorspiel zu der Arie Filippos.

verdiGesanglich kann man – gemessen am generellen gesanglichen Niveau dieses Abends – Ekaterina Semenchuck als Eboli als einzige an diesem Abend hervorheben: In der „Canzone del velo“ behilft sie sich in der anspruchsvollen Tessitura mit falsetti und schweren Brust-Tönen, im Terzett mit Posa und Carlo hingegen vermisst man allerdings das volle Mittellage-Fundament, das mit dem Gesang Carlos kontrastieren sollte. Im „Don fatale“ zeigt sie dafür ein ausbaufähiges hohes Register. Im Grunde könnte sie – wenn sie ihre Stimme und ihre Technik neu adaptieren würde – ein annehmbarer lirico-spinto Sopran werden, eine solide Chénier-Maddalena oder Puccini-Manon. Matti Salminen ist in dieser stimmlichen Verfassung nicht nur ein unwürdiger und unzureichender Filippo, sondern in Aufführungen mit diesem Status nicht präsentabel. Im Duett mit Posa deklamiert, schreit er mehr als er singt, im Rezitativ zu seiner Arie verlässt ihn bei „aMOOr per me non ha“ vollends die Stimme. Schlimmer ist nur noch als trauriger gesanglicher Tiefpunkt Robert Lloyd als Mönch. Kaufmann und Hampson lassen uns eine völlig misslungene Wiedergabe des Freundschaftsduettes hören: Protagonisten sind hier weniger Posa und Carlo als vielmehr wackelige Intonation, Kurzatmigkeit, halsige Falsett-Noten oder hohle, gewürgte Töne. Kaufmann klingt so baritonal (und beide klingen so kehlig), dass man meist Mühe hat, die Stimmen voneinander zu unterscheiden (Hampson klingt wie ein tiefer Tenor, Kaufmann wie ein hoher Bariton), worunter der Effekt des Duettes leidet. Auch Hampsons „Carlo che è sol“ klang nicht besser: die Stimme steif wie ein Brett und kehlig, kein Legato, keine stimmliche Flexibilität offene und forcierte Töne. Wie meistens klingt er wie ein Tenor, der allerdings nie wirklich gelernt hat, die Übergangslage, den passaggio, zu meistern. Das „la pace dei sepolcri“ im Duett mit Filippo ist kehlig gebrüllt, die Phrase „sia benedetto Iddio“, die ein cantabile in der hohen Lage verlangt klingt wackelig und schlecht intoniert. Im Grunde klingt er immer noch wie ein verkappter Tenor: „Per me giunto“ liegt in der baritonalen Mittellage – unangenehm für einen „Tenor“ – und „Io morrò“ wiederum liegt unangenehm hoch für jemanden, dem der Übergang in die hohe Lage immer Probleme bereitet. Stimmliche Ausdauer ist so ziemlich das Einzige, was sich bei Gelegenheit über Jonas Kaufmann sagen lässt. Der Rest ist gutturales Stöhnen, unzählige angeschliffene und unsaubere Töne, steife Höhen („sarò suo salvator“ ist allerdings gelungen), farblose und kehlige falsetti in den Liebes-Szenen und wo elegisches Singen gefragt ist. So gut wie nicht vorhanden sind eine ausgeprägte Legato-Linie und farb- und nuancenreiches gesangliches Gestalten: weder in der ersten Arie, die eine Mischung aus Wispern und aufgetriebenem Forte war, noch in der Schlussszene, wo er bei “ei sua la fè, ah ei sua la fè“ nur unkontrolliertes Schreien hören ließ. Was unzureichende stimmliche Voraussetzungen für die Partie betrifft fand er in Anja Harteros eine kongeniale Partnerin. Überfordert mit den Anforderungen der Partie lässt sie die aristokratische Würde und stimmliche Souveränität der Elisabetta vermissen. Schon ihre erste Phrase “oh come stanca sono” zeigt, wie schwer sie sich tut, in der tieferen und höheren Mittellage ein echtes Legato zu singen, was sich im zweiten Akt im Duett („compi l’opra a svenar corri il padre”) und in der Attacke vonn “non pianger mia compagna” und “ti seguirà il mio cor” oder “Francia nobil suol si caro” wiederholt. Wenige Nuancen, kaum Farben in der Stimme, und mit den stimmlichen Ansprüchen der Rolle derart beschäftigt, dass einfallsreiche Phrasierung und gesangliche Prägung des Charakters dabei auf der Strecke bleiben.

Auch Peter Stein war eine Enttäuschung: man hätte von ihm erwartet, dass er die Stimmung und den Stil einer „Grand Opera“ weitaus treffsicherer umgesetzt hätte anstatt seinen Sängern eine Art „Actor´s Studio“-Parodie durchgehen zu lassen. Rollende Augen, maniriertes Grimassieren, spastisches Zucken, pseudo-Verwundbarkeit und ein aristokratisches Liebespaar, das sich im ersten Akt auf dem Boden wälzt… Die Art und Weise, wie sich Carlo und Elisabetta aus ihrer Umarmung lösten um danach wiederum vom jeweils anderen Ende der Bühne aufeinander zu zu laufen erinnerte mehr an Mimì und Rodolfo in “Ci lascerem alla stagion dei fior”. Mit dem Realismus einer „Bohème“ hat „Don Carlo“ überhaupt nichts zu tun. Dieses Werk trotzdem so zu spielen und zu singen raubt ihm seine musikalische und literarische Stimmung. Das Wenige, was in dieser Produktion funktioniert hat scheint der alten Scala-Inszenierung von Ronconi entlehnt: die Prinzessin, die ihrem Volk die Hände reicht, der Mönch, der Posa erschiesst… Laut italienischer Zeitungen wird man bald die Möglichkeit zum besseren Vergleich haben, wenn Pereira die Salzburger Produktion in zwei Jahren an die Scala bringt.

Verdi – Don Carlo

Atto II

Io vengo a domandar grazia alla mia Regina – Todor Mazaroff e Maria Reining (1937)

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55 pensieri su “Fratello Streaming. Don Carlo a Salzburg

  1. Sottoscrivo parola per parola e del resto anch’ io ho scritto più o meno le stesse cose. Solo una breve aggiunta. Si straparla tanto del fascino fisico e del talento attoriale che costituirebbero i valori aggiunti di questi “cantori attanti”. Vogliamo dire una volta per tutte che Kaufmann, oltre che pessimo cantante, è anche scenicamente stucchevole con quella perenne espressione tra imbambolato e trasognato, da bel tenebroso di provincia? E che la Harteros sembrava Heidi o la servetta Adele? Sul direttore, la cosa più comica l’ ha scritta un tale che ha parlato di languore schubertiano. Sembra diventata la scusa di comodo per tutte le direzioni malriuscite, questa. Come se Schubert fosse solo languore, poi…

  2. Interessante, puntuale e condivisibile recensione. Grazie inoltre per lo sforzo di pubblicarla in tedesco ed inglese, chissà che a forza di ripeterle certe cose non finiscano con l’essere capite anche dalla cosiddetta critica ufficiale.
    p.s.
    qualche giorno fa si commentava con Mozart2006 il costume a metà tra Mary Poppins e la cugina daltonica dell’imperatrice Sissi che indossava la Harteros in questo allestimento. Mozart definì in modo geniale il Filippo II del meraviglioso monologo dell’Escorial un, “monarca che indossava una Djellaba che lo rendeva simile in modo irresistibilmente strepitoso a Pierluigi Pizzi in vacanza a Ibiza”. Ecco, quando il responsabile della parte visiva dello spettacolo si fa prendere la mano dal carattere ludico del proprio lavoro e non si accorge di scadere nel ridicolo come in questo caso, vuol dire che abbiamo veramente toccato il fondo.

  3. Se li conosci li eviti. Questo il mio regionamento nel vedere la locandina del Don Carlo di Salzburg. Per prima cosa credo sia tempo di rivalutare il tanto osannato Pappano. Personalmente evito le sue direzioni che la BBC elargisce a più non posso. In secondo un’altro cantante superblasonato come il Kaufmann mi da sui nervi per la sua presunta bitumatura della voce: diciamolo che è baritono e basta, solo che le parti amorose del baritono sono poche ed infelici ed allora complice la critica togata (di chè?) ne parla di un fenomeno, ma ripeto spacciare per tenore un baritono è un delitto.
    La sua presunta baldanza giovanile è stata smontata dall’amico Mozart. E’ solamente un oggetto del desiderio di spettatori e spettatrici. Per mè il Don Carlo con un Filippo e il grande inquisitore da ricovero per anziani non lo ascolterei neppure in radio. E così ho fatto, e non me ne pento.
    http://www.youtube.com/watch?v=dxT6y1FBs6Q

    • Ma tu pensi davvero che se i lavori di Stein sono più “fedeli” all’originale e non mostrano un WC al posto di un trono regale, Stein non è teatro di regia? Allora sarai molto sorpreso di apprendere che anche Zeffirelli è teatro di regia, come ogni altro teatro in cui il regista – conservativo, subversivo, schifoso, talentuoso o mediocre, poco importa – impone una visione dell’insieme senza che la diva si apporti il prorio costume e che tutti i membri della produzioni vadano ognuno a conto loro.

      O stai per caso negando il fatto che Stein sia figura di primo piano della regia tout court?

  4. Come spiega, per esempio, Fredric Jameson in “Regieoper, or Eurotrash?”, New Left Review, 64 (2010), pp. 111-129, Regietheater e Regieoper hanno un significato, anche storicamente, specifico e non indicano affatto “ogni altro teatro in cui il regista – […]– impone una visione dell’insieme […]” Anzi, direi che è proprio un certa idea di ‘visione dell’insieme’ che Regietheater/Regieoper prendono di mira.

    U

    • bene, chiamiamolo allora regista molto famoso che ha fatto uno spettacolo brutto, ingenuo e poco colto, che gode di gran fama nell’opera avendo fatto grandi cose nella prosa, assai meno nella lirica. Va bene così?
      A parte la puntualizzazione bibliograficoaccademica, variabile da latitudine a studioso, la tua opinione quale è?

    • Quel significato (quale poi? non vuoi precisarlo?), se si tratta di un concetto molto piu ristretto di Regietheater, messo in luce da Jameson non è affatto indiscutibile, perché per esempio un autore tedesco come Guido Hiß definisce Regietheater come un teatro nel senso indicato da me sopra.
      Poi ovviamente quando si parla peggiorativamente di Regieoper come Eurotrash ci si riferisce ad un Schlingensief o Bieito e non a Visconti o Schenk.

  5. in un´intervista Franz Welser-Möst diceva che Kaufmann aveva appena quattro giorni di prove con Peter Stein – figuriamoci il tempo di prove con orchestra e cantanti. E questo poi per preparare la grande produzione prestige” si Salisburgo….

  6. Da Jameson, p.118: “an articulation of the contradictory political and cultural tendencies latent within the work itself, which is not thereby reinstated in some new and postmodern version of a ‘classic’, but rather offered as an immense Lacanian ‘synthome’.”

    U

    • ok ulisse. Ora però dicci cosa pensi tu. Possiamo citare mille libri, come per i trattati di canto. Occorre il passaggio dal libro al teatro vero, cantato e rappresentato. Parliamo di ciò che sentiamo e vediamo. Occorrono orecchi ed occhi…..dicci che pensi.

      • Il mio intervento era motivato dal fastidio di vedere accomunare artisti diversi in un unico mazzo.

        Quanto allo spettacolo, non l’ho visto. Di quel poco che ho ascoltato ho trovato bello il quinto atto.

        U

        • bene! Personalmente non accomuno in nessun mazzo. Trovo meramente accademiche queste classificazioni del visual, soprattutto oggi dove abbiamo a che fare solo con l’obsolescenza di personalità che forse non meritano interessi accademici tanto sofisticati. Che abbia mai fatto stein di nuovo o assolutamente valido nell’opera è questione che non tocca i sublimi teorici del teatro visuale, che a mio avviso dimenticano sempre un dettaglio: che la prosa è diversa dall’opera. Stein di opera mi pare poco esperto, e forse passa di qui solo perchè fa blasone e da soldi. All’opera non mi pare abbia dato alcun contributo specifico. Lo spattacolo salisbrghese poi mi è parso una palata…..di lusso, per un pubblico felice di masturbarsi con nomi altisonanti ma incapace di distinguere il grande teatro da una malfatta routine ( perchè oltre ad essere routinario, scusami, faceva schifo e mica poco!).

    • Ah, il “synthome” di Lacan… Capito…
      Va bene, in quel senso stretto avevo usato Rgietheater anch’io parlando dei Maestri Cantori di Herheim. Ma non si deve comunque dimenticare che ci sono questi due significati, uno più largo, l’altro più stretto, sotto “Regietheater”. Alla fine quello stretto fa parte di quello largo, perche si può imporre una visione politico-culturale-psicoanalitica-sint(h)omatica anche non facendo niente di troppo appariscente sul piano simbolico. Basta un gesto non presente nelle didascalie.

  7. Vorrei solo sapere se tra di voi, qualcheduno
    abbia nella sua vita mai ascoltato qualcosa di inferiore, parlando di canto, a cio’ che e’ uscito dalla bocca semiaperta del Sig.
    Salminen. Vergognoso da parte di Pappano aver tollerato una
    simile mostruosita’. Assolutamente vergognoso.

    • beh, il fiesco di furlanetto era mica male…..si, forse un filo meglio ma…cmq Pappano sta percorrendo bene la deriva dello starsfucking di lily. Anche il Ballo era brutto….come il suo secondo tell. Continua a prendersi cantanti improponibili come nulla fosse…..francamente lo ricolloco vicino a Bimbumbam, a sir Ratto and c. L’opera muore grazie all’atteggiamento complice e o all’ignoranza in fatto di canto delle grandi bacchette, è indubbio.

  8. Sul blog catalano In Fernem Land troverete i link per scaricare il video completo da Rapidshare.
    Io l’ ho già scaricato e inserito nella cartella Schifezze Epocali, protetta da una password che lascerò ai miei eredi. Cosí i miei nipoti potranno farsi quattro risate alla mia memoria dicendo: “Ma quanto scemo era lo zio, a perdere il suo tempo guardando queste porcherie?” :)

  9. Per Aureliano.

    Sono distante da te tremila anni luce nel
    voler rendere uguali le prestazioni di Hampson e Salminen.
    E se in un punto sono ambedue vociferanti,
    (sei veramente gentile ed elegante ad usare questo
    termine), che sia l’1.57 o altro, (figurarsi, Hampson
    vocifera in ben piu’ di un’occasione ),
    il primo e’ una panada vocale mal riuscita, ma molto mal
    riuscita, quell’altro che non voglio piu’ nominare,
    e’ quello che della panada mal riuscita rimane dopo
    l’evacuazione. Ma come fai a paragonarli, come fai???
    Uno e’ un poveretto dei nostri tempi che ogni
    tanto tenta, almeno tenta dico, se non di cantare,
    (cosa oramai a lui negata), almeno d’esprimere,
    d’avere un minimo di dignita’ scenica, di cambiare
    espressione, l’altro emette tutti quei suoni corporali,
    dalla flatulenza all’eruttazione che fanno parte
    del fisico umano vivente, ed e’ pure inguardabile,
    ed e’ pure a disagio in palcoscenico, e non fa’
    che esibire una perenne stupida inspiegabile
    irritante maschera in qualsiasi situazione Filippo si trovi.
    Non ha emesso una nota, una!
    Solo rumori e sbadigli, ed e’ riuscito a stonare pure quelli…
    uno dei piu’ grandi bassi wagneriani in circolazione!

    Quando il pubblico ha applaudito il monologo,
    te lo giuro Aureliano, mi e’ venuto il magone e mi son
    messo a piangere. Non e’ possibile. Non e’ proprio
    possibile almeno per me reggere una simile incapacita’ d’ascolto.
    Come non e’ piu’ possibile confondere il cantante
    incapace tecnicamente, stremato vocalmente, monotono interpretativamente, come e’ senz’altro Hampson, intendo dire l’Hampson di queste recite, dalla nullita’ assoluta.

    Se dall’uno a dieci Hampson meritava al massimo 1 e mezzo,
    per il finnico si sarebbe dovuto ricorrere ad una
    conta algebrica, dove il -1 di Rydl, e il -2 di quell’altra
    montagna di idiozia vocale che faceva l’inquisitore,
    sarebberoro comunque stati superiori all’innominabile. Ciao.

    • Ho ascoltato un pezzo del duetto tra Filippo e Posa e ho provato imbarazzo io per loro, e dovrei dire molto altro ma preferisco autocensurarmi: le perifrasi non sono il mio forte. Ho ascoltato poi il monologo di Filippo ed il dialogo con l’inquisitore, e ho riflettuto sul fatto che tra coloro che apprezzano questa roba, ci sono anche quelli che mi sbeffeggiano per aver io proposto come esemplare modello di canto in corda di basso, la voce di Edouard de Reszke. L’ennesima conferma di essere nel giusto. Chi non apprezza De Reszke, si merita Salminen e compagnia.

      • No caro Mancini,
        chi non apprezza De Rezque, nel brano che tu a suo tempo hai postato, non si merita l’innominabile, si merita di meglio!
        Nessuno ti sbeffeggia, caro, ma nessuno vuol esserre preso per il culo!
        E vorrei proprio sapere chi, tra quelli che qui’ intervengono, ha mostrato di apprezzare quell’assoluta schifezza del finnico cantore.
        Non mi risulta che qualcuna abbia osato ben parlarne. O sbaglio? Sarebbe troppo!
        E poi che paragoni…le rovine del Partenone contrapposte ad una cloaca!

        • Provo a dirlo in un altro modo. Non capire il valore del canto di De Reszke, significa non capire in cosa consiste l’attuale decadenza delle voci, soprattutto dal punto di vista dell’imposto. Per questo ho detto che chi non capisce De Reszke, merita Salminen.

          • Ahahahahah!
            Mancini mio!
            Adattabilita’, come diceva qualcheduno e’ segno d’intelligenza! Ciao caro,
            messa giu’ cosi’, hai proprio
            ragione. Con affetto. Miguel.

    • ahahahahah…. Diciamo che Salminen ha la colpa di cantare male e di volerlo fare ad un età che lo vede completamente sfasciato, Hampson ha a suo carico il dolo di cantar male e non aver attenuanti, neanche l’età.
      In ogni modo ha ragione Mancini, sono imbarazzanti. Ma io mi chiedo, ma al pubblico in sala cosa passava per la testa? perché dando pur per scontato che di canto i pubblico non capisce più nulla, dando pur per assodato che un orecchio allenato a un suono bene emesso il pubblico non ce l’ha più, ma quantomeno sentire che sono stonati, che parlano, che urlano, neanche questo sente più il pubblico pagante? a parte quell’isolato “Vergogna”, ultimo lampo di buon senso, ma qua ragazzi era veramente da seppellirli di fischi…. o non si fa più perché non è politically correct?
      mah!

  10. Scusate, posso permettermi un piccolo OT?
    Anch’io deploro la decadenza del ROF e trovo giusto non risparmiargli critiche; in quanto al Don Carlo di Salisburgo non l’ho visto ma posso immaginare che sia stato censurabile sotto diversi aspetti (ho sentito solo un penoso “Ella giammai m’amò”: Salminen è stato un grande basso, solo qualche anno fa da me ascoltato come splendido Marke, ma come Filippo era semplicemente alla frutta, oltre che del tutto fuori parte).
    Però allora che parole usare, che termini trovare per definire l’Aida di Taormina 2009 che è stata trasmessa da Raiuno qualche sera fa? Io ne ho visto mezz’oretta ed era una roba al di là di ogni immaginazione: orchestra raffazzonata, tempi assurdi, cantanti allo sbaraglio (c’era anche il compianto Licitra), ballerine che facevano gli stacchetti di Striscia la notizia. Il tutto in un atmosfera di dilettantismo improvvisato veramente impressionante: in confronto il Tell e l’Occasione fa il ladro pesaresi rifulgevano come esempi di raffinata concertazione. Ora, si potrebbe dire che l’evento non merita particolare attenzione perché non recentissimo e perché il festival di Taormina non è blasonato come Salisburgo, Bayreuth o Pesaro: ma il punto è che Raiuno trasmette questi spettacoli, e non altri. è scandaloso che nelle rarissime occasioni in cui sul primo canale nazionale viene mandata un’opera integrale si scelga una roba come questa, per i soliti agganci affaristico-politici che è superfluo ricordare. Stinchelli avrà magari le sue ruggini personali con Enrico Castiglione, ma trovo stia facendo benissimo a non dargli tregua e a battere sull’argomento. è veramente un caso di DISservizio pubblico, ampiamente diseducativo: magari c’è anche qualche spettatore non tanto sprovveduto da non accorgersi che le serate operistiche con la Clerici erano pagliacciate, ma che l’altra sera invece ci è cascato e ha pensato: “ah ecco, allora questa è questa la roba seria: mah…”

    • permettimi la battuta e tale è : quanto a ruggini stinchelli è una cancellata, vittima di decennale incuria. Spesso trova o potrebbe trovare innanzi a sé cancellate di eguale condizioni di mancata manutenzione!!!!!

      • Credo di capire quello che vuoi dire, ma il mio post non verteva su Stinchelli bensì su un’Aida impresentabile e sulla sua vergognosa trasmissione da parte della Rai. Credo che questo dovrebbe scandalizzare tutti, a prescindere dalle ruggini che Stinchelli può avere con Castiglione o con altri… Poi per carità, ognuno si occupa di quello che vuole.

  11. Caro, eudcato e gentile Idamante.

    Ho visto in teatro per la prima volta l’innominabile
    nel 1972……poi dal 74 me lo ritrovai piu’ volte
    anche a Milano. Di quali splendidi Marke
    mi parleresti? Guarda che anche se vai a finire
    su Hagen, Daland, Inquisitore, Sarastro,
    Commendatore e compagnia bella, il discorso
    non cambia, il canto e’ cosa a lui sconosciuta.

    • Carissimo amico fraterno Fleta.
      Mi riferisco al Tristan scaligero di qualche anno fa dove, ad onta dell’evidente età avanzata, l’Innominato mi parve splendido per suono e nobiltà espresssiva, sicuramente il migliore del cast nella recita a cui assistetti. Ai ruoli da te citati del repertorio tedesco (dove certo fu infinitamente più a suo agio che in quello italiano) aggiungerei almeno il suo Osmin e le sue esecuzioni bachiane. Non era però sinceramente mia intenzione entrare in una discussione sulla vocalità di Salminen, visto che l’ho citato fra parentesi definendo fra l’altro penosa la sua prestazione. Diciamo che prendo atto della tua bocciatura, come di quella di altri, e che cercherò di farmente una ragione. Mi permetto però sommessamente di ricordare che i veri abominii, come dicevo, sono altri… Grazie del link e saludos

      • Ok, chiudiamo il discorso, come vuoi.
        Come la penso lo sai, per me rimane
        quanto di peggio abbia mai sentito.
        Compreso Marke, e soprattutto in
        Osmin, Il suo Bach non lo conosco,
        e non voglio conoscerlo. Buona serata.

  12. Ho visto velocemente più parti del video e mi sono fermato sulla scena che più adoro di quest’opera: il duetto Filippo-Grande Inquisitore.
    A parte le vociacce e la persistente aritmia, la mancanza di fraseggio in Salminen e un’accenno di fraseggio nell’Inquisitore che subito abbaia, ma come ACCIDERBOLINA li hanno vestito?
    A Filippo hanno messo una vestaglia con motivi moreschi (l’avranno presa dal baule di Salminen perché magari era l’unica cosa che gli stava) ed hanno vestito il grande inquisitore in abito vescovile (assumendo la morte di Don Carlos il 25 marzo 1568, al tempo si aveva come grande inquisitore Diego de Espinosa – dal 1567 al 1572 – il quale divenne cardinale il 24 marzo 1568) e comunque color prugna …
    4:14:00 ma che luci hanno messo ? o_O

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